“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 06 December 2016 00:00

Epifanica visione

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Cinema Cielo di Danio Manfredini è spettacolo che riappare ora sulla scena ad oltre un decennio di distanza da quando vi apparve la prima volta. E, se si può dire che mantenga viva la sua possanza poetica, avviene però d’altro canto che – per la sua stessa essenza – Cinema Cielo perda buona parte della propria aderenza contestuale: se a suo tempo potevamo ben immaginare come plausibile la sala di un cinema a luci rosse in cui pulsa il microcosmo che Cinema Cielo racconta, oggi per oggettive congiunture storiche, quel contesto di riferimento (che di fatto esisteva e che di fatto non esiste più) lo possiamo al più percepire come trasfigurazione simbolica di un universo reietto.

Ed è per questo che, nell’assistere a Cinema Cielo, la prima operazione preventiva da compiere consiste nell’affrancarsi da una pretesa di adesione realistica per focalizzarsi sul suo valore profondo e simbolico, quello sì diacronico e trasversale.
Valore diacronico e trasversale che credo di poter condensare in una parola: estraneità. Parola a cui possono essere da corollario una serie di concetti contigui che, dalla visione di Cinema Cielo si irraggiano con l’evidenza di uno spaccato etereo e carnale, corporeo eppur metafisico.
Diaframma di visioni rifratte, Cinema Cielo è sguardo che si apre su uno spazio chiuso per scrutarne en passant i mondi che si schiudono all’interno, il microcosmo di un’umanità bassa e negletta che surroga mancanze e disagi in una sala a luci rosse, enclave sottratta a convenzioni e morali ordinarie per diventare spazio altro in cui far vivere quella parte di sé estranea al mondo comune, avendo come specchio rifratto lo scenario possibile che s’evoca oltre scena, ovvero Nostra signora dei fiori, romanzo di Jean Genet trasfigurato in pellicola che riverbera echi sonori in un film che si proietta su uno schermo che non vediamo mentre fissiamo ciò che avviene in sala.
La scena è infatti una sala cinematografica, le pareti d’un rosso scuro, nella cui penombra il nostro sguardo si proietta dal buio della platea. Un sipario grigio che ne riproduce la facciata s’apre sull’interno della sala, i cui avventori che si susseguiranno incarneranno un’umanità marginale, fatta di marchettari, travestiti, pederasti, storpi, stranieri senza un posto dove andare, studentelli squattrinati e normali padri di famiglia con desideri nascosti da soddisfare.
A questo coacervo ci introduce una creatura angelicata (lo stesso Danio Manfredini), accento che fa pensare ad una provenienza brasiliana, un paio d’ali sula schiena il cui peccaminoso rossore fa pendant con una mise da prostituta, inverata dal racconto salace dei suoi trascorsi. Angelo e nume dell’umanità che ci offrirà in carrellata – un’umanità persa in desideri appagati voracemente fra le poltrone della sala o nei bagni del cinema, fra essenza negata e voluttà consumata – la creatura ironica e dolente incarnata da Manfredini fungerà da guida in questo viaggio in un mondo altro popolato da coloro che la morale comune non vuol vedere e che il senso del pudore imposto finisce per recludere e ghettizzare. D’altronde, sulla scena, lo spazio della sala è conchiuso fra tre pareti inserite in assito, come a rimarcare questo senso di reclusione in cui si confina un microcosmo di creature delle quali s’avverte come negato il bisogno d’amore.
Sono corpi di carne sulla scena, cui s’accompagnano altrettanti fantocci, manichini inanimati che concorrono ad istoriare un quadro d’insieme, a cui partecipano, coi loro risentimenti e le loro rimostranze coloro che lavorano nel cinema (le cassiere) e chi del cinema è proprietario. Gli attori passano da un ruolo all'altro, caratterizzando efficacemente ogni personaggio che vanno a delineare, facendo percepire l'anima recondita e misconosciuta che alberga in chi, umano, l'umanità rifiuta.
Il film che si proietta, Nostra signora dei fiori, è più d’uno sfondo sonoro, è più d’un semplice rimando: è riverbero speculare di solitudini ed essenze, di disagi profondi che coincidono con un senso intimo di alterità, di vite costipate, costrette, destinate a cercare in un altro dove il luogo per esprimere il proprio essere. Noi spettatori guardiamo una platea che di fatto non guarda verso lo schermo, ma si proietta verso se stessa, nella ricerca di un ambito di autodeterminazione, che nella fattispecie coincide col sordido serraglio fuori dal mondo di una sala a luci rosse, alcova promiscua di un peccato legittimato e irredento, cui non abbisogna la pantomima di un cristo sui trampoli per elemosinar redenzione; non c’è redenzione perché non è richiesta, la condanna della società è già stata emessa, come per il protagonista di Nostra signora dei fiori, mandato a morte con la ghigliottina. Non c’è redenzione, ma richiesta di pietà, di un’umanissima pietà per quell’umano che di sordido ha soltanto l’apparenza, ma che dell’umano conserva – in assoluto e a prescindere – l’essenza.

 

 

Cinema Cielo
ideazione e regia Danio Manfredini
con Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Danio Manfredini, Giuseppe Semeraro
luci Maurizio Viani
realizzazione colonna sonora Marco Olivieri
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival Santarcangelo dei Teatri
distribuzione La Corte Ospitale
lingua italiano
durata 1h 10’
Bari, Teatro Kismet OperA, 19 novembre 2016
in scena 19 novembre 2016 (data unica)

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