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Wednesday, 02 November 2016 00:00

Città, politica e Teatro Stabile

Written by 

Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello
Stato nella peggiore possibile maniera e nel più
lungo tempo possibile.
(Carlo Dossi)

Non bastano i denari: bisogna saperli spendere.
(proverbio italiano)

 

Nel 1955 Napoli vuole il suo Teatro Stabile e lo vuole operando – lo racconta Annamaria Sapienza ne Il padrone del vapore – “una superficiale imitazione del modello strehleriano”, cioè una riproposizione – in piccolo, viene da scrivere – de Il Piccolo: Ernesto Grassi, critico e commediografo, ne diventa il direttore artistico; l'amministrazione avalla la nascita di una “Compagnia Stabile di Teatro di Prosa” mentre il sindaco, Achille Lauro, scrive al Ministero “rivendicando l'urgenza di avere un Teatro Stabile e denunciando l'abitudine delle grandi compagnie italiane a disertare le piazze meridionali”: forte dell'alleanza ottenuta con l'appoggio dei monarchici alla Democrazia Cristiana Lauro può dunque pretendere dal Governo un finanziamento di venticinque milioni di lire per la sua costituzione. Intanto ne viene allestita la prima stagione: Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, Il sorriso della Gioconda di Aldous Huxley, Il vento notturno di Ugo Betti e Finalmente un delitto di Marcel Achard, Venerdì santo di Cesare Giulio Viola, Il sistema Ribadier di Georges Feydeau.
Le regie sono firmate, in alternanza, da Vittorio Viviani, Giuseppe De Martino e dallo stesso direttore artistico Ernesto Grassi.

Nonostante gli scarsi riscontri di critica e pubblico il progetto non arretra ma si rafforza: l'anno successivo Lauro – con ancora più decisione – costituisce l'Ente Teatro Stabile, torna a battere i pugni sul tavolo ministeriale ed investe il denaro dei suoi concittadini: una “pioggia di finanziamenti” supporta così il nascente Stabile di Napoli: diciotto milioni dal Governo, quindici dal Comune e dieci dall'Azienda Cura Soggiorno e Turismo. Tutta questa ricchezza però non basta: forse perché il progetto “ha gli occhi rivolti al passato più che al presente” o perché né il Salone Margherita né il Teatro di Corte di Palazzo Reale – rinnovato nel suo splendore – riescono ad essere una sede davvero adatta; forse perché, aggiunge Annamaria Sapienza, il denaro “non supplisce alla mancanza di un obiettivo programmatico convincente, non colma l'assenza di un progetto culturale e teatrale adeguato alle necessità cittadine” e finisce perciò per “non sopravvivere alla scarsa professionalità degli addetti ai lavori”: sindaco, assessori, sovrintendenti e direttore artistico, compagnia teatrale, addetti di settore.
A leggere questa storia una domanda sorge immediata: il Salone Margherita, il Teatrino di Corte del Palazzo Reale… e il Mercadante? L'ipotesi laurina di Teatro Stabile non lo prevede, anzi ne organizza la sparizione definitiva: il sindaco, infatti, “propone, all'interno del progetto di risanamento urbanistico, di abbattere il settecentesco teatro Mercadante con l'idea di rinnovare l'intero aspetto cittadino nell'area a ridosso della stazione marittima e del Maschio Angioino”.
Polvere, macerie, il vuoto.
Quando – con frettolosità verbale o di ragionamento, infervorato sulla situazione presente – qualcuno si augura la distruzione del Mercadante, si augura cioè il suo fallimento o la sua fine, a me viene in mente questa parte della storia teatrale napoletana, caratterizzata certo dallo sperpero finanziario, dall'incompetenza politica e artistica, dall'uso privatistico di un bene pubblico per ragioni elettorali ma anche da una vocazione rabbiosa e votata a distruggere, ad annullare, a cancellare: se Lauro fosse stato in grado di procedere un teatro del Settecento – lo stesso nel quale spesso sediamo – non sarebbe più esistito. Già solo per questo mi viene di voler bene al Mercadante.


