“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 03 January 2017 00:00

Srebrenica, racconto di un massacro

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“Vorrei non dovermi ancora una volta svegliare in mia compagnia”


 

Sto spanciata sul divano, con il libro tra le mani e la luce che filtra tra i rami dell’albero di Natale ad illuminarmi le pagine.
“Tutta colpa degli olandesi” esordisce una voce maschile alle mie spalle, distogliendomi dall’impeto distruttivo del colonnello Dick, che piange amare lacrime sulle sue mani insanguinate dai cocci di cornici ridotte in pezzi.
A Srebrenica, nei quattro giorni del genocidio in cui morirono tra gli ottomila e i diecimila musulmani bosniaci, erano presenti quattrocentoventinove caschi blu olandesi. Era il 12 luglio 1995.

Al ritorno dalla fallimentare campagna in Bosnia, il comandante Thomas J.P. Karremans fu promosso colonnello e grande fu il giubilo, finché nel 2002 il contingente olandese fu ritenuto responsabile dal rapporto del Nederlands Instituut voor Oorlogsdocumentatie di negligenza per non aver impedito il massacro.
I caschi, entrati nella città sotto assedio nel marzo 1993, promisero alla popolazione senza cibo e acqua che sarebbero stati da quel momento sotto la protezione delle Nazioni Unite. Ma così non fu.
Le immagini dei conflitti odierni ci accompagnano da giorni, con la forza tipica di ogni spettacolo atroce, che a poco a poco si tinge di un rosso sempre più intenso: il rosso del sangue, che tinge le vesti dei corpi ammassati e le strade pietrose delle città e quello del Sole che tramonta ogni giorno su un ennesimo massacro.
Parlare di Srebrenica a pochi giorni da Aleppo, significa riportare l’orologio indietro e raccontare una storia senza lieto fine e dal sapore acre, di cui Marco Magini ha parlato a me in queste notti dicembrine, nel suo romanzo d’esordio Come fossi solo, nato a circa vent’anni dall’accaduto e finalista nel 2013 al Premio Calvino.
Ossessionato dal ricordo delle immagini del telegiornale dell’epoca, l’autore, nato ad Arezzo nel 1985 ed al momento dei fatti adolescente, scava tra i materiali relativi al processo di Dražen Erdemović, depositati al Tribunale penale internazionale, e tra le pubblicazioni coeve all’evento: Srebrenica, Record of a War Crime di Honig Ja Willem e Both Norbert, edito da Penguin nel 1996.
Il vero protagonista ed eroe della storia, unico personaggio realmente esistito ed attorno al quale gli altri due sono stati ricamati, è questo ragazzo di nazionalità croata, un soldato semplice arruolatosi nel Decimo Distaccamento Sabotatori dell’esercito della Republika Srpksa.
È un volontario, “poco più che un bambino”, innamorato di una causa che sarà il solo a rivendicare, sottoponendosi ad un processo che lo vide come unico imputato e dichiarandosi colpevole, davanti al Tribunale dell'Aja il 31 maggio 1996, di imputazioni che la difesa avrebbe smontato in pochissimi passaggi tanto esagerate ed inverosimili si prospettavano.
A massacrare i bosniaci arresisi furono in otto, compreso Erdemović, condannato a dieci anni di reclusione, il 29 novembre del 1996. Da solo, il ragazzo, uccise cento persone tra i diciassette e i sessanta anni, armato di fucile automatico Kalashnikov.
Di lui, colto in un immaginario flusso di ricordi dell’antefatto alla macabra vicenda, Marco Magini traccia il ritratto di un uomo disposto a tutto pur di portare a casa due soldi, che si muove di villaggio in villaggio alla ricerca di un modo per far fruttare le mani, riluttante all’idea di battezzare la sua primogenita Sanja perché convinto di non vivere in un tempo adatto per i battesimi. Sogna di cercare fortuna in Svizzera presso i parenti di sua moglie Irina, ma passo dopo passo la realtà prende il sopravvento su ogni fantasia.
A lui, si affiancano due figure nate dall’immaginazione dell’autore, che suggestionano il lettore fin da subito.
Dick, il primo dei personaggi con cui stringiamo amicizia: un casco blu, un olandese, uno straniero in una terra in cui non esiste più nessuno che non lo sia, macchiatosi di aver consegnato a morte certa i civili di Srebrenica, dandoli in pasto a Mladić. Apprezza i colpi di mortaio che sente giungere dalle montagne, che non mirano ad uccidere ma quasi a ricordargli perché lui sia lì a fare da contraltare inconsapevole ad Erdemović nella pulizia etnica. Romeo Gonžalez, magistrato spagnolo del Tribunale penale internazionale, troppo impegnato a sopportare la sensazione di fastidio causatagli dalla toga troppo lunga per prestare anche attenzione all’imputato. Non crede nel suo lavoro più di quanto non ci crederebbe un impiegato d’ufficio, perché “la storia ufficiale di quel processo”, dice, “era stata scritta altrove”.
Tutti e tre, uniti dal sottile filo rosso degli eventi, percorrono a modo loro la strada per serbare la memoria di un evento ormai dimenticato e su un luogo in cui “l’unico modo per restare innocenti era morire”.
Il romanzo, che si fa sfiorare da critiche nell’ambito del registro linguistico in alcuni dettagli poco curato, è a mio parere meritevole di lettura e, nel caso remoto in cui io non vi abbia troppo annoiati e voi abbiate deciso di leggerne il contenuto, di certo aprirà un nuovo spiraglio di discussione su una realtà che ancora non può definirsi serena.
Solo una cosa mi domando ancora, mentre ripongo il libro sullo scaffale: cosa c’entra il soldato russo in Cecenia, raffigurato sulla copertina?

 

 

N.B.: su Come fossi solo si veda anche:
Marco Caneschi, La logica del compromesso (Il Pickwick, 9 maggio 2014)

 

 

Marco Magini
Come fossi solo
Giunti Editore, Firenze, 2014
pp. 207

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