“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 08 December 2016 00:00

Così l'attrice Knipper non dimentica lo scrittore Cechov

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Era appena cominciata la primavera quando Čechov, di ritorno a Mosca da Jalta, dovette mettersi a letto. Accadeva di rado. Normalmente, infatti, sopportava le indisposizioni non lasciandosi abbattere: metteva le pantofole, certo, e – nel caso capitasse d'inverno – stringeva al collo una sciarpa in più; s'accomodava così in poltrona o sulla sedia posta accanto alla finestra che dava al giardino. Leggeva, appuntava, scriveva; leggeva appuntava e scriveva: in questo modo lottava contro la malattia. Stavolta però la malattia sembrava avere la meglio: febbre alta, conati di vomito e sputi di sangue, dolori alla schiena e alle gambe – soprattutto alle gambe – e fastidi gastrici che gli impedivano di mangiare altro che non fosse della semola scaldata e passata in un colino, ormai diventata una poltiglia liquida. Visitato dal medico di fiducia, il dottor Taube – un medico che si fa visitare da un medico: sarebbe potuto essere un ottimo spunto per una pièce – dovette arrendersi al consiglio: andate per qualche settimana a Badenwailer; è una località perfetta per la cura dei malati di tisi. Vedrete che starete meglio.

Ai primi di giugno, dunque, Anton e Ol'ga partirono.
“A Badenweiler, i primi tempi, Anton parve rimettersi in salute: camminava un pochino vicino alla casa, perché lo tormentavano l'affanno e l'enfisema polmonare; ogni giorno io e lui” – scrive la moglie – “ce ne andavamo in giro in carrozza ed egli amava molto queste passeggiate lungo la strada” perché “le vie erano fiancheggiate da giardini di ciliegi meravigliosi”. Lontano s'udiva un ruscello e si intravedevano piccole case confortevoli e qualche palmo di terreno appariva di tanto in tanto, “coltivato come orto, assieme ai gigli, alle rose e ai garofani”. Ben presto però Čechov fu costretto di nuovo a fare ciò che detestava: indossare il pigiama e la veste da camera, piegare le ginocchia e sedersi sul letto, prendere un attimo di respiro, sentendo così una fitta che gli trafiggeva il torace e scrollare le ciabatte dai piedi, adagiare la schiena alla pila di cuscini laterali, a sua volta adagiata alla parete, e sistemarsi: il busto in verticale, come quello di un uomo seduto alla scrivania; le gambe distese, come quelle di un morto nella bara.
“Anton soffriva sempre il freddo, nella camera entrava poco sole e al di là del muro, la notte, sentiva la tosse e avvertiva la presenza di un malato grave”: il suono rauco e ripetuto di questa tosse gli sembrava un annuncio, una premonizione, un'avvertenza insopportabile. Cambiò dunque stanza e lì riprese colore e sorriso: la mattina leggeva i giornali, talvolta arrivava a consumare i pasti nella sala comune e – più di rado, ma sempre quando gli era possibile – allungava il suo tragitto in giardino o, in mancanza di forze, “passava il tempo seduto al balcone della camera e osservava con grande interesse la vita” scorrergli accanto. Una mattina fu scosso da un fremito: voglio un vestito di flanella bianca, non ne ho mai avuto uno! Ol'ga – placando i capricci di questo bambino dall'aspetto così adulto – corse a ordinarlo nella vicina Friburgo: l'abito sarà pronto tra tre giorni, disse il sarto alla donna. Tre giorni, ovvero per la data esatta della morte. Un abito nuovo che giunge in tempo per il funerale: anche questo sarebbe potuto essere un ottimo spunto per una pièce.
