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Friday, 02 December 2016 00:00

Un "Natale" con tutti i sentimenti

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Il Natale in casa Cupiello di Antonio Latella arriva a Napoli con un anno e passa (quasi due) di ritardo sulla sua effettiva nascita; un po’ come se i Re Magi avessero fatto un giro ben più lungo (e a largo) per raggiungere un’ideale Betlemme teatrale. Ma alla fine, nel teatro che fu di Eduardo, è andata in scena questa rivisitazione del Natale eduardiano, col suo carico di temi aperti e col suo strascico di discussioni infinite, in massima parte riconducibili alla linea di principio – apodittica anziché no – che ciclicamente si staglia in difesa della (del tutto arbitraria e presunta) intoccabilità del Maestro. Come se Amleto non potesse essere un principe che si strugge in Polonia, o come se Vanja non potesse diventare un Ivan della Bassa Padana; Luca Cupiello, invece, pare, per certi pasionari dell’immutabilità del canone, dover essere assurto in una sorta di etereo ed intangibile pantheon, vestito degli stessi abiti, in quello stesso interno anni ’30, magari esprimendosi col tono e col timbro che gli impresse Eduardo e che la reiterata visione ha di fatto consegnato ad una sorta di musealizzazione presepiale.

Eppure Eduardo, come Shakespeare, come Čechov, come tutti i più grandi autori della letteratura teatrale del passato, è a tutti gli effetti un classico e col classico ci si rapporta – necessariamente, se si vuol sul serio parlare di teatro – in maniera criticamente dialettica e non pedissequamente deferente. Altrimenti si fa mero accademismo. Poi, è chiaro, si possono discutere gli allestimenti, le regie, le visioni; può piacere come può non piacere come si inscena Eduardo, può piacere come può non piacere come si allestisce Natale in casa Cupiello, se ne può discutere all’infinito entrando nel merito, ma non si può pretendere di tenerlo costipato e prigioniero di un dogma incontrovertibile, nel vizzo e ritrito replicarlo con statiche riproposizioni di ambienti e patetici scimmiottamenti di gesti e inflessioni.
Ora, se un merito inoppugnabile va dato a Latella è quello di mettere mano al Natale in casa Cupiello sottraendolo a quella visione oleografica e stereotipa a cui si era abituati; certo non è stato il solo né il primo (ricordiamo ad esempio la versione di Natale in casa Cupiello allestita da Fausto Russo Alesi che, unico attore in scena, dava voce all’evocazione della partitura eduardiana), ma di certo quel che colpisce della regia di Latella è la densità simbolica attraverso cui ricalibrare la visione del Natale in casa Cupiello, da un lato per esplorarne sensi e sfumature, dall’altro per offrirne una visione che ne sposti necessariamente l’angolazione, riportandolo ad un rapporto dialettico (e, si badi bene, non necessariamente ed esclusivamente conflittuale) con l’ingombrante padre nobile (Eduardo) della teatralità napoletana; padre nobile che a mio avviso viene “tradito” rispettosamente, in un percorso che troverà il proprio compimento nell’atto finale con cui un figlio (Nennillo) pone fine all’agonia di un padre (Luca Cupiello) per poi ricoprirne il corpo con filiale deferenza. Ed è in quel gesto che corona la (ri)composizione presepiale di casa Cupiello che mi pare si condensi emblematicamente l’essenza del lavoro latelliano: un presepe che letteralmente muore in funzione di una nuova natività, finisce la propria tragica rappresentazione postulando una rigenerazione.
Ma come si arriva a questo epilogo?
Latella rispetta fedelmente il testo eduardiano, didascalie comprese; queste vengono recitate in prima persona dagli attori, che troviamo schierati in proscenio frontalmente all’inizio della rappresentazione. Ciascuno ha una benda nera sugli occhi; personaggi non ancora personaggi, tutti fanno ala a un Luca Cupiello che è l’unico non vestito di nero, giacca bianca e barba irsuta, un bastone a sorreggerne un incedere che si suggerisce pencolante, primi segnali di una liberazione dalla prigionia dell’immagine identificativa di Eduardo De Filippo in Luca Cupiello, quell’immagine così radicatamente consegnata ad un immaginario oleografico da finire davvero nel presepe, come racconta Roberto De Simone in Novena ed egloga per Eduardo, prefazione all’edizione Einaudi di Natale in casa Cupiello; racconta infatti De Simone di quando nel 1981, passeggiando per San Gregorio Armeno s’imbatté nella sagoma in scala di Eduardo: “Lì, su una bancarella, tra Madonne, San Giuseppi, angeli e zampognari, vidi anche la figurina di Eduardo, mi resi conto che egli era entrato nel mito popolare, in quel mondo onirico, nel presepe, codice collettivo di segni, di sogni [...]. Aveva indosso la lunga camicia da notte, uno scialletto sulle spalle, la berretta in testa, i piedi nudi e le braccia aperte: non c’erano dubbi, Eduardo era entrato nella tradizione con l’abito di Luca Cupiello, quella sua creatura che espresse al meglio il significato profondo del Natale, quall’angoscia di morte contrapposta alla nascita divina sospinta verso l’infanzia con lo struggimento di un bramato ritorno”.