Dovremmo voler bene al Teatro Mercadante perché è il Teatro Stabile di Napoli. Dovremmo volergli bene perché – proprio in quanto Teatro Stabile – dovrebbe essere il luogo nel quale si rispecchia e si riconosce artisticamente la città e perché – sostenuto da soldi pubblici – il Teatro Stabile ci appartiene, è nostro, è di ognuno di noi. Dovremmo volergli bene quanto si vuol bene ad un figlio, di più: quanto si vuol bene ad un figlio che è tardato ad arrivare, che sembrava non saper o poter venire al mondo e che invece nasce quando non te lo aspetti più.
Sì, dovremmo volergli bene poiché il Teatro Mercadante – il Teatro Stabile – è rimasto chiuso per più di trent'anni assumendo “un ruolo di primo piano nella vita culturale napoletana” – come scrive Marta Porzio ne La resistenza teatrale – “non sebbene ma proprio perché chiuso”. Dovremmo volergli bene perché – nei suoi brevissimi periodi di apertura episodica – è stato motivo di speranza (disattesa) “per i giovani teatranti, sia in quanto possibile risposta alla penuria di spazi per il teatro, sia perché” poteva significare l'arrivo “in città di spettacoli di un certo rilievo”; dovremmo volergli bene perché è stato vittima di mire speculative, perché spesso è entrato negli interessi criminali di chi ha messo le mani sulla città attraverso il cemento, perché ha richiesto lavori di recupero che sono parsi infiniti, perché di nuovo nel 1979 il Comune ha ripensato di abbatterlo per costruire, al suo posto, un parcheggio a tre piani; perché è stato l'oggetto – anno dopo anno, governo dopo governo – “di vergognose incapacità gestionali” da parte delle amministrazioni cittadine: d'ogni colore, d'ogni bandiera.
Dovremmo volergli bene perché la sua storia è parte della storia di Napoli e denuncia “lo scandaloso livello di implicazione tra cultura e politica, cui oggi la città è ancora tristemente abituata”. Dovremmo voler bene al Mercadante perché – quando nel 1947 Il Piccolo scrive il suo atto costitutivo dichiarando, tra l'altro, che avrebbe reclutato i suoi spettatori “tra i lavoratori e tra i giovani, nelle officine, nelle scuole, offrendo spettacoli di alto livello artistico a prezzi quanto più è possibile ridotti” – a Napoli si fa fatica a individuare una programmazione artisticamente efficace anche per una piccola sala; perché quando Giuliano Scabia – nel 1969 – inventa le sue prime azioni partecipate nella periferia di Torino lo fa proprio su commissione del locale Teatro Stabile mentre a Napoli si dibatte di decentramento culturale ottenendone poco o nulla; perché nel 1994 hanno un Teatro Stabile Milano o Torino, Genova, Roma o Firenze ma non Napoli; perché nel 2001 ancora non esistono un'Associazione e uno Statuto; dovremmo volergli bene perché – come ogni Stabile – dovrebbe essere il luogo nel quale si produce e si ospita “il teatro d'arte” perché sia condiviso “con tutti” ovvero il luogo in cui si tende verso “la massima qualità espressiva”, “sottraendosi ai condizionamenti del mercato” e nel quale – questa qualità espressiva – viene offerta a un pubblico quanto più ampio ed eterogeneo possibile, così realizzando in concreto una concezione del teatro inteso come servizio e diritto, come opportunità e componente imprescindibile di una società moderna, democratica, aperta e più libera.


Ed invece. Carolina Rosi e la Fondazione De Filippo si ritirano dall'organizzazione della Scuola, perché il nome di famiglia non sia associato a un'iniziativa formativa di cui non condividono programmazione, modalità di gestione e concreta attuazione quotidiana; tecnici in organico allo Stabile scrivono lettere pubbliche denunciando il loro addio al teatro, a causa non solo del ritardo indecoroso dei pagamenti ma di una commistione d'interessi privati ed interni che privilegerebbe lavoratori a lavoratori; talora gli artisti – che dovrebbero vedere nello Stabile della propria città un punto d'arrivo – sembrano riflettere sull'opportunità di recitarvi, come se accettare d'essere in scena al Mercadante, al San Ferdinando o al Ridotto significasse compromettersi in qualche modo sul piano morale o professionale; qualcuno ne invoca la privatizzazione, altri sottolineano la concorrenza sleale che deriverebbe dalla politica dei prezzi degli abbonamenti, nell'ambito di un'insensata conflittualità urbana tra pubblico e privato; mormorii non ancora tacitati del tutto hanno riguardato l'ultimo concorso per l'ampliamento d'organico, oggetto d'attenzione da parte degli inquirenti, mentre le istituzioni – Regione, Comune, Città Metropolitana – espongono un consueto campionario di dichiarazioni retoriche nelle occasioni di rappresentanza ufficiale (esempi: il “Voglio testimoniare la mia vicinanza allo Stabile” di Luigi De Magistris; il “La Regione seguirà con grande slancio e partecipazione il lungo e nuovo viaggio del Teatro Stabile” di Vincenzo De Luca) dopo aver condotto verso lo Stabile una battaglia che non ha escluso alcun colpo.
Si pensi al sindaco De Magistris che, dopo aver dichiarato in diretta televisiva (puntata di Ballarò del febbraio 2015) “De Fusco non è un nostro uomo, non lo abbiamo messo noi lì”, denuncia a più riprese “patti di fiducia venuti meno”, “tradimenti”, tentativi di danneggiare il Comune, un rinnovo del contratto al direttore “saputo a cose fatte” e ripetute prove “di modifica dello Statuto” considerate “inaccettabili” poiché pensate “a discapito del Comune”: “Abbiamo sventato un blitz ed io ho messo sull'attenti gli assessori” dichiara ad un punto De Magistris (La Repubblica, 7 febbraio 2015) e – tre mesi dopo – rincara, senza freni: “Siamo impegnati a trovare una soluzione per il Mercadante. Impugneremo una serie di verbali e delibere del Cda e il contratto di De Fusco. Nei prossimi giorni adotteremo una delibera con cui procederemo alla revoca delle assegnazioni del Teatro Mercadante e San Ferdinando all'Associazione che fu creata per realizzare una struttura nuova da cui ripartire, con tutti quelli che ci vorranno stare” (Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2015).