“Cominciò a fare troppo caldo. Il mattino appresso, mentre camminava per il corridoio, Anton venne colto da un grande affanno” che lo piegò in due, facendolo sputare sul pavimento. Il dolore lo allarmò: riuscì a farsi trasferire in una camera con le finestre a Nord; aumentò il numero di cuscini dietro la schiena da tre a cinque; iniziò a respirare l'ossigeno; cominciò a bere solo caffè mentre il cibo – da quel momento – perse per lui ogni sapore. A Ol'ga ordinò – con un impeto severo che non aveva mai dimostrato – di scrivere alla banca perché mandasse tutto il denaro che era rimasto e le ordinò anche che, questo denaro, fosse mandato a suo nome: “A tuo nome, Ol'ga. Hai capito bene: che lo mandino a tuo nome” riuscì a dire, prima di aggiungere, a più bassa voce: “Non avere paura”.
“La penultima notte fu spaventosa. Faceva molto caldo e scoppiava un temporale dopo l'altro. Si soffocava. La notte Anton chiedeva di aprire il balcone e la finestra ma ora tenere aperto era orribile perché una nebbia densa, lattiginosa, saliva fino al nostro piano e – come una schiera di spettri dalle forme fantastiche – si insinuava e si versava nella camera” scrive Ol'ga nel suo diario. “Avevamo spento la luce elettrica” – annota – “perché dava fastidio ai suoi occhi: ardeva perciò un residuo di candela ed era tremendo il pensiero che la candela potesse non bastare fino all'alba mentre continuavano a penetrare nuvole di nebbia”. Čechov così dormiva, più o meno serenamente; solo ogni tanto si destava, animato da una preoccupazione impellente: che anche sua moglie dormisse, lì accanto a lui. Ol'ga dormiva? No, Ol'ga non dormiva: Ol'ga recitava la parte di una donna che dorme.
Il mattino dopo il dottore le consigliò di far venire i parenti dalla Russia: chiami almeno una sorella o un fratello del malato, credo sia il caso. Nel frattempo Anton mangiò del semolino e chiese che il letto fosse spostato quanto più vicino alla finestra: chissà che non si vedano anche da qui i ciliegi… Non tutto era ancora finito: nel pomeriggio immaginò un nuovo soggetto (in una lussuosa località di cura una serie di pasciuti stranieri – inglesi e americani – dopo aver dedicato la loro giornata agli sport più diversi attendono finalmente la loro cena quando si scopre che il cuoco se l'è squagliata e questa tragedia ha conseguenze disastrose sullo stomaco di tutti): “Mi misi a ridere di cuore e mi pareva che un peso, in quel momento, mi si fosse sollevato dal petto. Sì, forse non tutto era ancora finito”. Čechov prese le sue medicine, chiese d'essere liberato dalla coperta – diventata un fastidio – poi si assopì.
Verso l'una si svegliò. Cominciò a lamentarsi perché non riusciva a stare sdraiato, si lamentò delle nausee e dei forti dolori al ventre, si lamentò dicendo di “non trovare pace” e chiese del medico. Non lo calmò la siringa di canfora né il ghiaccio adagiato sul petto (“Non si mette del ghiaccio su un cuore ormai vuoto”) né lo champagne che gli fecero bere per freddare gli organi interni; lo calmò invece la presenza del dottore. Gli morì tra le braccia, voltato sul fianco sinistro. “Io feci appena in tempo ad accorrere” –  ed è Ol'ga a parlare – “appena feci in tempo a chinarmi su di lui e a chiamarlo: già non respirava più; si era addormentato piano, come si addormenta un bambino”.
E quando se ne fu andato quello che in vita era stato Anton Pavlovič Čechov che una farfalla notturna, grigia, di dimensioni enormi entrò dalla finestra e prese a battere in modo penoso contro i muri, il soffitto, la lampada, così agonizzando per lui un'interminabile danza di morte.


