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Friday, 30 September 2016 00:00

La Cupa e la strutturazione di un pubblico

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Novoli, Campi Salentina, Trepuzzi: tre luoghi, un’anima – quella salentina – che, ad onta di un meteo che ha visto Giove Pluvio mostrarsi particolarmente beffardo, ha vissuto e si è fatta respirare nella seconda edizione de I Teatri della Cupa, festival teatrale che sotto la direzione artistica di Tonio De Nitto, ha inscenato quest’anno la sua seconda edizione.

Epicentro del Festival è Novoli, pochi chilometri fuori Lecce e una stagione teatrale invernale che fa vivere il locale Teatro Comunale grazie alla compresenza in residenza di Factory Compagnia Transadriatica e di Principio Attivo Teatro; è a queste due compagnie che si deve la riqualificazione di un teatro che ha rischiato di essere buttato giù per far posto ad un parcheggio e che per un certo periodo era stato addirittura adibito a deposito di motorette della nettezza urbana.
Appendice estiva di una stagione di buon livello, il Festival amplia il suo raggio d’azione ai comuni della Valle della Cupa (quest’anno quelli inseriti nello stretto triangolo comprendente, oltre a Novoli, come detto, Trepuzzi e Campi Salentina).
Arrivo a Novoli il 7 settembre per la seconda parte del Festival (una prima tranche s’era svolta dal 2 al 4 settembre) e, oltre ad assistere agli spettacoli in programma, quel che mi colpisce vivendo l’atmosfera novolese consiste fondamentalmente in due cose: in primo luogo il clima di assoluta rilassatezza in cui si svolge il tutto, con lo spauracchio pioggia che, pur causando lo spostamento di diverse location, non inficia minimamente quell’atmosfera ad un tempo fattiva e serena; in secondo luogo resto piacevolmente colpito dalla presenza del pubblico, non solo numeroso ma partecipe, non solo partecipe ma vario. Provenendo da una realtà – quella napoletana – in cui capita sovente di “riconoscere” il pubblico teatrale come consuetudinario, espressione di un microcosmo in cui il ricambio e l’acquisizione al teatro di nuove fette di spettatori procede con relativa lentezza, mi sorprende invece favorevolmente notare come a Novoli (ed anche a Trepuzzi) convergano frotte di spettatori, trasversali per età e fasce sociali di appartenenza e per giunta provenienti da un circondario più ampio, che comprende tanto il capoluogo quanto i comuni limitrofi. L’altra faccia della medaglia, a detta degli organizzatori, è – paradossalmente – la risposta non consona proprio da parte della cittadinanza di Novoli, sensibile – sindaco in testa – al tema dell’intitolazione del Teatro Comunale ad un drammaturgo locale (di fama invero alquanto oscura, tale Mario Teni), ma poi sostanzialmente poco presente alle rappresentazioni teatrali.
Ma, in definitiva, il dato che mi preme sottolineare è proprio quello, sintomatico della bontà di un lavoro svolto, della creazione di un bacino d’utenza ampio e strutturale, che ha fatto sì che in un lasso di tempo relativamente breve – tre anni – si venisse a creare un polo d’interesse teatrale a nord di quel lontano sud chiamato Salento.

