“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 26 November 2016 00:00

Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo

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La scena è punteggiata di bassi tegami di rame che contengono polveri colorate. Al centro c’è un grande calderone, di alluminio ramato, una sorta di tinozza. Altri recipienti da cucina sono sparsi qua e là, alcuni contengono delle candele, apparentemente l’unica fonte di illuminazione. Mentre si prende posto, una donna è già in scena sulla sinistra, seduta di spalle su un calderone di rame rovesciato e armeggia silenziosa con delle fascine. Quando si fa buio in sala si copre la testa con uno scialle nero e prega, mormora parole incomprensibili con gesti e sguardo ieratici, con la fissità immobile ed eterna della tradizione.

La donna veste un variopinto costume, Janara è il suo nome, lo scopriremo dopo, molto dopo, un nome che è piuttosto un soprannome, l’unico che abbia mai avuto. Janara è una figura complessa della credenza popolare napoletana, è una strega che minaccia i bambini, ma in origine queste vecchie megere, messe in fuga dalle scope di saggina, erano le sacerdotesse di Diana/Artemide (Janara da Dianara), la fanciulla lunare del pantheon romano che proteggeva gli incroci, i transiti e i riti di passaggio della sfera femminile. Oppure il nome affonderebbe nel latino ianua, porta, e infatti la tradizione imponeva di mettere delle scope di saggina alle porte (come quelle che si usano adesso, depotenziate di qualsiasi valore rituale, nelle decorazioni natalizie), perché la Janara si sarebbe fermata a contarne i rametti e, perdendo il conto, avrebbe ricominciato ogni volta da capo, fino allo spuntare del giorno che l’avrebbe messa in fuga.
Sia come sia, la protagonista, Janara, come le sacerdotesse dell’antica religione, è stata giovane, è stata bella. Giovane in realtà lo è ancora, ma la vita con Salvatore, che non si vedrà mai in scena, ma presenzierà, in apertura e chiusura, cantando canzoni sanfediste, quella vita con un uomo rozzo e violento, l’ha invecchiata, ne ha reso ruvide, nodose, dure le mani, ma anche la voce e il cuore. Una donna che vive sopravvivendo a se stessa, ai suoi sogni, alle fantasticherie di sposare un principe. Una donna che trascorre un giorno dopo l’altro cercando di sfamare la sua famiglia, pregando un Dio lontano, sperando che un giorno, non troppo lontano, si prenda i suoi figlioli (... è pur sempre una janara...), che sono ancora dei piccoli, rumorosi lazzari, ma tra poco saranno buoni per il patibolo.
La discontinuità nella vita di questa donna è l’arrivo di un giacobino, non ne sapremo il nome, legato e imbavagliato come un capretto. Un uomo raffinato, delicato, disgustato dall’aspetto volgare e trasandato della donna che per lui, anzi, non possiede i requisiti minimi di avvenenza, grazia, buona educazione, decoro, pudore che caratterizzano il gentil sesso. L’arrivo di questo elemento allotrio sembra rimettere tutto in discussione, la possibilità di avere o realizzare dei sogni, di ricevere un trattamento diverso, di essere, per un breve istante, qualcosa di diverso, di provare, per la prima volta, emozioni e sensazioni sconosciute. ma è un attimo, poi ciascuno ritorna al proprio ruolo, alla parte iscritta nel copione della propria classe sociale. Lui, il giacobino, lei, la lazzara, due mondi che non parlano la stessa lingua, che non conoscono e non capiscono le esigenze l’uno dell’altro.
Giovanni Esposito mette in scena Il baciamano con raffinatezza, calibrando opportunamente i diversi aspetti del testo, spaziando dalle punte drammatiche, di alta intensità emotiva, al racconto, anzi al cunto, di basiliana memoria (la storia di Ficuciello), alle tirate comiche, che sciolgono la tensione e preparano i successivi sviluppi di un dramma in cui, in realtà succede poco, in quanto tutto culmina nel gesto finale, eppure i personaggi passano, tra gustose schermaglie verbali, attraverso diverse fasi, si evolvono, o almeno ci provano, prima di ritornare al ruolo assegnato loro dalla Storia. L’elemento narrativo si affianca, senza artificiosità, a quello evocativo della musica e delle videoproiezioni, che sottolineano i passaggi più drammatici, aprono squarci interiori sull’animo della protagonista, creano un piano di narrazione parallelo e complementare, tale per cui vediamo gli attori in scena, muti, mentre ne ascoltiamo la voce fuori campo e, al tempo stesso, ne vediamo le immagini proiettate sullo sfondo, a evocare, appunto, il prima, il dentro, l’onirico e il fantastico.
La prova attoriale di Susy Del Giudice è intensa e drammatica, a tratti viscerale. Uno sguardo che sa avere l’intensità dell’odio e la vacuità di una disperazione quasi folle, una voce che conosce tanti accenti e modulazioni, un labbro che si tende nella durezza dell’espressione, facendo della bocca una lama sottile, e sa tremare convulso di paura, timore, disperazione, ma soprattutto le mani, protagoniste dell’azione, in cui ogni falange sembra avere vita propria, articolazione a sé. Più debole la figura del deuteragonista, Giulio Cancelli, forse per una precisa scelta registica, per sottolineare il formalismo della sua ideologia, la scarsa capacità di aderenza della rivoluzione giacobina alla realtà che pretendeva di cambiare, dall’alto della propria illuminata fede nella ragione, secondo il celebre motto di Voltaire.

 

 

 

 

Il baciamano
di
Manlio Santanelli
regia Giovanni Esposito
con Susy Del Giudice, Giulio Cancelli
scene Luigi Ferrigno
assistente scenografo Mauro Rea
realizzazione scene Alovisi Attrezzeria
costumi Rossella Aprea
effetti video Davide Scognamiglio
progetto luci Nadia Baldi
collaborazione musicale Elio Manzo
aiuto regia Felice Panico
produzione Teatro Segreto
lingua italiano, napoletano
durata 1h 15’
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 22 novembre 2016
in scena dal 22 al 27 novembre 2016

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