Il feretro dello scrittore avanzava lento, contenuto in un vagone verde che portava a grosse lettere, sulle portiere, la scritta “Ostriche”. La folla era scarsa, si potevano contare meno di un centinaio di persone: una parte delle quali – all'inizio – seguì il corteo sbagliato: quello del generale Keller, riportato dalla Manciuria e anch'esso giunto alla Stazione di Mosca nella stessa mattinata. Parenti e amici che scambiano un funerale per un altro: anche questo sarebbe potuto essere un ottimo spunto per una pièce.
All'improvviso cominciò una pioggia leggera, visibile agli occhi più che percepibile sulla pelle. “Dietro al feretro di Čechov avanzava poca gente. Ricordo soprattutto due avvocati” –  scrive Gor'kij – “tutti e due indossavano delle scarpe lucide e nuove e delle cravatte fin troppo vistose. Io camminavo dietro a loro e li ascoltavo. Parlavano dell'intelligenza dei cani. Uno sconosciuto invece, che mi era accanto, conversando con una signorina, altrettanto sconosciuta, vantava della comodità della sua villa e la bellezza dei dintorni”. Un anziano signore sbadigliava, di tanto in tanto mentre un altro, a capo chino, passeggiava dando una sbirciata al giornale. “Una signora, con un abito color malva e un ombrello di pizzo cercava di convincere un vecchietto: Ah, era incredibilmente gentile il dottor Čechov; sì, incredibilmente gentile, e poi era così spirituale!” ma né la signora né il vecchietto lo avevano mai conosciuto di persona. Alcuni ridevano, qualcuno mormorava cosa avrebbe mangiato a pranzo, di lì a un'ora; la moglie e la madre di Anton − quella vecchia madre, Evgennija Jakovlevna, che alla notizia della morte del figlio non aveva detto nulla: sbiancata, indossò il cappotto, aprì il balcone, uscì sul terrazzino e gridò a tutta Jalta: Aiuto! − intanto piangevano; staccate da questo corteo sempre più indifferente.