La lettera di Paolo Nani è spettacolo che il prossimo febbraio compirà ben venticinque anni e che da venticinque anni, partendo dalla Danimarca (dove Paolo Nani risiede), gira portando in scena una clownerie che varia sul tema come un esercizio di stile, ma che – diversamente da un semplice esercizio di stile – si offre in visione come fosse una sorta di breviario essenziale di arte attorale. Su un canovaccio molto semplice (un uomo, una lettera da scrivere e una penna che si scoprirà non avere inchiostro), Paolo Nani innesta una serie di variazioni sul tema di partenza declinandolo in tutti i modi e tutte le salse, facendo del suo corpo strumento flessibile e funzionale ad approntare una gestualità consona ad ogni variazione. L’uso della parola è limitato ad un breve preludio plurilingue e poi giusto a qualche “wow” e a tante interiezioni; così vediamo e rivediamo la stessa scena riproposta sempre in una chiave diversa, variata come se fosse una scena di ambientazione western o horror, recitata all’indietro, come se si fosse premuto un tasto rewind o senza mani, simulando ubriachezza oppure compiendo due azioni per volta, sempre e comunque svolgendo la sua azione con tempi perfettamente calibrati, sia per coordinazione motoria che per effetto comico raggiunto (d’altronde, venticinque anni di “rodaggio” ne fanno uno spettacolo decisamente collaudato), senza rinunciare all’interazione col pubblico. È comunque difficile raccontare uno spettacolo come La lettera, perché ci troviamo dinanzi ad uno di quei fenomeni che andrebbero visti più che raccontati, per poterne godere, per poter apprezzare la nuda minuzia del lavoro dell’attore, la capacità di creare e sviluppare, dal grado zero di una situazione di partenza, una molteplicità di varianti sceniche tendente ad infinito: un vademecum per attori (e spettatori) per apprezzare le flessibili pieghe entro le quali si può muovere un mestiere, qui esercitato con ammirevole maestria. Spettacolo memorabile.

Dal cortile del Palazzo Baronale si passa ad un interno in cui si ricava l’intima stanza del dolente monologo interiore della Else di Schnitzler, qui messa in scena dalla Bottega degli Apocrifi; pur non potendo avere contezza della resa scenica dello spazio in cui era originariamente previsto lo spettacolo – la terrazza del Palazzo Baronale – trovo che la location ‘di ripiego’ (causa maltempo) conferisca alla messinscena di questa Else una dimensione intima e conchiusa che molto ben si attaglia alle corde di questa drammaturgia. In scena la sola Miriam Fieno a vivere lo scompiglio di una stanza e di un’anima disturbate da un tormento, un rovello in cui frivolezza e malizia si mescolano all’ombra di un’urgenza concreta: un padre compromesso, un amico di famiglia col quale mostrarsi 'carina' e condiscendente per riceverne un aiuto economico; sullo sfondo le vacanze consumate all’ombra di un Alpenglühen (il tramonto alpino) che ha già cessato di mostrare il suo rosseggiare per confinarsi fra le quattro pareti di una stanza, abitata da un disordine disperso e tappezzata dai nomi dei personaggi che popolano il mondo di Else, metonimie su foglietti affissi per lasciar posto a tutto il flusso interiore delle paturnie e dei vezzi di una ragazza di buona famiglia, calata in un contesto che potrebbe essere contemporaneo (i trentamila fiorini diventano trentamila euro, tra gli oggetti sparpagliati per terra anche un computer e delle cuffie), dimidiata tra la situazione malaccetta ed il desiderio di un altrove possibile, l’America come vagheggio, il presente come necessità costrittiva come le pareti di una stanza, il veleno come possibile fuga dal mondo concreto.
Miriam Fieno attraversa lo spazio scenico con studiata precisione, dà vita ad una Else del nostro tempo che al tempo è trasversale, riproponendo dinamiche (e nequizie) comuni ad ogni epoca, in cui il perbenismo delle forme maschera la crudeltà della sostanza. Nella precisione strutturale della messinscena di Cosimo Severo non v’è tuttavia quel surplus che la elevi dalla sufficienza di un compito ben svolto, cui s’appone nota di biasimo per la scena che prelude al finale – con lei che inginocchiata giochicchia a lungo con calici di vetro disposti sul letto come fossero tessere di un domino, così come i personaggi che attraversano la storia attraverso il suo racconto – e che pare sofisticata variazione senza rilevante spessore.

