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Sunday, 09 October 2016 00:00

Quanne ghiucaveme 'u pallone

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Nel primo capitolo de Le memorie del teatro Georges Banu s'interroga su che rapporto vi sia tra il ricordo e la pratica scenica, tra ciò che era e ciò che appare. “A teatro” – scrive Banu – “la memoria è paradossale” poiché da un lato è ciò che è sempre stata, ovvero una rimanenza parziale e soggettiva che si fa “cosa rammentata” e, dall'altro invece, “cerca di mostrarsi nell'attualità di un corpo, di uno spettacolo”.
“Il teatro” – continua Banu – “da sempre s'immerge in ciò che risale dal passato” ed è per questo che, osservando l'attore – ovvero il suo fenomeno più esposto – abbiamo la sensazione ch'egli compia “in se stesso gli sponsali del tempo antico con quello di adesso”: fa “da supporto e da mediatore, da ponte e da trappola per topi” l'attore, è “all'incrocio delle durate” ed è per suo mezzo che “il teatro si fa carne” appartenendo così al presente.

Sia chiaro, ci avverte Banu: il teatro è di per sé friabile, esso stesso passeggero, teso a consumarsi proprio mentre fa memoria, appassendosi mentre ridice: fragile quant'è fragile ogni persistenza umana, il teatro è destinato – dopo l'applauso, chiuso il sipario, spente le luci, tornate vuote le poltrone ch'erano piene – ad essere inghiottito “dal mare dell'oblio”. Luogo ed occasione in cui tornano i morti per mezzo dei vivi, il teatro dunque vive fino a morirne, lasciando di sé un ricordo formato da ricordi a coloro che resisteranno oltre la sua fine: gli spettatori. Sparisce il teatro, tramutandosi da soggetto ricordante in oggetto ricordato, facendosi – da atto memoriale – argomento di memorie.
Per una sera Mimmo Borrelli porta gli spettatori di Efestoval a ridosso del lago Miseno; qui convoca giovani e anziani di Bacoli, Baia, di altri paesi e frazioni vicine, generando un Memorial – dedicato a Vincenzo de Giovanni, per tutti Bombolone – coniugato alla prima persona singolare e plurale. Racconti individuali diventano collettivi non soltanto perché sul palco avviene un intreccio di voci, e un intreccio di storie, ma perché queste voci e queste storie provocano una continua reazione avvertibile nell'uditorio: anch'io mi ricordo di, c'era anche lui che, stavo proprio lì quando e stanno parlando di mio padre, di tuo fratello, di te e di me; “stanno parlando” – sento dire da una madre ad un bambino, in platea – “di quel signore anziano che vediamo tutti i giorni passare in bicicletta”. Uno, alcuni, molti, tutti: la creazione diventa piano piano materia messa in comune.
Borrelli vuole parlare e far parlare di calcio e lo vuole perché “ricostruire la storia di una squadra calcistica è anche ricomporre un pezzo dell'identità collettiva di un paese”: è come ritrovarne “le feste, i mestieri, gli usi, la filodrammatica”. Alterna dunque cinque suoi testi inediti – Sibbilla, Abbascio a Cava, Il giocatore morto, Sibbilla giovani e Campo Maremuorto – alle testimonianze di chi c'era, di chi è rimasto, sigilla le frazioni interne con qualche citazione (da Galeano a Gianni Brera, da Soriano a Dorothee Sölle, da Beckenbauer a Borges, Gigi Riva, Puskás e Pelè), fa alzare al cielo il sonoro delle sigle storiche di Dribbling, Novantesimo minuto, Domenica Sprint, de La leva calcistica della classe '68 di De Gregori o la colonna sonora de L'allenatore del pallone. Ma soprattutto Borrelli – con questo che non è uno spettacolo ma una sorta di veglia dedicata al calcio più sudato e più pulito e destinata al recupero dell'identità locale, dell'infanzia perduta, di un legame paterno fatto di gesti e di momenti, della presenza ritornante degli amici – fa (ri)sorgere un campo, ne fa rivedere la terra e le sue righe, riesce a rimontare le azioni che in questo campo furono compiute e lo fa convocando per un paio d'ore a sé e a noi gli spettri, i morti, coloro che rischiavano – anche questa sera – di non essere nominati.
“Me ricordo”...
“Fuje ca a tanto in poi che”...
“Ce steve na vota”...
e
“Vulesse addivinta' creature”...
“Je voglio solo turna' arzillo”...
“Se torna sempe addo se lassa cocchecosa”.
“L'imminenza dell'oblio” – chiude Banu – per il teatro “appare al tempo stesso come destino e come sfida: destino che conserva l'atto votato alla cancellazione e sfida che aspira ad esaltare la memoria proprio là” – sull'orlo di un palcoscenico – “dove la memoria è a sua volta maggiormente minacciata”. È così che “l'effimero chiama l'attore a diventare un essere di memoria” perché tenti di contrastare, per una sera, la disgregazione d'interi continenti trapassati: tenendone qualche frammento, mostrandone qualche residuo.

