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Sunday, 08 January 2017 00:00

Tenetevi le ghiande, lasciateci le ali

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Ci penso da un po', da quando sono andata a sbattere contro la piramide che si erge al centro della Feltrinelli composta dalle copie del nuovo libro di Roberto Saviano. Dopo la diatriba tra il Sindaco di Napoli e il suddetto scrittore, mi è ritornato in mente questo pensiero un po' ossessivo, una specie di fastidio come quando cammino per strada e il motorino molesto mi sfreccia a due centimetri e per un paio di minuti dimentico tutto e mi agito in preda all'ansia e alla maledizione facile.

Quindi tra fatti strani e strani fatti, leggendo il post su Facebook di De Magistris e leggendo la risposta di Saviano, se è vero, come dice un mio caro amico, che vivo per immagini, a me ne è venuta in soccorso subito una. Sono molto piccola e già insofferente, mi lamento per qualcosa e probabilmente nel malcontento generale non salvo niente e nessuno. Per me il nero è più nero di quello che in realtà è, sono intransigente col mondo e rigida come una statua con me stessa. I miei genitori, i libri e più in generale l’esperienza, ci metteranno del tempo, tanto tempo, pazienza, parole ed esempi prima che possa sviluppare quell'elasticità mentale dalla quale subentri, in un secondo momento, la capacità di comprendere le cose, di umanizzarle, di vederle prima nel loro totale e particolare e poi, se mai, condannare o concedere clemenza. Ci impiegherò ancora più tempo a eliminare la parola "condanna" dal mio vocabolario, preferendole parole più morbide e forse più incisive: un'azione che derivi dallo sviluppo costante di quella facoltà meravigliosa chiamata, a mio parere poeticamente, spirito critico. Sì, perché ci vuole spirito per saper cogliere ciò che di visibile e invisibile c'è nelle cose, nei fatti e nelle persone, ci vuole una corrispondenza di linguaggi, di bellezze, di amore per ricevere quel qualcosa che poi serve come materia per la seconda parte della formula perfetta: critica.
Nell'enciclopedia Treccani leggiamo: Crìtica: s. f. [dal gr. κριτική (τέχνη) «arte del giudicare»]. Bisognerebbe sempre ritornare ai significati originari dei termini con i quali qualifichiamo le nostre azioni, senza fermarsi a quel principio, ma per iniziare da lì a capire in che direzione muoverci, cosa non smarrire per strada, cosa salvare e cosa lasciare.
Ora, giudicare è un termine verso il quale nutriamo una sorta di diffidenza, perché anche in questo caso si è smarrito il reale significato in un campo semantico grande quanto l'ignoranza. Per Immanuel Kant solo attraverso il giudizio possiamo conoscere, dove giudicare non significa affatto puntare il dito, recriminare o, peggio ancora, condannare dall'alto di chissà quale pulpito, piuttosto è quella capacità insita in ognuno di noi di fare sintesi (e la sintesi è il grande valore della poesia) del reale e dell'ideale, un connubio perfetto tra estetica e logica dove, qualora mancasse uno di questi elementi andremmo incontro alla cecità o alla vuotezza. Mettere insieme, abbinare, discriminare come sinonimo di distinguere e separare sono tutte attività che richiedono una grande attenzione, una meticolosa cura, eppure posso senza dubbio affermare che l'impegno verso queste due operazioni apparentemente opposte, ma complementari, non è un diritto, ma un dovere e il dovere spesso e volentieri essendo movimento verso qualcosa o qualcuno è anche un'arte.
La scrittura è un'arte, tra le più nobili. Ad oggi non ho timore nel dire, dopo la democratizzazione delle arti, che la letteratura concorre alla costruzione di quel senso comune pronto a trasformarsi in sentimento comune, in opinione pubblica fino ad arrivare alla credenza figlia di ogni religione e ideologia. Per fortuna l'idea che veicolano i libri è quasi sempre scevra da qualsiasi dogmatismo, esiste il mistero, ma non l'inaccessibilità che ha reso grandi e spaventosi i culti. La letteratura non fonda il suo potere sul rispetto, l'obbedienza e la paura dell'ignoto, la letteratura si fa stimare e nella stima non c'è passività di una delle due parti. Ancora troviamo quella fusione tra ragione e sentimento, tra ideale e reale, l'entropia del mondo alla quale il più grande prodotto umano – la cultura – ha tentato di porre rimedio, senza disperderne le ricchezze, anzi, conservandole in quel bacino sempre pieno di varietà e contraddizioni che a distanza di milioni di anni ancora stuzzica il bisogno di trasformare e modulare le voci, non per farne un coro armonico, ma una poliedrica sinfonia.