Scaglionate in due giorni e inframmezzate dalla visione di altri spettacoli, assisto alle letture delle fiabe di Licia Lanera: non semplici letture drammatizzate, ma qualcosa di più, non uno spettacolo teatrale vero e proprio ma qualcosa di meno. Si sale a quello che un tempo fu il piano nobile del Palazzo Baronale (oggi semivuoto, accoglie desk di potenziali uffici). In gruppi di dodici si è condotti dinanzi ad una porta chiusa, per accedere si bussa in attesa di un consenso. All’interno, fra musiche forti e luci cupe, Licia Lanera ci accoglie in un’atmosfera darkeggiante. Dodici spettatori per dodici letti e una narrazione fatta al microfono in cui la Lanera si diverte a far vivere attraverso la sua voce le quattro favole (Cenerentola, La sirenetta, Scarpette rosse e Il pescatore, quest’ultima recitata con inflessione barese), tratte da Andersen e dai Fratelli Grimm e delle quali soprattutto non rinuncia a quell’efferatezza originaria – edulcorata nelle versioni vulgate italiane), che ben si sposa con l’ambientazione in cui sono calate; fiabe che lei comunque legge al microfono conferendo loro buono spessore interpretativo, variando di timbro, dando voce alle parole ed alle onomatopee, calando la narrazione in un’atmosfera onirica e cupa, come a voler strappar via il velo rassicurante delle favole tradizionali. Ma, al di là della suggestione iniziale – peraltro a tratti ben coadiuvata dal naturale tuonare esterno – l’espediente dei letti dai quali si assiste (si ascolta) al racconto non pare conferire all’esperimento densità di senso ulteriore che lo elevi dal rango di semplice lettura drammatizzata.

Arcangelo di Franco Ferrante è un monologo di altro genere (rispetto ad esempio ad Else), non proviene da alcun precedente letterario, ma arriva direttamente dal vissuto personale di chi lo inscena: Arcangelo è davvero il figlio di Franco Ferrante ed è soprattutto il resoconto, intenso e  (parzialmente, perché solo parzialmente può esserlo) catartico di un dramma vissuto sulla propria pelle, sulla malattia di un figlio. “Nistagmo” è la parola che identifica il male, un’affezione dell’apparato oculo-motore che colpisce un bambino appena nato; quel bambino si chiama Arcangelo e da quel bambino nasce questo monologo – che fatico a chiamare “spettacolo”, questione di verecondia – che pur nella tragicità del tema trattato, sfugge agilmente a qualsivoglia connotazione melodrammatica e facilmente sentimentale.
In Arcangelo ci sono vita e teatro che si intrecciano; mentre vi assisto mi tornano in mente parole ascoltate da Mimmo Borrelli: “Io faccio teatro per risolvere i miei problemi”; in questo caso, in maniera diversa, con i problemi che si fanno teatro, vedo un uomo – incidentalmente attore – che racconta il proprio dolore, la propria rabbia, un uomo – incidentalmente attore – che racconta tutto il suo sentire di padre. Ci sono la carne e il sangue, in Arcangelo, ci sono vita e teatro che s’intridono, con l’una che suggerisce all’altra che “a teatro bisogna sempre dire la verità”, anche quando si finge; ed è quello che fa Franco Ferrante portando in scena se stesso e la propria vita, raccontando un dramma intimo e intenso, però con quel tocco di ironia, di scanzonata leggerezza che fa da sfondo e cornice e che ne impedisce lo svilimento verso qualcosa votato alla facile commozione. La sua interpretazione è forte e commossa – e non si fatica a comprenderne il perché – ma è soprattutto toccante per come lacrime vere di un uomo si mescolino a vero sudore d’attore, arrivando a chi è seduto in platea con una schiettezza ed un’autenticità che inumidiscono gli occhi.

