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Saturday, 22 October 2016 00:00

Il cunto del disonore

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Un testo, un attore; e potremo già fermarci qui, parlando di Dissonorata, visto che nella compattezza drammaturgica e nella bravura scenica di chi lo interpreta – ovvero Saverio La Ruina, che ne è anche autore – è compreso tutto quel che serve a fare d’un testo teatrale e della sua messa in scena qualcosa di pregevole bellezza.
Dissonorata è storia che ha sapore antico ma che al contempo suggerisce subdole persistenze radicate in un ancestrale retaggio; Dissonorata racconta una storia del tempo passato coniugata al tempo presente, in forma di cunto memoriale, ma il cui concetto di fondo ritorna, mutatis mutandis, tante volte nelle storie di cronaca che ancor oggi raccontano a intervalli irregolari delle efferatezze perpetrate verso donne tenute ancora relegate in una condizione di minorità subalterna, intabarrate in un reticolo di costrizioni aberranti.

Perché Dissonorata s’ambienta sì in una Calabria che odora di dopoguerra, ha sì l’orizzonte ristretto d’un Meridione rurale e regredito, ma riverbera nel tempo presente gran parte di quel sostrato (sotto)culturale che sottende ancor oggi all’universo valoriale di certe sacche di grettezza che poi sfociano in azioni delittuose. È, quella di Dissonorata, quella Calabria (o più estensivamente quel Meridione), in cui una donna “un gavuzu mai l’ùacchi a nterra ca si nziammai i gavuzu a supa a nu masculu chi passi a lu paisu mi chiaminu puttana”, quella Calabria (e quel Meridione) in cui avere una figlia femmina equivaleva già di per sé ad una disgrazia; quella Calabria (e sempre quel Meridione) in cui la legittimazione sociale di una donna poteva avvenire solo attraverso un matrimonio, una volta contratto il quale ella poteva finalmente “ji a sula a sula p’a via nova” e poteva legittimamente “purtà a fede cu i ricchjìni” e infine proiettarsi a ripercorrere tappe segnate di un cammino già visto, fatto di subordinazione a ritualità ataviche, officiate da padri padroni che potevano disporre arbitrariamente e totalmente della vita (e finanche della morte) delle proprie figlie.
Saverio La Ruina restituisce mirabilmente un quadro d’ambiente affrescato con voce e gesti; è solo sulla scena, illuminato da fasci di luce tenue a suggerire l’aura cupa che circonfonde la storia, è seduto in posizione compressa – come si conviene alla donna che interpreta – indossa una “vesticedda” striminzita che evoca in lui la donna a cui dà corpo e infonde voce, s’appoggia al tappeto sonoro delle note di Gianfranco De Franco che contribuiscono a calare il cunto in un’atmosfera ristretta e dolente, a sua volta però spezzata dai toni che La Ruina conferisce alla sua narrazione: il racconto assume sin da subito la bonaria confidenzialità di una confessione fatta ad un uditorio intimo, trasmette tutto l’accorato trasporto di chi ha un bisogno – insopprimibile eppure forzosamente soppresso – di rendere partecipe l’altro (un altro generico ed ideale che ha in questo caso l’aspetto di una platea) di un dramma vissuto. A questi toni accorati e confidenziali Saverio La Ruina aggiunge anche una leggerezza ironica, suadente e affilata, che nel descrivere dettagliatamente una storia d’aberrazione ed il contesto culturale nel quale essa avviene, punteggia il racconto di elementi dai quali trascolora sul volto dello spettatore un sorriso amaro ma divertito, suggerendo quell’iperbole grottesca che dà la misura dell’abiezione evidenziandone i tragici (e fondamentalmente risibili) paradossi.
Nell’assistere a Dissonorata resto incantato non solo nel seguire l’impianto vocale che La Ruina conferisce al racconto della sua Pascalina – donna calabra che essendosi concessa prima del matrimonio ad un uomo che l’aveva sedotta, resa gravida ed infine abbandonata, subisce un tentativo d’essere arsa viva da parte della propria stessa famiglia – ma anche dalla gestualità che accompagna la postura tutta raccolta sulla sedia: mani che parlano, quelle di Saverio La Ruina, mani che sono un paesaggio mimato, uno scenario evocato, una emozionalità espressa in aggiunta, mani che si giungono o che si stringono a pugno, o ancora che si portano sotto al mento quando racconta le fibrillazioni sentimentali, per poi strofinarsi sulla “vesticedda” ad accompagnare l’insorgere di un pudore scombussolante.
Bravura d’attore fuori dal comune che s’appaia degnamente ad una scrittura densa e compatta, che pur snodandosi di fatto in un lungo racconto per voce monologante, non patisce alcun calo di tensione, non c’è mai una fase in cui si abbia la sensazione di una lungaggine di troppo o di un rivolo narrativo in esubero, anzi si ascolta, si guarda, si assiste con una attenzione crescente, figlia dell’empatia che Saverio La Ruina sa instaurare tra la sua Pascalina e il pubblico. E la stessa lingua che egli adopera – un dialetto calabrese stretto eppur comprensibile, che poco possiede quelle sonorità aspirate tipiche, frutto com’è di quella particolare variante dialettale parlata nella zona del Pollino, a cavallo tra Calabria e Basilicata – oltre a contribuire in maniera determinante a pennellare l’ambientazione di riferimento, finisce per fartela sentire, la rende tangibile, al punto che ti finisce per sembrare di avere davanti agli occhi non la scena spoglia da cui s’irradia il cunto, ma le immagini vere e proprie di un luogo evocato, con le sue persone ed i suoi angoli: guardi Saverio La Ruina, ma in realtà ti sembra di vedere Pascalina con lo sguardo basso, “cu a capa vasciata a cuntà i petri pi nterra”, come se ce l’avessi lì davanti agli occhi e ascoltando il suo racconto ti sembra di vedere le donne vestite di nero che a capo chino attraversano paesotti abbarbicati sulle pendici dell’Appennino calabro, luoghi in cui il tempo sembra aver subito una parziale impasse, sospendendosi tra un passato che è retaggio antico e pesante e un futuro che sembra non voler mai arrivare. 
Storia intima e personale che si dipana in forma di racconto memoriale, Dissonorata affresca una condizione generale di prevaricazione verso le donne che travalica i confini locali e generazionali. Saverio La Ruina conduce l'affabulazione calandosi nel ruolo, diventando per un’ora e un quarto Pascalina e da Pascalina “uscendo” nel momento in cui a quel ‘figlio della colpa’ viene imposto proprio il nome di Saverio, un’identificazione che sembra al contempo suggerire un’appartenenza e marcare una distanza da un universo valoriale atavico necessariamente rimodulato. Rimodulato in una storia capace di farsi splendidamente teatro: un testo e un attore a cui l’applauso è tributo dovuto.

 

 

 

Efestoval
Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria
di e con Saverio La Ruina
musiche dal vivo Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia e contributo alla drammaturgia 
Monica De Simone
luci 
Dario De Luca
foto di scena Antonio Cesario
organizzazione e distribuzione 
Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
lingua dialetto calabrese
durata 1h 15'
Bacoli (NA), Cantiere Navale Postiglione, 30 settembre 2016
in scena 30 settembre 2016 (data unica)

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