L'altro ieri, nell'emeroteca della Biblioteca Nazionale, ho riletto gli articoli del 2002 (anno di nascita dell'Associazione), poi ho ripreso il libretto stampato dal Mercadante nel giugno del 2005 per festeggiare “il riconoscimento come Teatro Stabile ad Iniziativa Pubblica” e vi ho cercato le parole dell'allora direttore Ninni Cutaia: “Il Mercadante” – scriveva Cutaia – “ha avviato il suo progetto culturale interpretando sin da subito le funzioni ed il ruolo di uno Stabile Pubblico, cercando di trovare un equilibrio tra la grande tradizione e le proposte di rinnovamento del teatro. Le produzioni, i progetti e le rassegne del Mercadante hanno sostenuto il lavoro di giovani artisti e le creazioni di importanti registi della scena nazionale ed internazionale; hanno offerto occasioni significative per rafforzare le collaborazioni con gli Stabili di Innovazione della città ed altri operatori del territorio” e – impegno tra gli impegni, in grado di rafforzare la nascente identità della struttura – “si è raggiunto l'importante obiettivo rappresentato dall'apertura del Ridotto. La sua realizzazione è stata studiata per creare uno spazio professionale, capace di accogliere progetti e produzioni con particolari esigenze sceniche”.
Era quella una stagione di passione collettiva, di progettualità in parte condivisa, di empatia tra il teatro e la città; era quella la stagione nella quale “la gioia per le cose da realizzare” – per dirla ancora con Cutaia – superava “di gran lunga la fatica che l'impresa mostrava di portare con sé” poiché, “dopo anni di divergenze politiche e di proposte caratterizzate da continui ripensamenti, “Napoli aveva finalmente il suo Stabile”. Bando, sia chiaro, all'edulcorazione della memoria: vi furono anche limiti, errori, personalismi, operazioni non sempre riuscite sul piano artistico e organizzativo ma pare indubbio che – quella – fu una stagione di fervore, nella quale lo Stabile si proponeva di diventare il fulcro di un nuovo assetto culturale cittadino e l'elemento più esposto di una nuova fase della teatralità napoletana. Basta rileggerne l'elenco delle iniziative realizzate per rendersene conto, basta far riferimento non alla stagioni (che pure videro alternarsi, tra gli altri, Moscato e Tiezzi, Manfredini e Castellucci, Peter Brook e Latella, Latini, Binasco, Abel Ferrara, Roman Paska, Massimo Castri, Massimiliano Civica, Rodrigo Garcia ed Emma Dante, Vetrano/Randisi con Elena Bucci e Marco Sgrosso) ma ai progetti  per comprendere quali legami il teatro tentava di stabilire – attraverso l'arte – con il contesto urbano ed umano di riferimento. Mi limito a segnalarne due:
Maggio dei nuovi Teatri, che nella sua prima edizione fu articolato in due sezioni: La Francia si muove, “tappa napoletana dell'omonimo festival di danza contemporanea francese” e Destination Naples, “un programma di spettacoli della produzione teatrale di area napoletana proposti alla visione di operatori e direttori di quaranta tra teatri e strutture d'Oltralpe”. La seconda edizione, invece, fu totalmente dedicata alle “altre scene di teatro contemporaneo” e coinvolse sale ulteriori e luoghi non teatrali della città sperimentandone la teatrabilità potenziale.
− A Est
, dedicato “agli autori di drammaturgia contemporanea dell'area dei Paesi dell'Europa orientale entrati a far parte dell'Unione Europea (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Ungheria, Slovenia)” con particolare attenzione alla “generazione di autori nati tra il 1965 ed il 1980”.
E Progetto Petrolio di Mario Martone (su Pasolini); L'anima sotto le pietre, a cura di Davide Iodice (Viviani); Pulcinella al Mercadante, a cura di Renato Carpentieri; il laboratorio presso le scuole di Scampia, curato da Roberta Carlotto, Goffredo Fofi, Marco Martinelli e il Teatro delle Albe.