Dopo un giorno di pausa, il Festival si sposta a Trepuzzi dove, nella sede del GAL (un ex opificio i cui si fabbricavano tapparelle di plastica), in due sere consecutive André Casaca mette in scena due suoi spettacoli: Casa de Tábua e Tranquilli!!! Contestualmente lo stesso Casaca tiene anche un workshop sull’identità comica del corpo.
I due spettacoli, in verità, deludono alquanto le aspettative, mostrando nel primo caso una serie di invenzioni clownesche in un gioco a due che langue in attesa di un decollo che in realtà non avviene. Se per coordinazione motoria e presenza scenica i due clown André Casaca e Irene Michailidis (con tanto di nasi rossi in viso) si mostrano padroni della scena, in Casa de Tábua finisce per mancare un filo drammaturgico che conferisca un senso complessivo e profondo all’incontro tra due personaggi (e tra due timidezze), le cui vite sembrano incontrarsi senza riuscire a toccarsi, fino a raggiungersi finalmente in cima ad un mastodontico seggiolone. Ma alla delicatezza di fondo del messaggio non corrisponde una resa scenica capace di trasfondersi in espressione teatrale apprezzabile. Non va meglio con Tranquilli!!! che vede in scena stavolta da solo lo stesso Casaca, che nella fattispecie si esprime in una clownerie più semplice, arrivando a bordo di un triciclo accessoriato da mille marchingegni, preceduto da un video (per la verità palesemente rudimentale) in cui “vola” sullo stesso trabiccolo dispensando saluti ai bambini. Ed è l’interazine coi bambini del pubblico a rappresentare il vero approdo dello spettacolo (interazione tra l’altro già parzialmente vista in Casa de Tábua), lasciando però la sensazione più di assistere ad un intrattenimento che ad uno spettacolo vero e proprio.

Volendo tracciare un bilancio complessivo de I Teatri della Cupa, trovo che si tratti di un Festival destinato a crescere, che gode di una direzione artistica dinamica e avveduta, consapevole della materia che tratta e del territorio in cui opera. Al di là degli spettacoli proposti, è la filosofia di fondo che sottende a questo Festival a renderlo un polo d’interesse, il che mi pare principalmente testimoniato dalle capacità di catalizzazione di un interesse e di strutturazione di un pubblico dimostrate.

 

 

 

 

I Teatri della Cupa

La lettera
ideazione Nullo Facchini, Paolo Nani
regia Nullo Facchini
con Paolo Nani
foto di scena Eliana Manca
produzione Bags Entertainment
paese Danimarca
lingua italiano, inglese, francese, danese
durata 1h 15’
Novoli (LE), Cortile Palazzo Baronale, 7 settembre 2016
in scena 7 settembre 2016 (data unica)

Else. Andante, cantabile con brio
Monologo per tre figure
riscrittura da La signorina Else
di Arthur Schnitzler
di Cosimo Severo, Stefania Marrone
regia Cosimo Severo
con Miriam Fieno
foto di scena Eliana Manca
produzione Bottega degli Apocrifi
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Novoli (LE), Interno Palazzo Baronale, 7 settembre 2016
in scena 7 e 8 settembre 2016

Licia legge le fiabe
Letture tratte dalle fiabe di Grimm e Andersen
regia e spazio scenico Licia Lanera
con Licia Lanera
light design Martin Palma
sound design Qzerty
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Eliana Manca
produzione Fibre Parallele
paese Italia
lingua italiano
Novoli (LE), Palazzo Baronale, 7 e 8 settembre 2016
in scena 7 e 8 settembre 2016

Arcangelo
di Michele Bia, Franco Ferrante
regia Michele Bia
con Franco Ferrante
luci Ugo Maurino
paese Italia
produzione Teatro Scalo Modugno
lingua italiano
durata 55’
Novoli (LE), Casa della Cultura, 8 settembre 2016
in scena 8 settembre 2016 (data unica)

Casa de Tábua
di André Casaca
con André Casaca, Irene Michailidis
assistenza alla regia Teresa Bruno, Stefano Marzuoli
musiche Érik Satie, Roland Dyens
pianoforte, chitarra e rumori di scena Irene Michailidis
scenografie Rossella Geraldi
oggetti di scena Marie Eve Poter
macchine di scena Silvano Costagli
costumista Federica Novelli
foto di scena Eliana Manca
produzione Teatro C’Art
paese Italia
durata 1h 20’
Trepuzzi (LE), GAL – Valle della Cupa, 10 settembre 2016
in scena 10 settembre 2016 (data unica)


TranquilliI!!!
scritto diretto ed interpretato da André Casaca
assistente alla regia Fabrizio Neri, Teresa Bruno
macchine di scena Silvano Costagli
assistenza tecnica Anna Draghi
produzione Teatro C’Art
paese Italia
durata 1h 10’
Trepuzzi (LE), GAL – Valle della Cupa, 11 settembre 2016
in scena 11 settembre 2016 (data unica)

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