Detto questo preciso anzitempo che quello che scrivo non è affatto un'apologia dell'uno o un'accusa dell'altro, in verità voglio solo capire come sia possibile che uno scrittore rinunci a narrare i colori e le forme nelle infinite sfaccettature che entrambi presentano, come ci si possa privare e quindi depotenziare la propria opera sottraendole la vibrazione della bellezza e dell'onestà, rubandole la speranza. Quando poco prima parlavo di corrispondenza di linguaggio e amore, intendevo insinuare l'ipotesi che chi non sa parlare o scrivere di tutto quello che è presente in una realtà, evidentemente con quella realtà non condivide lo stesso modo di esprimersi e, peggio ancora, non ama a sufficienza quella realtà per riconoscerle i meriti, perdendo il diritto di recriminarle i demeriti.
Mi sono anche chiesta se poi, alla fine, sia necessario amare qualcosa per raccontarla o se l'amore non sia un presupposto inalienabile e totalizzante rispetto a qualsiasi cosa si intenda raccontare. La richiesta di fondo non è quella di farsi portavoce della verità, così labile e circostanziale, neppure della giustizia, ancora più instabile, ma la vera pretesa di chi legge verso chi scrive e di chi scrive verso se stesso contempla l'onestà, la realtà visibile e invisibile, perché ancora mi prodigo a dire che non esiste una sola dimensione reale, esiste il possibile, il pensato, lo sforzo e la lotta magari fallita, ma degna di nota, esiste la speranza e il più grande dei motori del mondo: il desiderio. Perché non parlare anche di questo desiderio, perché non affiancare a un libro di duecento pagine in cui si romanza la vita di boss e criminali, si narra lo stato di degrado e l'impossibilità di riscatto, perché non affiancare un piccolo, minuscolo libriccino modesto in cui il tanto fatto e quello in procinto di fare abbiano spazio al pari dell'orrore.
"Io devo scegliere cosa vale la pena raccontare, se l'orrore o il desiderio. E ho scelto il desiderio. [...] Perché è quello che ci rende vivi". È Paolo Sorrentino che mette in bocca queste parole ad uno dei protagonisti di Youth e Sorrentino ha ragione. L'abitudine alla bruttura è pericolosa, annichilisce gli uomini, la denuncia della violenza può diventare elogio alla violenza se questa non è accompagnata indissolubilmente dalla possibilità del riscatto. Non si tratta di manicheismo, è più una questione di completezza delle situazioni, di responsabilità, di consapevolezza del potere insito nello strumento che si adopera per divulgare. Io non voglio paradiso o inferno, né l'amara e benigna consolazione di un purgatorio, io voglio che gli uomini si affezionino alla vita e questo attaccamento non può avvenire se l'unica realtà possibile è quella della privazione della vita, in agguato e invitabile, lapidaria come una condanna biblica. I poeti, gli scrittori, gli artisti hanno il dovere di creare una sintesi: le antitesi possono e devono stare insieme, solo così, da questa grezza materia impastata, può venir fuori la potenza di un ossimoro che è superamento dell’orrore e compimento poetico della vita.


P.S.: Quando mi chiedono cosa abbia intenzione di fare in futuro, nell'elenco dei miei desideri non manco di dire: "Rendere a Napoli tutta la bellezza che mi ha dato, vederla crescere, senza snaturarsi mai".
Io vorrei raccontarvela questa città, non per essere creduta, ma perché voi possiate gioire del suo spirito unico e irripetibile. Vorrei dirvi che ogni cosa creata senza rischio non vale molto, e che qui tutto nasce dal rischio, tutto trema e niente è muto e inorganico. La bellezza che questa città offre può trovare spazio nella definizione di resistenza. Per questo ogni cosa è più bella a Napoli, perché non esiste splendore e valore più grande di una radice che affiora dalle rovine. Ed io sono fermamente convinta che Omero abbia cantato una Grecia distrutta e non perfetta.

Questo è il solo incanto che conti.

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