C'è tuttavia un altro aspetto che – meglio forse d'ogni altro – racconta la natura di quella stagione: lo Statuto dell'Associazione. La racconta non tanto per le pur importanti finalità che ancora si propone – “sostenere e diffondere il teatro nazionale, europeo e internazionale, d'arte e di tradizione” e, nel contempo, “valorizzare il repertorio italiano contemporaneo e l'attività di ricerca e di sperimentazione teatrale”; realizzare attività “in coordinamento con i teatri stabili di Innovazione, con le Università” e gli altri teatri cittadini;  realizzare “un centro studi e di archivi del teatro”; “curare la formazione, l'aggiornamento e il perfezionamento di quadri artistici e tecnici”; “favorire la diffusione del teatro nell'ambito delle strutture scolastiche” e “realizzare e gestire una scuola di teatro e di perfezionamento professionale” – quanto per un aspetto in particolare di questo stesso Statuto, un aspetto che lascio commentare a Mimma Gallina, attraverso le parole che vi spende in Organizzare teatro:
“Il Mercadante è un modello originale di Stabile” perché “a un direttore di competenze amministrative/organizzative proveniente dall'ETI, Ninni Cutaia” ha affiancato “un Comitato per la Direzione Artistica costituito da personalità significative del teatro napoletano come Enzo Moscato, Renato Carpentieri, Mario Martone e Roberta Carlotto”. In aggiunta: “Il presidente Rosaria Rummo era a sua volta Direttore del Dipartimento dello Spettacolo col governo Melandri” e dunque “il Consiglio di Amministrazione” nel suo complesso rappresentava “pur nelle differenti provenienze e formazioni un ampio spaccato della classe dirigente, politica e culturale partenopea”. Oltre i nomi di quella stagione – qualunque sia il parere sull'azione condotta – lo Statuto del Mercadante dà “l'idea di un'impostazione collettiva di gestione, caratterizzata da personalità forti: una scelta” finalizzata a “garantire una rete di rapporti di qualità e a diversi livelli con il teatro napoletano nel suo complesso e col teatro italiano e internazionale”.
L'importanza della rinascita del Mercadante e della prospettiva che diventasse uno Stabile, conferma Ninni Cutaia, “portò a studiare per la direzione una soluzione che fosse in grado di riflettere la creatività e il fermento propri della scena napoletana: da qui l'inedita idea di affiancare alla figura del direttore un comitato artistico capace di assicurare una dialettica produttiva tra i vari modi d'intendere arte, teatro e cultura”. Ne venne, proprio da Statuto, “un modello organizzativo plurale che rifletteva la volontà di proporre un programma di attività eterogeneo, ma al tempo stesso unitario”.
È riflettendo sul presente che adesso posso permettermi di chiedere: quanto, di quella stagione, è rimasto? Quanto gli impegni previsti dallo Statuto sono oggi rispettati nella pratica quotidiana e quanto, di “questo assetto finalizzato a un nuovo modo di concepire un Teatro Stabile”, è confermato nei fatti? Abbiamo ancora uno Stabile governato da una direzione plurale o siamo assistendo ad una progressiva centralizzazione individuale della direzione artistica? E che relazione lo Stabile sta ora realizzando con il territorio (periferie comprese), con gli altri teatri napoletani e campani (finanziati e non), con la scena internazionale? Che spettacoli produce e co-produce? Da chi sono firmate le produzioni più costose messe a bilancio e quali sono gli spettacoli che lo Stabile – diventato Nazionale e dunque nei ristretti limiti imposti dal decreto Franceschini/Nastasi  –  invia in tournée per l'Italia, l'Europa ed il mondo? E all'interno di quale visione complessiva, di quale strategia culturale, di quale assetto strategico cittadino si colloca lo Stabile? A che idea di città (culturale) corrisponde la sua funzione? E com'è amministrato, rispetto a quest'idea? Chi controlla che il denaro pubblico sia speso in maniera fruttuosa, a chi rendiconta lo Stabile sui risultati (non soltanto economici, sia chiaro) raggiunti o mancati? Qualcuno ha compiuto in questi anni analisi sui flussi di pubblico (età, condizione sociale,  livello di scolarizzazione e quartiere di provenienza, tipologia di abbonamento, frequenza d'altri teatri)? Ed oltre ai parametri finanziari (budget impiegati, spese e ricavi, costi per servizi, dati di biglietteria) in Regione, in Comune e presso lo stesso Stabile qualcuno s'è preso la briga di utilizzare altri indicatori di verifica? Ad esempio, citando quelli indicati da Lucio Argano ne La gestione dei progetti di spettacolo: risultati della critica, numero di articoli stampa usciti, numero di dossier stampa scritti, numero dei critici intervenuti, numero dei passaggi televisivi e relativa durata e numero di presenze, media a recita, numero dei posti invenduti, tasso di riempimento della sala, costo contatto a spettatore e ancora: numero biglietti omaggio concessi, numero inviti fatti e infine: numero delle persone impiegate per singolo progetto, giorni ed ore di lavoro per data produzione, numero fornitori impiegati, numero di servizi attivati e di spazi utilizzati.
Insomma: secondo quali parametri è – passata quella stagione – oggi possibile comprendere finalità, missioni, obiettivi e loro messa in pratica dello Stabile diventato Nazionale di Napoli? A chi concretamente risponde il suo direttore?


