“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 29 September 2016 00:00

Fondamenti del teatro: Banu e il ricordo dell'effimero

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A teatro la memoria è paradossale. Da un lato, in quanto arte, almeno in Occidente, non ha che una memoria parziale, a buchi, frammentaria, e dall'altro conserva un carattere di cosa rammentata che, oggi ancor più del solito, cerca di mostrarsi nell'attualità di un corpo, di uno spettacolo.

Nonostante questa passione recente, il teatro da sempre si immerge in ciò che risale dal passato e l'attore compie in se stesso gli sponsali del tempo antico con quello di adesso. Serve da supporto e da mediatore, da ponte e da trappola per topi − è all'incrocio delle durate, perché il teatro si fa carne, diventa presente. Sì, risponde qualcuno, queste alleanze che la scena realizza sono fuggitive. Passeggere. Si sfanno conservando dietro di sé sempre poche tracce: oltre i luoghi e i testi, il mare dell'oblio sembra inghiottire l'atto che è riuscito per un istante ad attualizzare la memoria. Qui, dove la conservazione corretta è impossibile perché lo spettacolo non potrà mai essere integralmente preservato, a differenza di un quadro o di un romanzo, l'imminenza dell'oblio appare al tempo stesso come destino e come sfida. Destino che conserva l'atto votato alla cancellazione e sfida che aspira ad esaltare la memoria proprio là dove la memoria è maggiormente minacciata. L'effimero, la sua coscienza, chiamano l'essere che recita o l'essere che guarda a diventare esseri di memoria. Il ricordo dipende soltanto da loro perché sanno che, più tardi, nessuno avrà più accesso direttamente all'opera ma soltanto a testimonianze. Le loro.


Lo si sa, l'oblio, la sua estensione è l'altra faccia, imperativa, della memoria. Questa trattiene frammenti mentre continenti interi si disaggregano: i poteri dell'oblio sorpassano sempre le risorse della memoria. Il teatro esaspera il confronto di questa bipolarità perché la sua memoria, la memoria dell'atto, esiste ma non si fissa in una realtà che ci permetterebbe di farvi ritorno: l'oblio la corrode e il ricordo la trasforma.
[Per questo], quando si vede il teatro, al presente dello sguardo si aggiunge la coscienza del suo sparire e, implicitamente, della memoria come estremo soccorso. Là dove nulla rimane come fu, lo spettatore sa che l'ultima opportunità rimasta è la sua. L'imminenza della cancellazione acutizza la coscienza della memoria. Non si vivrà e non si vedrà più quello... e da allora si resiste salvaguardando lampi del teatro che passa, atolli luminosi circondati dall'oceano dell'oblio. La memoria del teatro è dunque una memoria macchiata di soggettività, un po' scorretta, come una memoria della vita.


Fra gli artisti di teatro alcuni vivono frequentemente l'insicurezza della memoria come un difetto. Sono quelli che fanno un teatro impregnato dell'amore della letteratura o delle arti figurative, che provano in maniera particolarmente dolorosa questa evanescenza; quelli che non sono del tutto dalla parte del teatro, quelli che non rispettano il patto iniziale. I registi che, non contenti d'aver condotto un corpo a incontrare un'altra durata vorrebbero, come Faust, che questo incontro magico durasse... che l'istante si fermasse. Ma, quando la perfezione è raggiunta, l'istante si ferma per davvero soltanto nell'animo dei testimoni. Sono loro che lo vivono, sono loro che lo raccontano. Il regista che è alla ricerca di memoria porta in sé il rimpianto dei monumenti e non la passione degli individui.
L'altro, all'opposto, colui che vive il teatro come un'esperienza passeggera, accetta di trattarlo come un eterno ricominciare le cui impronte si imprimono nelle labili memorie degli individui e non nei cataloghi dei musei. Resta indifferente all'ansia di conservazione classica perché, per lui, la vera memoria è essenzialmente una visione d'assenza.


Le debolezze di una memoria registratrice permettono al teatro di costituirsi in spazio fantasmatico.
La cancellazione comporta gli scacchi nella distesa indistinta dell'oblio, finché i risultati sussistono, sottomessi al lavoro di quello che Paul Virilio chiama "la memoria menzognera", quella che, pur di conservare, esalta il ricordo, a volte il nimbo d'un'aura mitologica. E ciò si giova del vantaggio che i testimoni hanno di poter raccontare, liberi dal timore di qualsiasi smentita.
Il ricordo mitico degli spettacoli è il ricordo dei maestri del presente, simile agli eroi della storia o ai campioni degli stadi. Diventano memoria solo grazie alla conoscenza diretta del teatro, conoscenza di spettatore. [Così] del percorso dell'artista di teatro, il più delle volte, non si conserva l'integralità ma i culmini, i momenti di felicità. Una memoria frammentaria non può che essere felice.


Più che altrove è a teatro che si osserva la pertinenza del concetto di museo immaginario perché queste opere disparate non si ritrovano, davvero, che in una soggettività. Essa le riunisce, per un certo tempo, e poi le trattiene con sé nella morte, a meno che questa soggettività non abbia parlato. Allora una traccia del museo immaginario può sottrarsi all'inghiottimento del suo conservatore. La memoria del teatro è una somma di musei immaginari che, tranne qualche eccezione, si disintegrano nel momento in cui spariscono. Esiste, certamente, un museo che si lascia visitare una seconda volta, quello dei repertori e dei luoghi, ma ce n'è un altro, fuggevole, il museo degli esseri che muoiono. Quello non potrà più essere visitato, non se ne conserverà che il ricordo.


I residui, a teatro, per essere evocatori, chiedono di essere reinvestiti, resuscitati in una visione d'insieme, in un vissuto dell'esperienza teatrale. A teatro tutto è incompleto. E i testi ereditati, e le sale sopravvissute e conservate esigono dei corpi − quelli degli attori e quelli degli spettatori − corpi che nel presente possono lasciarsi abitare dalla seduzione delle vestigie del passato, ma senza che essi stessi, a loro volta, divengano vere vestigia. Dietro giacciono sempre delle conchiglie incavate che ricordano il passato senza conservarlo mai completamente. Né archivio né museo, la scena è il luogo dove il passato diviene presente grazie a un individuo: è atto di memoria e non oggetto di memoria.
[Dunque] la memoria a teatro è tanto un fatto di conservazione quanto una ri-creazione d'artista. Sì, c'è la memoria che inaridisce, ma ce n'è anche un'altra, quella che si proietta a partire da rovine che ricoprono questo campo di battaglia disertato dagli attori di una volta, a partire da quei "galeoni inghiottiti", secondo l'espressione di Antoine Vitez, che la scena fa risalire alla luce del giorno. "Non è una scenografia di rovine," − scrive Daniel Mesguich − "è la rovina stessa del teatro...".
Ciò che fa una scenografia di teatro e non un bell'oggetto (una scultura, per esempio) è che deve mancare qualcosa. È da quella mancanza che nasce la scena. È il paradosso della memoria del teatro: la sua debolezza, i suoi buchi, fanno la sua forza, perché ella rende impossibile la ricostruzione e ci invita, invece, a ri-costruirla.




Leggi anche:
Fondamenti del teatro: Strehler e l'attore (Il Pickwick, 9/09/2016)




Fondamenti del teatro
Georges Banu

Le memorie del teatro
traduzione di Franco Vazzoler
Genova, Il melangolo, 2005
pp. 153; pp. 11-15






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