Nel 1989 Il Melangolo di Genova ha pubblicato Lo scrittore Čechov non ha dimenticato l'attrice Knipper. Si tratta dell'epistolario (meraviglioso) che moglie e marito, autore ed interprete, tennero per due anni (1902-1904). Trecentoquarantacinque tra messaggi, telegrammi e lettere: in pratica ogni giorno l'uno scriveva all'altra perché l'altra rispondesse, il giorno successivo, a colui che le aveva scritto.
Qui alberga il teatro.
Il successo o l'insuccesso di uno spettacolo e i turni di prova; la recitazione di un attore e l'intuizione del regista; gli entusiasmi e la fatica di una tournée, lo stralcio di una recensione, la costruzione delle scenografie, i testi scritti e messi in scena, quelli messi in scena e spariti, quelli da scrivere e che non saranno mai scritti. “Ieri abbiamo provato”, “Stanislavskij ha detto che”, “Sai cosa è successo?” e “Sono stata tutto il giorno in teatro”, “pensano di dare Zio Vanja” e “Nemirovič ha letto il mio testo: è cominciata fra le incomprensioni ed è finita fra le incomprensioni. D'altronde pare questo il destino di ciò che scrivo”. “Ieri, amore mio, abbiamo parlato molto di Trofimov in teatro. È fresco, gioioso e quando parla non vuole convincere o far sfoggio di filosofia, parla con naturalezza, perché le cose che dice gli sono connaturate, fanno parte della sua anima. Vero? Vero che non è un sognatore vano, un parolaio?” oppure “Ti mando il progetto del I atto. Ci saranno delle grandi finestre e attraverso i vetri si intravederà il giardino dei ciliegi. Nel modellino riesce benissimo. La scena è semplice, come vedi. Ti prego, dimmi che riesci ad immaginarla” o ancora “Una terrazza, una lampada, dalle stanze arrivano le note di un pianoforte e di un violoncello, una serenata di Bragai. Una forte impressione di familiarità, calore, intimità. Bisogna che lo facciamo Ivanov”. “Ho una gran voglia di fare qualcosa di poetico, di bello, di umano”; “pare siano stati venduti tutti i biglietti”; “domani chiudiamo la stagione. È tempo di riposare. Sono nove sere che recito senza interruzione...”.
Qui alberga il teatro e il teatro raramente, in queste trecentoquarantacinque lettere, lascia spazio alle minuzie della vita. L'acqua fredda con la quale mi sono lavato, il tipo di mele che sto mangiando, le scarpe che si sono rotte e il letto nuovo, appena comprato; lo stivale sinistro, che chissà perché all'improvviso mi va stretto; il cane – Snap – che in treno abbaia ai bigliettai spaventandoli. Dominano invece lo scrittoio, dove le opere nascono; domina la sala prove, dove vengono progressivamente allestite; dominano i palcoscenici, dove ricevono applausi o disprezzo. Una gigantesca dimensione onnicomprensiva è il Teatro – pensato e fatto – in grado d'inghiottire la vita, rendendola una poltiglia di cui non rimane, sui fogli, che un alone o qualche avanzo ogni tanto.
Ebbene. Nel libro edito da Il Melangolo, ad un punto, la vita pare prendersi la sua rivincita: breve, momentanea, evidente; lo dimostrano le sue ultime cinque pagine. Cosa vi accade e cosa vi è scritto? Accade che Čechov muore il 15 luglio del 1904 ma Ol'ga non smette di scrivergli; accade che Olga continui a inviargli delle lettere; accade che lo faccia per tre mesi: “Finalmente riesco a scriverti mio caro, mio amato e lontano, e così vicino Anton! Dove tu sia adesso, io non lo so...”. Accade che la morte fa tacere il teatro; accade che la vita riprende il suo spazio, mostra tutta la sua importanza, prima sbiadita dagli impegni di scena, ribaltando le priorità, esaltando le assenze, struggendo come nessuno spettacolo potrà mai struggere un cuore. “Desidero pazzamente scriverti e mentre ti scrivo mi pare che tu sia vivo e che, in qualche luogo, aspetti la mia lettera”; “Amore mio, mio caro, tenero, lascia che ti dica parole affettuose, lasciami ancora carezzare i tuoi capelli, lascia che guardi nei tuoi occhi buoni, luminosi e dolci”; “che cosa incomprensibile che tu non sia qui tra i viventi”. Ol'ga gli descrive Mosca, indugia sul clima, gli parla dell'odore della terra, del verde, degli alberi – dei ciliegi – che storniscono dolcemente; gli ricorda “le passeggiatine in carrozza”, lo scivolare assieme “per il bosco fragrante di pini e la radura verde smeraldo, inondata di sole” che gli piaceva tanto; “ricordi come prendevi la mia mano e la stringevi? Ricordi quando ti chiedevo se stavi bene e tu facevi solo un cenno col capo? Ricordi quando mi sorridevi?”. L'acqua che gorgoglia dalle fontane, prima di essere bevuta; gli alberi da frutta; gli steccati in legname; il sapore delle pere appena colte; il bastone da passeggio, un bacio frettoloso, “la tua figura leggera, quasi trasparente, che sembrava camminare senza toccare il terreno” e “quella figlioletta che avrebbe dovuto nascerci e di cui, ancora pochi giorni prima della tua morte, parlavamo e fantasticavamo”. Ti sento ancora vicino, credimi; talora mi pare di vederti, t'assicuro; “anche adesso sento distintamente il tuo capo accanto alla mia guancia”. Ol'ga smette di scrivere all'autore e scrive al marito, all'uomo, all'amato: “Vivo come se tu ancora potessi venire da me e guardarmi con i tuoi occhi luminosi e accarezzarmi” chiamandomi “tesoro”, “puledrina”, “scarafaggina” e “anima mia”, “mia dolce metà”, “cagnolina fulva”, “mia incomparabile sposa”: tutti i nomignoli, i mille e uno nomignoli stupidi che “solo io e te” conoscevamo, di cui solo io e te sapevamo il suono. La nuova disposizione della casa – “ho sistemato la mia camera nel tuo studio mentre Maša starà nella nostra camera grande” –  e il profilo scuro e spaventoso delle monache, incontrate per strada; il cibo mangiato il pomeriggio, il giardino che è diventato misero e al quale  finalmente “Onufrij ha restituito un aspetto decente”; i nuovi giorni trascorsi a Jalta, durante i quali “non facevo che girare per le tue stanze, in continuazione, e toccare e accarezzare le tue cose oppure spolverarle. Tutto è al suo posto, sai? Fino all'ultimo ninnolo”.
Ol'ga siede in poltrona, distende la schiena, poi s'accuccia in una posizione fetale – ci pare quasi di vederla: stringe una mano, l'avvicina alla bocca, cerca di non piangere più: “Se solo avessi abbandonato il teatro, forse...”. È ricordando i giorni e i mesi dedicati allo scrittore Čechov che rimpiange i momenti che non ha trascorso con Anton. “Anima mia, dove sei adesso?” gli chiede una, due, tre, quattro volte in queste lettere, nel mezzo di queste poche pagine che da luglio portano ad agosto, da agosto a settembre, dall'estate all'autunno e − con l'autunno – al freddo, al lavoro, di nuovo al teatro.
“Il teatro, il teatro… Non so più se devo amarlo o maledirlo… Tutto è così deliziosamente confuso in questa nostra vita. All'infuori del teatro adesso non mi rimane altro”.