La politica regionale e cittadina – intesa come specifiche istituzioni e loro rappresentanti – ha (mal) inteso il Mercadante come un bene partitico, nel quale e con il quale reiterare la pratica clientelare. L'arrivo o le improvvise defenestrazioni di alcuni direttori, ad esempio, sembrano talora rispondere – prima che a specifiche motivazioni artistiche, verificabili attraverso un compiuto progetto – al mutante quadro elettorale, agli equilibri variabili in Comune o Regione, al risultato di un'elezione. È l'assetto amministrativo, più che l'effettiva qualità dell'azione teatrale, che pare interessare la politica locale; è l'uomo seduto alla poltrona d'ufficio più che l'insieme di uomini e donne seduti nelle poltrone delle platee che conta nei ragionamenti di sindaci e presidenti di regione.
Questa politica è la stessa che ha permesso – in quasi un decennio, con modalità differenti – lo spreco di sessanta milioni di euro in un Napoli Teatro Festival Italia il cui direttore non è mai stato nominato per bando ma sempre per chiamata diretta e che è stato privo – in ogni edizione – di una sua specifica identità, di un reale rapporto col territorio, di una coerenza programmatica chiara.
Questa politica è la stessa che ha permesso e ancora permette che il Teatro Pubblico Campano sia dominato dallo stesso uomo, da trentatré anni, e che tale dominio (regionale e pluricomunale) si alimenti anche di conflitti d'interesse, consolidamento di rendite di posizione, smentita costante delle finalità del suo stesso Statuto.
Questa politica è la stessa che ritarda i suoi pagamenti non allo Stabile – come lamenta De Fusco – ma invece ad un intero comparto aziendale, produttivo e lavorativo, che lo Stabile lo comprende ma allo Stabile non si limita, e li ritarda di due annualità (siamo fermi al 2013; dev'essere ancora pagato il 2014 mentre incombe il 2017), generando fallimenti e chiusure – nei casi peggiori – e indebitamento crescente in quelli migliori.
Questa politica è incapace di cogliere i reali fermenti che sommuovono il terreno artistico campano e di sostenerli, questa politica sa poco o sa nulla dei medi e piccoli spazi indipendenti come sa poco o nulla del tentativo collettivo di costituire dal basso un Nuovo Circuito Teatrale (NCT): questa politica sa poco o nulla di trentenni e quarantenni impegnati, da anni e con più ruoli, a rendere innovativa la teatralità in Campania.
Questa politica non ha personalità dotate di competenza specifica, si dà all'ascolto soprattutto nel periodo pre-elettorale e non ha mai, davvero mai, dato la sensazione di saper produrre un pensiero più ampio degli orizzonti definiti dalla sua prossima legislatura, dalla gestione delle sole condizioni presenti; questa politica non ha idea di quali funzioni debba assolvere un Teatro Stabile (o Nazionale, che dir si voglia) e non ha neanche idea di come lo Stabile debba necessariamente entrare in contatto con gli altri teatri cittadini; non ha idea di come generare un sistema artistico integrato e che funzioni e non è in grado di riflettere e legiferare in maniera costruttiva non conoscendo potenzialità e mancanze, necessità ed urgenze, dei teatri, degli operatori di settore e degli artisti di questa città.
Questa politica non ha visione futura né mostra serietà quotidiana, si limita quando possibile (la Regione) a foraggiare d'introiti grosse realtà già pluri-finanziate attraverso i fondi europei o si deresponsabilizza (il Comune) dal compito di elaborare una reale politica culturale dimenticandosi di pezzi di territorio, di parti intere di città. Questa politica non conosce le più virtuose esperienze che – in Italia come all'estero – sono avvenute, che hanno generato fame culturale e crescita economica complessiva (nel Nord Europa come nel Sud Italia, dalla Germania alla Puglia), non studia queste esperienze né conosce in maniera adeguata regolamenti e decreti: basta leggere la missiva di protesta che il Sindaco ha inviato al ministro Franceschini (La Repubblica, 13 agosto 2015) per scorgervi, tra le dichiarazioni retoriche, alcuni errori di merito.
Questa politica – inadempiente di suo – non riesce dunque a rivendicare, rispetto a chi amministra e dirige un Teatro Stabile, un rigore che essa stessa non possiede, non riesce a pretendere un rispetto dei patti poiché i patti li tradisce essa per prima, non riesce a chiedere un controllo severo dei conti o una valutazione appropriata dei risultati artistici perché fa saltare per prima i conti e perché non ha capacità né mezzi per valutare davvero la qualità di questi risultati artistici. Vivacchia lasciando vivacchiare, si permette permettendo a sua volta, lascia che il tempo scorra consentendo che il tempo scorra anche per gli altri.