Borrelli sa benissimo che alla base d'ogni parola c'è il silenzio e che prima d'ogni immagine esiste il vuoto; sa Borrelli che il palco ha un retropalco e che questo retropalco non è – come si potrebbe pensare banalmente – un insieme di corridoi e di camerini ma è l'antro oscuro da cui tutto viene, il prima invisibile e la premessa essenziale perché accada quel qualcosa che gli spettatori poi vedranno. Sa anche che senza quell'istante di mutismo assoluto – e di buio nero – che precede ogni spettacolo, ogni rito, ogni evocazione, nulla potrebbe succedere. Sa quindi Borrelli che il racconto del calcio bacolese necessita in partenza dell'assenza del calcio bacolese.
“Era quel tempo” dunque dice per poi aggiungere: “Era la Bacoli del primo dopoguerra”, erano le domeniche in cui s'indossava l'unica camicia bianca di lino posseduta, “un po' ruvida ma certamente linda di ranno e lauro r' 'i culate” e il vestito scuro, “dalle pieghe più o meno esatte”.
Era il tempo prima del tempo del calcio.
Era il tempo in cui le donne andavano alla messa delle cinque del mattino, “perché avevano la fretta di tornare a casa, dove le attendevano 'i pignate 'nt 'i cuoccie 'i creta p' 'u rraù”, in cui affogare gli ziti fatti a pezzi. Era il tempo in cui “gli uomini uscivano verso le dieci e sostavano in piazza a discutere di campi e di animali, di barche, di cozzeche e di pescato” per poi recarsi, alle undici, tutti assieme in chiesa. Era il tempo in cui i giovani attendevano le ragazze “alla messa r' 'i nove e mmezza aret' 'u calvario 'nt 'a via 'i Nicola” per seguirle “cu 'a cora 'i ll'uocchie e corteggiarle da lontano”. Era il tempo in cui il cinema non c'era, in cui a Napoli si andava di rado, in cui “neppure la radio aveva fatto la sua comparsa”.
Era il tempo in cui il calcio non c'era.
Era il tempo in cui non si giocava lì dove ora c'è il vecchio mercato di Miseno; era il tempo in cui non si usavano come rettangoli di gioco gli antri delle cave di Cappella o lo sterrato “sott' 'u castiello 'i Vaia”; era il tempo in cui non c'erano ancora porte da calcio i cui pali erano stracci o pietre e la traversa era un limite inventato o campi le cui cui linee laterali erano righe tracciate da un'immaginazione mobile, che s'adattava ora all'andamento della partita, ora alla confusione di una discesa sulla fascia, ora alla decisione di un arbitro che coincideva con il più prepotente tra i giocatori impegnati nel giocare; era il mondo in bianco-nero, mondo da foto color seppia, mondo di silenzi tardo mattutini rotti soltanto dallo scampanare ecclesiastico, era il mondo dei pomeriggi senza pallone, senza tifo, senza immedesimazione corale, senza la democrazia titanica ed umana dello scontro undici contro undici. Era il tempo senza l'Audace, senza la Cacafuoco, la Pro Bacoli, la Sibbilla, la Virtus Baia, la Juve Spartaco e l'A.C. Bacoli, l'Inter Bacoli, la Rinascita Bacolese, il Cappella, il Monte di Procida, “'u Torregaveta”. Era quel tempo ma “poi arrivò il calcio”, dice Borrelli, e si cominciò “a giocare su terreni sabbiosi, ripuliti dai giunchi che li affliggevano” o nei rettangoli “delimitati da paletti e da funi” o si andava giù alla cava, dove avvenivano tornei ch'erano la scusa per fuggire da casa e dallo sguardo di una madre e che comportavano il primo (cercato) contrasto con il mondo; erano perciò strumento di crescita, mezzo per l'affermazione di sé, occasione di confronto; ora ti faccio vedere chi sono, adesso fammi vedere chi sei:

“C'accucchiaveme sempe abbascio 'a cava.
'A cava r' 'i prete: ogni preta nu palo.
'A pere scauze: 'a povere s'aizava;
n'autra preta e facive chill'atu palo.
'A traversa era a immaginazione
proprio pe' chesto se tirava rasoterra,
pure e mez'aria 'u tiro n'era buone:
'È asciuto fore!' Accumminciava 'a guerra.
Pe' nun ferni' a palate m'ero 'mparato
a tira' a nu parmo r' 'a preta 'i tufo, 'u lato.
Cu' cazzo me dicevano: 'Fora è asciuta!!'
'A fessa 'i mammeta e soreta 'mbettuta
allardiata, allattarata e sbrefugnata,
comunque a finale eva fferni' semp'a mazzate”.

Dalla cava – quando somigliavi vagamente a un calciatore, quando i muscoli rispondevano alle intenzioni, quando i piedi non servivano soltanto a correre ma anche a tirare, quando avevi il fiato ed il coraggio, quando sapevi guardare negli occhi gli avversari senza tremare, senza recedere, quando eri ormai assuefatto a mischiare “terra cu sanghe a mille schizze, terra cu terra, sanghe e sanghe” – eri forse pronto per il campo vero, per il campo Maremorto.

“Ca steva na vota nu campo 'u Maremuorte
'i mister Carlucciello, 'u Camello 'mporte,
n'atu Camello a libbero, nu scellone,
'u campo addo' è crisciuto ogni guaglione;
cu Cammarota, Cibbacco, Bombolone,
'a Sibbilla in Eccellenza e Promozione,
'a Coppa Sant'Anna 'i Vittorio Capuano,
'u cchiù forte ghiucatore 'i Vacule sana-sana,
'a Juve Bacoli r' 'a bonanema 'i Mazzerano,
'u Torregaveta, 'a Rinascita e sempe llane
cu Masto Criscienzo e Biagino Illiano,
'u Cappella 'i Gennaro 'u capitano”.

Borrelli non ci convoca questa sera in un luogo qualsiasi, non colloca cioè questo Memorial in uno spazio che possa teatralmente andare bene – per ragioni strutturali o paesaggistiche – all'evento ed al suo pubblico. Borrelli sa che, per i vivi, i morti stanno all'orlo dei tumuli, che giacciono ai piedi di una lapide, che la tomba funge da soglia di contatto e d'incontro, di commemorazione e di colloquio. Per questo ci chiama alla tomba, alla lapide, al tumulo del campo Maremorto ovvero al centro di un parcheggio in cemento, sotto il quale è seppellita la terra battuta dai tacchetti e, con la terra, tutto quello che vi successe: la punizione a “tre ponte”, curva nell'incrocio; il colpo di testa in tuffo, a dieci minuti dalla fine; il rigore, parato ad una mano, e il 3 a 2 alla Puteolana, il derby vinto nel recupero, il tiro da trenta metri, partito a pochi centimetri dalla linea laterale: la marcatura a uomo che ho perso, il portiere battuto, il porcoddio mandato all'altissimo.
È dunque “un campo morto davvero” questo campo “in cui abbiamo pianto e gioito”, dove “abbiamo urlato e sbraitato, fatto a mazzate e sputazzate” ed è perciò qui che dobbiamo sostare – ci dice Borrelli – giacché è qui, al centro di questo parcheggio, che Toni Chiovato “u campo 'u facette senza sosta: coinvolgendo, sbraitanno ogni genitore a da' 'na mano, ma senza cerca' favore”; è qui che avveniva, è qui che successe, è qui che c'erano:

“Pe' racchetta-palle Totore Nippine,
Antonio Ottobre, Affonzo 'u Mericane.
I fratelli Ottobre ca facevano 'ammuina
pe fa' 'mpressione, menanno cauce, mane,
a ogni palla 'i fianco r' 'i cristiane”