Se dunque Eduardo è consegnato alla più tradizionale delle tradizioni nelle vesti di Luca Cupiello, il primo passo per svestirlo del pesante tabarro in cui una tradizione polverosa vorrebbe musealizzarlo consiste proprio nel mettere in scena un Luca Cupiello differente nel corpo e nell’abbigliamento, un Luca Cupiello che significativamente – per quasi tutta la durata dello spettacolo che lo vede non ancora collassato in un egro giaciglio – agita compulsivamente la mano destra nel gesto dello scrivere. Gesto dello scrivere che qui pare diventare gesto del riscrivere e, quel che si riscrive non è un testo, bensì il rapporto che questo testo intende instaurare con la tradizione, vista e vissuta non come un macigno ingombrante di cui liberarsi, ma come un prezioso bagaglio di cui servirsi.
Il Natale che Luca Cupiello/Francesco Manetti riscrive in scena è una visione potente e corale, eseguita al meglio da dodici attori che si contraddistinguono per un livello recitativo alto, senza sbavature e che appaiono ciascuno centrato nella propria funzione, ciascuno calato alla perfezione nel disegno registico. Disegno registico che concepisce questo Natale come una decostruzione prima e una ricostruzione poi del presepe, in forma simbolica nella sua prima parte, in cui – nei primi due atti – si procede alla scomposizione del quadro d’ambiente d’interno borghese della tradizione, trasformandolo in una visione allusiva e metonimica, per poi completare l’opera nella rielaborazione del quadro presepiale che chiude la rappresentazione, che – sempre per dirla con De Simone – di quel “patetico presepe in cui lo si fa morire per non farlo rinascere”, si fa invece quadro composito che da una luttuosa deposizione pare voglia far risorgere nuova prospettiva di visione.
Questa nuova prospettiva si poggia sullo scardinamento della convenzione, per cui pur nel rispetto pressoché integrale della partitura – accenti acuti, gravi e circonflessi compresi, citati ed ‘interpretati’ con un gesto del capo, un saltello, un ondeggiamento – assistiamo ad una reinvenzione registica che nel primo atto, su un tappeto sonoro quasi ipnotico e all’ombra di una gigantesca stella cometa fiorata in giallo, rende la stagnazione presepiale del contesto attraverso la frontalità conclamata, raccontando la stasi, l'immutabilità di quel presepe sempre uguale a se stesso che vorrebbe essere, nell’immaginario di Luca Cupiello, la realtà. Luca Cupiello è l’emblema di una realtà idealizzata e trasfigurata in quel presepe (o “presebbio”) a cui egli si dedica con cocciuta abnegazione, di fatto sfuggendo alla realtà, risultandone a più riprese scollegato e ignaro: ignora, Luca Cupiello, i drammi che avvengono in casa sua, intento com’è a costruire la propria visione ideale del mondo trasferendola nella costruzione presepiale, una visione semplicistica che si estrania dalla complessità articolata del reale, la quale trova espressione invece nel pragmatismo di Concetta, la quale nel secondo atto entrerà in scena trainando un carretto dalle pareti di vetro trasparente, mentre parte in loop la voce registrata di Luca/Eduardo che ripete la frase chiave “mo miettete a fa’ ‘o Presebbio n’ata vota...”, che ripetuta insistentemente sembra rimarcare ancor di più la frizione tra i due personaggi di Luca e Concetta, con lui sempre più proiettato verso una dimensione ideale di fuga dalla realtà e lei letteralmente intenta a “tirare avanti la famiglia”, traino concreto di un nucleo famigliare in balìa degli eventi.
Dalla staticità iniziale si passa ad una mobilità continua, con il carro che gira intorno su una scena nuda, talmente nuda da mostrare i cordami oltre le quinte, nudità che scopre e dichiara il gioco del teatro, mentre Luca si confina inizialmente in un angolo di palco, ad osservare il presepe vivente di casa Cupiello prendere forma, per poi entrarvi, occupando il carro trainato da Concetta, continuando ad agitare la propria mano nell’atto dello scrivere, perfino sull’interno dei vetri del carro nel quale entrerà, scritte invisibili che invisibilmente Concetta poi detergerà, imponendo il proprio principio di realtà sull’eterea fantasticheria del consorte. In questo dinamico presepe vivente, ogni personaggio imbraccia o porta a spalla un animale posticcio della presepialità comune, in un tourbillon che trasforma casa Cupiello in un caravanserraglio, in cui le affezioni paiono trasfigurate in quello zoo presepiale di cui ciascuno è parte, in cui ciascuno ha un ruolo nella messinscena fittizia di una serenità natalizia sotto la quale covano livori a fatica sopiti e conflitti sull’orlo della deflagrazione, come quello che vede marito e amante di Ninuccia scontrarsi dopo essere però stati inscenati in una danza lasciva in cui la donna attira a sé ora l’uno ora l’altro; Latella suggerisce in questo caso un ruolo e una responsabilità della figlia di Luca Cupiello che è probabilmente colei che più di tutti gli altri personaggi contribuisce in maniera determinante a distruggere il presepe paterno, minandone le fondamenta di pace e unione famigliare e simbolicamente rompendolo in un empito di rabbia nel primo atto.