È in questo clima di severità di maniera e di lassismo concreto che il Teatro Stabile di Napoli ha visto depauperare progressivamente il carico di energie che ne ha segnato la nascita; è in questo clima (istituzionale innanzitutto) che ha perduto chiarezza sulle sue funzioni, ridotto l'aderenza tra i suoi obiettivi e la sua pratica, che è diventato un teatro tra i teatri di Napoli, un corpo-edificio architettonicamente e finanziariamente ancora importante, ma rispetto al quale ogni necessità di relazione dal basso è venuta meno o diventata più difficile, talora mortificante. È in questo clima che – dopo quella stagione collettivamente vissuta – si è tornati alla condizione pre-Stabile descritta da Marta Porzio per cui abbiamo da un lato “un solido mercato interno per il repertorio della tradizione” che “si produce e si consuma” con continuità, forte di un pubblico che invecchiando si conferma, e – dall'altro – “un sistema” di contro-teatro che “è andato ad occupare uno spazietto minimo”, che fa fatica a crescere, essendo non sovvenzionato né favorito da leggi e politiche, e che vive di sforzi individuali o di piccoli gruppi ostinati: troppo fragili, spesso, perché siano in grado di durare o di portare i loro risultati extra-regione.
È in questo clima, dunque, che diventa impossibile anche la messa in discussione minima della direzione del Teatro Stabile: di ogni sua pratica amministrativa, di ogni sua eventuale risultato raggiunto. Mi permetto, a titolo esemplificativo, di segnalare tre aspetti che meriterebbero invece approfondimento.