È qua che “Giuvanne, all'intrasette abbiava a ghiastemma' senza mutivo 'u meglio amico: 'a bonanema 'i Rigatte, e a botte re sputazze e chitebbive facevano sempe a mazzate”; è qua – anzi è “ca” – che “Tommasone 'u tesoriere pavava na cosa 'i sorde sempe a chi signava”, è “ca” che giocavano Mosè, Mario Martino, Totore D'Agostino, Antonie Mare, Antonio Finardine e "Vincenzo Fariello chiammato Sceriffo, Gennaro Costagliola detto Cruiffe"; “ca” giocavano “Michele 'u bobbe Amoroso, Salatiello, Alberto Russo, Ciruzzo Luccheciello” e Gennaro Illiano, purtiere e cozzecaro”; “ca” giocava “Plinio Cardellaca”, che morì “in embolie pe' ghi a pisca' tre-quattro tartufe”, è “ca” che Pantera “pure s'era bontiempo se purtava 'u 'mbrello p' 'u ra 'ncuollo 'u guardalinee”, è “ca” che Gennaro 'u pazzo gridava “Vieni Sibbilla!! Vieni!!”, “ca” che Ciro Veca era “affetto da driblomania”, che Michele Capuano stava “sempe miezo 'u campo a mediano”, che Ambrosino cacciava “na bbotta ca sfunnava 'i porte”, che i fratelli Retaro venivano chiamati “i gioielle”; è “ca” che quel vecchio rachitico del prefetto di Napoli Cammarota veniva ad esercitare il Potere organizzando partite amichevoli in cui doveva fare gol per forza, “ca” che un'esultanza a pugno chiuso comunista veniva punita da un allenatore democristiano con la sostituzione, è “ca” che un paio di scarpette – col sudore che hanno dentro e la polvere che le sporca fuori – passarono da un morto a un vivo perché corressero di nuovo. È “ca” che Borrelli ci chiama e ci inchioda perché “ca”:

“Se curreva 'areto
a nu pallone senza te guarda' addereto.
Enzo Perna, Cardamuro, Peppe Schiano,
sia 'u miereco ca 'u restoratore. 'U Sciacano
r' 'a bbonanema 'i Totobbrucche, Toni Nocco,
Roberto Di Meo, Settecape, Bicchierino,
Sasa 'u mattone, Escobbarre e Cape 'i cocco,
'Nghè-nghé, Giuvanne Rocco, 'i figlie i Guarino.
Enzo Testa, Camillo e Schiattarella,
Felippo 'u biondo e Pascale Tazzulella.
Totore Esposito ca faceva 'i tunnelle
quando m'e 'mparava a difende a pezzereniello”.

Sì, perché è “ca” che giocava anche Borrelli giacché è qua che ha giocato quasi ogni bambino, ogni adolescente, ogni adulto di Bacoli e dintorni; è qua che Borrelli giocava a centrocampo, mediano capace d'usare “sulo 'u destro, pecché, mancino tanne e ancora mò ca so' irruento e maldestro, nun l'uso manco pe' ghi' a piglia' 'u purmanne”. Giocava “ca” Borrelli, con alle spalle la difesa da proteggere, d'avanti l'attacco da supportare, sulla sinistra il lago, sulla destra il muro, argine in pietra del campo Maremorto:

“Ce ghiucavo pur'je c' 'u fieto r' 'u lavo
ca me faceva cumpagnia mentre scartavo.
Ce ghiucavo pu'je, sunnanno cavuciavo
zangunate, sciamarrate mentre criscetavo.
Crescevo un'adolescenza senza paura
calcianno 'i cuollo e chianetta 'mbaccia 'i mura,
quelle mura abbattute per dare visuale
a un paesaggio ormai vuoto del cantare,
del correre spensierato... al capezzale
di un terreno di gioco... calcio del sognare”.