La stella mastodontica che cala al termine del secondo atto, segnando la fine dell’illusione di Luca e ne annuncia in realtà il declino, visto che ce lo ritroveremo, ad inizio del terzo atto (l’unico prima del quale c’è una cesura con tanto di chiusura e riapertura di sipario, che invece non c’è tra i primi due atti), a vivere il suo stato semicomatoso in un letto di dolore che in realtà è una culla; perché Luca torna ad essere il bambino che in realtà già era, l’inconsapevole fantolino di una vicenda famigliare che s’orchestrava alle sue spalle, a sua insaputa, “tu pensa a fa’ o’ presepe”, gli si intimava quando egli manifestava di voler sapere, di voler capire.
Il terzo atto, poggiandosi su una battuta del testo che evoca Il barbiere di Siviglia, si trasforma nella sua prima parte in una partitura lirica, in cui le battute vengono cantate e diventano corona per un requiem orchestrato intorno al letto di Luca Cupiello, finalmente al centro di un presepe che non è quello che lui stesso ha costruito, ma che gli si è composto intorno, riconducendo la sua funzione di padre alla sua natura di bambino. E ai bambini si usa talvolta mentire per tenerli contenti, sicché intorno alla gigantesca culla del moribondo Luca va in scena la farsa della riconciliazione fra figlia e genero (in realtà si tratta di Vittorio Elia, l’amante di Ninuccia, che Luca nel suo delirio scambia per il genero Nicolino), contribuendo a riproporre questa grande composizione presepiale di cui Luca Cupiello non è più artefice ma protagonista.
La rielaborazione in chiave lirica del terzo atto è probabilmente la parte di questo Natale che maggiormente crea frizione con l’originale, trasmette anche un leggero senso di stridore, ma ha la funzione di traghettare la farsa di casa Cupiello verso l’elegia funebre, costruendo una enorme deposizione al centro della quale, in luogo del Bambinello c’è Luca Cupiello, del quale si celebra la morte arricchendola – come si diceva – di un senso e un significato ulteriori: in Luca Cupiello c’è Eduardo, quell’Eduardo che l’immaginario collettivo (e segnatamente napoletano) ha trasfigurato e consegnato all’iconografia presepiale, quell’Eduardo, padre nobile e ingombrante della teatralità napoletana col quale è stato difficile che quella stessa teatralità napoletana riuscisse a instaurare un rapporto sereno e dialetticamente corretto.
Ci prova, riuscendoci, Antonio Latella; ci prova rapportandosi con il padre nobile in maniera dinamica; ci prova chiedendo allo spettatore di non indulgere alla mediocrità di uno sguardo che passivamente s’aspetti una solfa consueta. Perché questo Natale non rivoluziona, ma scardina un canone rigido, non sfonda ma apre una porta chiusa, dai cardini che stridono rugginosi e che hanno bisogno di essere oliati di fresco.
Ci prova riuscendoci, Latella, restituendoci rielaborato un Natale in casa Cupiello che sembra essersi presentato con tutti i sentimenti. E pure con quel qualcosa in più che ne ha reso necessaria l’esistenza e la visione.

 

 

 

 

N.B.: sullo stesso spettacolo si veda anche:
Alessandro Toppi, Sul "Natale in casa Cupiello" di Latella (Il Pickwick, 20 dicembre 2014)

 

 

 

 

Natale in casa Cupiello
di Eduardo de Filippo
drammaturgia del progetto Linda Dalisi
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D'Amico
costumi Fabio Sonnino
musiche Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente alla regia Brunella Giolivo, Irene De Lelio
assistente alla regia nella prima edizione Michele Mele
foto di scena Brunella Giolivo
responsabile tecnico Giovanni Santolamazza
direttore di scena Osvaldo Cattaneo
capo macchinista costruttore Claudio Beccaria
capo macchinista Alessandro Sorrenti
capo elettricista Antonio Borrelli
fonico Andrea Brachetti
sarta Eleonora Terzi
segretaria di compagnia Elena Carrera
immagine di locandina Giuseppe Scrugli
responsabile di produzione Carolina Pisegna
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
lingua italiano, napoletano
durata 2h 45'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 17 novembre 2016
in scena dal 16 al 27 novembre 2016

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