C'è un momento – dirà poco meno di un secolo dopo Giorgio Strehler – in cui un teatrante, ogni teatrante, sente addosso tutta la sua solitudine, tutta la sua pochezza, tutto lo spavento umano di cui è capace: accade quando inizia il “dopo”, quel dopo che inizia “quando le luci si spengono (il vecchio e retorico ma vero rito di sempre), cessa il fuoco della ribalta e – questo dopo – accoglie l'uomo di teatro con la sua strada già scura, con il suo vento, con il suo brivido di freddo, sempre: il brivido della vita vera che continua a muoversi intorno e che nessuno di noi ha mai fermato sulla scena. Lì,” – continua Strehler – passato lo stordimento del recitare, “il teatrante sente che anche dietro il più grande spettacolo del mondo, dietro la più grande avventura della poesia, c'è solo la morte senza più ciò che esorcizza la morte: il valore umano dello spettacolo, l'umana verità della poesia”. Così l'uomo di teatro s'affretta talora verso casa, al chiuso, con in petto il desiderio di fuggire questo dopo per tornare, il giorno successivo – “che sia maledizione, liberazione o salvezza, non so” – in teatro: per essere teatro e solo teatro”. Altrove dalla morte, in salvo (e distante) anche dalla vita.
Ol'ga torna in teatro, dunque: “Oggi finalmente ho raccolto tutto il mio coraggio e sono andata in teatro. Appena entrata nell'ufficio sono scoppiata in lacrime. Tutto mi pareva estraneo e ostile senza di te. Mi sono fermata lì un po' di tempo, ho ascoltato le prove. Ho guardato, veramente, più che ascoltare. Sedevo con la Butova, la Raevskaja, Lužskij e Kačalov. Lužskij ha tentato tutto il tempo di farmi ridere con le sue solite barzellette. A me pareva strano sentirli chiacchierare tutti come prima, vederli muoversi come prima, tutto come prima...”


“Noi vivremo, Zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni interminabili e di interminabili sere; affronteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà, adesso e in vecchiaia, senza conoscere riposo. E quando verrà la nostra ora, moriremo rassegnati e là, nell'oltretomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo conosciuto l'amarezza e Dio avrà pietà di noi e tu ed io, zio, caro zio, vedremo una vita luminosa, meravigliosa, splendente; noi ci rallegreremo e, commossi, ci volteremo a guardare le sciagure di oggi, con un sorriso, e riposeremo. Io credo zio, credo ardentemente, appassionatamente”.
(Zio Vanja, atto IV)


“Amore mio, vorrei stare in ginocchio adesso, davanti a te, come una volta e posare la testa sul tuo petto e ascoltare il tuo cuore e tu mi accarezzavi teneramente: ricordi? Antončik mio, dove sei? Davvero non ci vedremo mai più? Non può essere”.
(dall'ultima lettera di Ol'ga Knipper ad Anton Čechov)

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