Seduto al tavolo quadrato del soggiorno, un metro e mezzo per lato circa. Il posto frontale, venendo dall'ingresso. Lì, scrive Borrelli, lì probabilmente ha scritto anche i cinque inediti per il Memorial Bombolone. Avendo sulla sinistra una libreria di legno chiaro che – tra cassetti e mensole – ha parte delle sue letture teatrali e letterarie; alle spalle lo stereo e un porta cd, mentre a destra c'è uno di quei mobili con cui i nostri genitori – e i nostri nonni – hanno arredato ogni salotto: una vetrinetta, buona per mettere i piatti e i bicchieri della domenica e che, a casa di Borrelli, ha dentro e sopra una parte dei premi che ha vinto in questi anni. Avendo difronte il divano; ancora sulla destra un lungo specchio orizzontale; componendo forse con metodo – la mattina, prima di una passeggiata con gli amici; il pomeriggio, dalle quindici alle diciotto – o senza metodo e dunque in piena furia, quand'è notte: quando tutti, in casa, hanno la testa sul cuscino.
Ho visto quel tavolo, ho visto quel posto ed ho visto i quaderni in cui Borrelli ri-versa i versi: colate di scrittura in colonna – tre colonne a pagina – che sono testo senza personaggi, trama ancora senz'ordine e chiarezza, senza disciplina se non quella della pratica poetica e immaginifica, dei rimari di cartone, della metrica contata sulle dita. Qualcuno – ma chi? – dice qualcosa, qualcun altro – perché? – gli risponde; a chi appartiene questa frase? Che sta succedendo in questo momento? Di giorno in giorno a quel tavolo il testo si raffina – come si raffina il vino setaccio dopo setaccio, travaso dopo travaso – ed ogni frase inizia ad essere assegnata. Il cantore si fa autore, l'invasato diventa un regista solitario, appare poi l'attore che dice e ridice, prendendosi una scena che coincide ancora col salotto: con questa stanza comune di questa casa familiare. Di quaderno in quaderno l'accumulo si disciplina quindi fino a diventare il testo che (forse) verrà agito in palcoscenico.
A me – lo confesso – talora piace pensare a un Borrelli meno invasato di come spesso viene dipinto e raccontato; mi piace pensarlo a metà strada tra la grafomania di Walser – che ammalato d'inchiostro fino alla follia, colmava ogni pezzo di carta disponibile con frasi, parole e lettere, rasentando con ordine maniacale anche gli orli dei fogli che aveva a sua disposizione – ed il rigore severo di Pirandello che, visitato dai suoi spiriti – venuti nello studio i personaggi – bilanciava l'indicibile tragedia del suo spirito, celata in segreto in mezzo al petto, scrivendo e poi leggendo ad alta voce le parti di tutte le figure: standosene solo, come solo sta ogni vero autore al cospetto del suo dramma. E mi piace anche pensare che questo della composizione sia il momento meno democratico del teatro di Borrelli, quello in cui l'Ego gli si fa assoluto non per produrre – uso parole sue – una “sborrata” di “masturbato narcisismo autoreferenziale, ego-riferita” ma perché quest'Ego, quest'Io, deve contenere i molti che avranno voce e corpo in scena: “Veglia senza ceri del sentire”, dunque, “omelia senza incenso dell'agire” da cui deriverà quella recitazione che – dice ancora Borrelli – è “un reagire a impulsi organici” e di cui “la parola è il dramma d'espressione, il divenire”, la “conseguenza tagliente” non “del fare, dell'agire all'imitare, ma effetto senza effetto dello stare”. Verrà la prima, il pubblico, le luci accese, l'attesa dell'inizio, verrà – e mi sembra di tornare alle parole di Banu, con cui ho iniziato questo articolo – il “sacrifico sudore nel farsi guardare mentre si muore, nell'immolarsi al pericolo sincero dell'emotività, del parlare e del pensiero”. Lì il teatro diventa “un gran patto collettivo, d'espressione, ma comun-icativo” in cui l'atto personale, coinvolge e riguarda “ogni attore, scenografo, regista, dall'autore, alla sarta, al macchinista”. E, naturalmente, il pubblico presente.
Ed allora mi chiedo: come collocare il Memorial Bombolone? A quale fase del processo artistico appartiene ciò che ho visto?
C'è un momento ulteriore, penso; un momento invisibile a chiunque tranne che a Borrelli e a chi gli sta davvero accanto. È il momento che precede anche la solitudine (ma piena di spettri) anti-democratica della scrittura, è il momento nel quale Borrelli si pone in rapporto (lungo) col proprio territorio, traversandolo, frequentandolo, ascoltandolo, studiandolo. È il momento nel quale Borrelli somma alle letture propedeutiche l'ascolto di amici, familiari, vicini, parenti, concittadini, vecchi e vecchie del posto, sconosciuti di cui apprende l'esistenza ed un frammento di storia che potrebbe meritare la conservazione, il trattamento, la memoria ed il teatro. È – questo – il momento in cui Borrelli riceve e accumula, prende e registra, accoglie e serba: ore, giorni, settimane, mesi di relazione quasi passiva, durante la quale molti gli dicono perché egli dica di molti a molti: mettendo in scena l'opera.
Allora il teatro è sì “un gran patto collettivo”, mi viene ora da scrivere, ma lo è in due momenti, lo è all'inizio ed alla fine, poiché quest'autore riceve da una comunità e – passando un travaglio doloroso, incerto, semibuio, che ha uno sgravamento compositivo ed isolato – (al)la comunità poi restituisce, in forma nuova.
Ecco allora il valore ulteriore del Memorial Bombolone: Borrelli espone – per la prima volta ed in forma viva – il suo rapporto con Bacoli, con Baia, Torregaveta, coi Campi Flegrei, espone la fase dell'ascolto, la condizione in cui fa da arbitro tra le molte storie che gli si fronteggiano all'udito, espone Borrelli quel che non ha mai mostrato ad alcuno mai: se stesso, in mezzo ai suoi.
Se questo corrisponde anche solo un poco al vero allora aver visto, il 27 settembre, sul palco la famiglia Erbaggio e Peppe Gallo, Aldo Ranieri o Nicola Della Ragione, Gennaro Schiano, la famiglia Ottobre e – dal vivo o come nomi soltanto nominati:

“Davide Lettieri, ll'amico mio vicine
de fratellanza e rimpetto re cabina,
Siddartha Caiazzo, U maragia', Nellino,
Fabrizio, U mellone, u nanetto Austino,
Chicco all'anagrafe Claudio Febbraio,
Cresciuto ra fuchera e on Armando Popayo:
pecché era a copia spiccicata e tale
quale a Braccio di Ferro ncopp'u giurnale.
Massimo e Lello ovvero i brutosse.
Armandino, o Geggio, ca badavano i ciesse.
Bocchette, 'i ggemelle... Vicienzo e Pietro ca
Felice u bagnine steve sempe a li caccia'”

significa ad un tempo aver veduto la materia e la fonte del teatro di Borrelli, la premessa e il suo argomento: privilegio critico, che deriva semplicemente dall'esserci stato.
Per questo non posso che terminare lasciando il campo come il campo lascia ogni spettatore, quando la partita è ormai conclusa. Cosa porto con me? E cosa voglio condividere con chi mi legge? Cosa mi piacerebbe passare, tra ciò che mi è stato passato? Quest'articolo finisce con l'integrale de Il giocatore morto, perché sia l'ultimo ricordo, sia l'ultima immagine, perché un nome – questa volta – sia l'ultima parola che viene scritta, l'ultima che viene letta:

“Fuggire come un bambino dietro al suo pallone
rotolare sulle conchiglie lasciate r' 'u vattiggio
baciato da mareggiate di aghi senza ditone
da pungere al vento scirocco ru meriggio
salsedine e sabbia alla caviglia bronza
su una secca in mare rotolo e corriggio.
Dio ha preparato il suo campo all'intonza
luna patrona ca chiena, rire e infliggie
se move in armonia delle mie finte a luna
lampione faro de milleno de fortuna
corro sgambetto il fiato polmonare
corre ogni venuzza nell'adrenalina al sale
correre rincorrere incorrere e scappare
nel non voler mai crescere nulla c'è di male:
correre con una lacrima spina alla gola,
un amo che immalinconisce l'andatura
scarto il catrame, mia madre implora
sempre che al cuore non faccia puntura
cicatrice fluorescente del male da farsi
nel crescere grande e forte diventarsi
voglio ruzzolare in mare come tuffarsi
dopo aver visto e segnato all'improvviso
ogni chicco di sabbia va a disfarsi
e diventa maschera infante sul mio viso
al festeggiare i gol dell'innocenza
r' 'a fanciullezza che ricordo in indolenza.
Me ricordo chill'ommo ca na linea a cumpasso
se tirava 'nterra cu 'i chiuove r' 'i tacchette
sott' 'i scarpe e diceva: 'A ccà nun passe
manco quanno muorto forze m'arrecette.
Me ricordo chill'ommo ch'asceva fore rrazza
pecché ghiev'acchiappanne 'criature
a miez'a via, senza scarpe, senza lazze,
te susteneva ca putive sta sicure:
a 12-13 anne 'i menava a ghiuca'
dint' 'u campo e llane pe' miracule
diventava omme senza maje te piglia'
appaura: chella era 'a Juve Bbacule.
Me ricordo chill'ommo assaje ggeneruso
ch'appriess' 'u pallone c'ave semp' arrefuso:
sorde, famiglia, pe' na passione umana
chisto se chiammava Totore 'i Mazzerano”.

 

 

 

 

 

 


Efestoval
Memorial Bombolone
a cura dell'Associazione Culturale IoCiSto
di e con Mimmo Borrelli
testi di Mimmo Borrelli
Bacoli, Villa Comunale/ex campo Maremorto, 27 settembre 2016
in scena il 27 settembre 2016 (data unica)

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