Il primo: la postilla nei contratti.
Sono a conoscenza – la Regione Campania e il Comune di Napoli – della pratica pressoché frequente del Teatro Stabile di Napoli di inserire nei contratti per singoli scritturati, tecnici e artisti una postilla con la quale il teatro associa il pagamento della prestazione lavorativa all'arrivo degli spettanti finanziamenti pubblici? “Non è una clausola, ci mancherebbe. Noi rispettiamo il Contratto Nazionale né potremmo all'interno dello stesso inserire alcunché. Abbiamo solo scritto una premessa” ha affermato Luca De Fusco (Corriere del Mezzogiorno, 11 ottobre 2016). Sono dunque al corrente dell'uso di questa “premessa”? Sanno che non ha alcun fondamento giuridico e che, tuttavia, sembra diventato un mezzo formale attraverso cui – di fatto – lo Stabile deresponsabilizza in parte se stesso, mutando un contratto firmato e controfirmato da due soggetti (scritturante e scritturato: teatro e lavoratore) in un contratto a tre soggetti, per cui il primo (il tecnico, l'artista) attende in concreto il pagamento dal terzo (il Comune, la Regione, il FUS ministeriale) mentre il secondo (il teatro) stabilisce per sé il ruolo di mediatore? Sono coscienti che è sulla base di questa “premessa” che vengono stipulati accordi individuali e collettivi e che il direttore del teatro può chiedere pazienza, clemenza, ancora tempo per il saldo delle retribuzioni? E sanno Regione e Comune, appurati i ritardi (di cui sono corresponsabili), se esiste – come denunciato da alcuni artisti e tecnici pubblicamente – arbitrarietà nella cronologia dei pagamenti? E come spiegano – Regione e Comune – che tale prassi non viene invece adottata dalle compagnie private, da altri teatri cittadini ed operatori di settore, che pure possono lamentare lo stesso ritardo istituzionale?
Il secondo: la tournée dello Stabile.
Sono coscienti la Regione Campania ed il Comune di Napoli che gli spettacoli prodotti dallo Stabile ed in tournée in Italia ed all'estero sono quelli firmati dal suo direttore? Provo a spiegarmi: adeguandosi alla (cattiva) pratica dello scambio – avallata dal recente decreto ministeriale – dallo Stabile di Genova giungerà il Minetti, dallo Stabile di Torino La morte di Danton, dallo Stabile di Verona il Giulio Cesare, da quello del Friuli Scandalo mentre da Roma il Natale in casa Cupiello. Ebbene: A Genova, Verona ed in Friuli andrà il Macbeth di Luca De Fusco mentre a Torino giungerà la sua Orestea. Ed a Roma? Il Madame Pink firmato da Arias, produzione dello Stabile di Napoli, mentre il Teatro Llure di Barcellona ospita, in un'accorta triangolazione, proprio l'Orestea. Aggiungo: nel momento in cui Regione e Comune celebrano l'internazionalità dello Stabile (“Barcellona, Santiago, San Pietroburgo: sarà una grande stagione” ha affermato Vincenzo De Luca il 10 ottobre 2016, Corriere del Mezzogiorno) hanno badato, ad esempio, che le produzioni e le ospitalità napoletane firmate da Valery Fokin sono state bilanciate prima dalla tournée russa de Il giardino dei ciliegi, ancora firmato da Luca De Fusco, e poi dalla possibilità concessa ad un regista napoletano di essere a Pietroburgo per una lunga residenza al teatro Alexandrinsky, impegnato nelle prove e nell'allestimento di un Sei personaggi in cerca d'autore interpretato da attori russi? E chi è questo regista, se non proprio Luca De Fusco? Nulla di particolarmente nuovo, sia chiaro, ma colpisce la regolarità e l'accentuazione del fenomeno. Quindi: Regione e Comune si rendono conto del livello di privatizzazione produttiva e distributiva cui il direttore dello Stabile – moltiplicando per sé opportunità ed esperienze nazionali ed internazionali – sta dando vita, di anno in anno, attraverso la struttura pubblica che dirige?
Il terzo: uno sguardo al bilancio.
Il merito che Luca De Fusco rivendica con maggiore forza è quello di aver messo a posto i conti. La precarietà della gestione-De Rosa è stata superata, lo ha spiegato più volte, prima con la salvifica associazione co-produttiva tra Teatro Stabile e Napoli Teatro Festival Italia e poi con una programmazione che ha aumentato gli spettatori in sala. Rischiava la chiusura, lo Stabile ed invece “ho raddoppiato gli abbonati” ripete sovente e c'è da credergli. Tuttavia uno sguardo – pur non professionale, come il mio – sembra suggerire anche altro. Perché se da un lato è vero che il Teatro Stabile, diventato Nazionale, ha un bilancio economico ora più solido, nonostante il vuoto di cassa, è altrettanto vero che ciò si deve anche all'incremento notevole dei fondi pubblici. Solo qualche dato: lo Stabile, da quando è giunto Luca de Fusco (2011) ha costantemente aumentato le spese “per servizi” (dal 2011 al 2015 – ultimo bilancio consultabile – l'incremento è di 759.186 euro), ha inoltre aumentato le spese relative agli stipendi e ai salari di dipendenti e scritturati (più 756.472 euro, nel 2015, rispetto al 2011; l'ampliamento d'organico imposto dalla riforma non basta a spiegare tale aumento − perché tale crescita è stata costante, con la sola eccezione del 2013 rispetto al 2012) mentre i ricavi da produzioni e coproduzioni è diminuito: nel 2014 risultano pari a 1.615.525 euro mentre, nell'ultima stagione interamente firmata da De Rosa (2010) era pari a 1.849.127 euro (non tengo conto del dato relativo al 2015 perché interviene la riforma del FUS a ridurre le tournée extra-regionali dei Nazionali: i ricavi dell'ultimo anno rendicontato si fermano infatti a soli 583.337 euro).
De Fusco, a questo punto, ripeterà che ha raddoppiato gli abbonamenti ma – considerato certo tale dato, non ricavabile dal bilancio – questo non significa comunque un raddoppiamento degli incassi da botteghino, aumentati in cinque anni di 29.540 euro (586.290 nel 2011; 615.830 nel 2015). In compenso i proventi pubblici sono passati da 3.325.005 euro (2011) a 7.367.534 (2015). Cosa vuol dire questo? Potrei facilmente sbagliarmi − anzi: probabilmente sbaglierò − ma a me sembra che i finanziamenti pubblici siano serviti soprattutto a rafforzare la struttura, a mettere in garanzia finanziaria il reparto amministrativo ed organizzativo ed a pagare (stante i ritardi istituzionali già detti) di più o più artisti scritturati mentre il raddoppio degli abbonamenti pare – ad una prima valutazione – il frutto più della trasformazione dello sbigliettamento singolo in pacchetti-abbonamento (si giunge, per i più giovani, all'offerta di cinque spettacoli al costo di venti euro) che la conseguenza di un reale e complessivo raddoppiamento del pubblico. Felice di sbagliarmi, nel caso. E comunque: che valutazione danno dell'aumento del costo delle produzioni Regione e Comune e hanno mai chiesto – non essendo ricavabile dal bilancio – da chi sono firmate gli spettacoli più costosi e quanto essi incidano in percentuale sul complessivo bilancio dello Stabile? E non ritengono, Comune e Regione, che in condizioni di insolvenza così gravosa, che spinge i tecnici e gli amministrativi anche allo sciopero (aprile 2016, i quindici minuti con cui comincia il Lear) e affama parte degli artisti con il costante rinvio del pagamento pattuito sarebbe necessaria da parte delle istituzioni tanto la puntualità nell'esborso dei crediti quanto una la maggior chiarezza possibile, da parte del teatro, rispetto al modo in cui vengono spesi?


Dunque. Dobbiamo voler bene al Mercadante. Dovremmo volergli bene perché è il teatro della città, perché è il nostro teatro, perché è il teatro di ognuno di noi. E perché potrebbe essere – nel rispetto degli adempimenti richiesti dal decreto ministeriale – il punto di riferimento di un sistema teatrale che Napoli purtroppo non ha mai conosciuto.
Per me volergli bene significa porlo al centro di un dibattito pubblico che verifichi il rapporto tra le norme definite dallo Statuto e le norme attuate dal suo assetto dirigenziale; significa comprendere se possa essere non soltanto un contenitore di eventi ma anche un luogo di aggregazione, capace di favorire la crescita di un sistema culturale cittadino e regionale; significa porre attenzione alle possibilità di decentramento delle sue attività, perché migliori il rapporto (oggi inesistente) tra centro e periferia; significa ipotizzare che possa essere sede non solo di una Scuola ma di seminari destinati ai giovani teatranti della città, in difficoltà sul piano formativo; significa mettere in continua relazione la programmazione del Ridotto con le ragioni per cui è stato creato; significa valutarne la messa in pratica del rischio artistico, che motiva l'esistenza dei fondi pubblici; significa chiedersi quanto il Teatro Stabile favorisca il ricambio generazionale e se il suo prossimo direttore non debba essere scelto, ad esempio, tramite bando pubblico, con la politica che si assume il compito della scelta finale, al termine di un confronto tra progetti presentati che devono essere consultabili, offerti cioè allo sguardo individuale e collettivo di chi vuole informarsi, all'interno di un processo di selezione contraddistinto dalla trasparenza.
Voler bene al Mercadante per me significa vigilare, significa pretendere, significa scriverne: vigilare sulle sue attività culturali e manageriali, pretendere dalle istituzioni che facciano il loro lavoro rispettando i tempi di pagamento e verificandone nel contempo conduzione economica e qualità della proposta artistica, scriverne rimarcando responsabilità e doveri.
Si tratta di un atto d'amore verso un teatro che rischiava di non esistere, che Napoli ha rischiato di non avere mai.

 

 

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