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Wednesday, 21 September 2016 00:00

Roberto Latini: un arsenale di apparizioni

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Quaquèo: Toh, guarda! L'hanno preso per teatro! Noi facciamo i fantasmi...
Milordino: Ci si son divertiti!
Diamante: I fantasmi? Che fantasmi?
Quaquèo: Ma sì, le apparizioni, per spaventare la gente e tenerla lontana!

                                                                                                    (I giganti della montagna, Luigi Pirandello)


 
Qualche sera fa, il pubblico di Efestoval, “Festival dei vulcani” di teatro itinerante nei Campi Flegrei diretto dal drammaturgo e attore Mimmo Borrelli, ha avuto modo di assistere a una serata speciale, per una serie di motivi. In primis, per la location: la caratteristica più notevole di questa rassegna – quest’anno alla sua seconda edizione – sta nel fatto che gli spettacoli vanno in scena in luoghi non canonicamente teatrali, spesso sconosciuti, della zona flegrea di cui Borrelli è originario.

È il caso di Parco Cerillo, un’area verde panoramicissima sulla collina di Sant’Anna, poco prima di Miseno, “restituita” ai cittadini l’anno scorso dopo un lungo periodo di chiusura e d’incuria; o il Parco Monumentale di Baia, un altro posto incantevole, nel resto dell’anno difficilmente visitabile. Qui, con luna piena sul castello aragonese di Baia, è andato in scena il lavoro di Roberto Latini da I giganti della montagna, ultima opera teatrale di Luigi Pirandello, lasciata incompiuta: forse una delle più controverse e simboliche del drammaturgo siciliano. Una riflessione amara sul teatro, allo stesso tempo una denuncia (scritta in pieno regime fascista) nei confronti del sistema culturale tutto. La trama è semplice, ma scivola spesso nel metateatro, e nella poesia. Una compagnia di giro – come tante, all’epoca, cui il blocco fascista impediva di spostarsi – approda in una villa – luogo onirico e fantastico – dove un mago e altri visionari si sono ritirati a vita privata e isolata. Alla compagnia viene proposto di rappresentare lo spettacolo alla presenza dei giganti, esseri enormi e intrisi di potere che, tutti “apparecchiati a festa”, scenderanno dall’alto della loro montagna. Su questa linea narrativa, Pirandello innesta sconfinamenti poetici, personali e metateatrali incredibilmente vicini alla condizione del teatro – e dell’attore – contemporaneo che Roberto Latini, sperimentatore sopraffino, premio Ubu come miglior attore 2013 con Il servitore dei due padroni diretto da Antonio Latella, incarna e dilata fino alle estreme conseguenze. Questo è il secondo motivo per il quale il pubblico ha assistito a una serata irripetibile, laddove ha avuto voglia e disponibilità – emotiva e intellettiva – di lasciarsi andare. Questo lavoro (una versione cambiata rispetto a quella iniziale che prevedeva anche l’attrice Federica Fracassi) potrebbe altrimenti risultare di difficile fruizione per uno spettatore medio, sia per il suo nucleo denso di significati a più strati, che per le modalità di questa messa in scena che destabilizzano fin dall’inizio.
Latini, vestito scuro e un drappo color curcuma come unico oggetto scenico, entra morbido, su un tappeto sonoro di urla di gabbiani. Il palco è vuoto, al centro una sedia con tre microfoni disposti a raggiera. Smonta subito il testo di Pirandello, partendo dal finale, precisamente dalla battuta di Diamante “Io ho paura”, che, ripetuta come un mantra, suona come una vera e propria dichiarazione d’intenti. Poi è il suono: elettrico, folgorante, ritmico. Ecco che l’incipit del testo pirandelliano diventa un pezzo progressive ipnotico che fa esplodere le parole come beat. Latini mastica e sputa dialoghi, monologhi e didascalie in una partitura di suoni campionati, archi, rumori anche naturali – la pioggia, i gabbiani, le cicale – e voci che si moltiplicano e si distorcono nei tre diversi microfoni. Oscilla letteralmente – equilibrista sulla sedia o accartocciato verso terra – tra i personaggi, le nevrosi, i dubbi del dramma pirandelliano. Fa sue – generosamente e intimamente sue – le secrezioni emotive degli attori: di chi per mestiere deve rendere l’immaginazione realtà; e crederci. Portare coraggiosamente e forsennatamente avanti quel gioco della fantasia, fiamma sacra che brucia sotto il fuoco del teatro, guardare oltre quel velo più che simbolico che l’attore porta più volte davanti agli occhi: difendere questo gioco puro dagli imprenditori dello spettacolo/giganti padroni e da "quel pubblico anche colto, istruito che pure lo vede che piango e non se ne commuove; ne prova fastidio", come dice Ilse nel monologo cui Latini imprime una viva contemporaneità.
Un personalissimo ritmo che egli trova internamente al testo gli permette di passare, con una notevole padronanza delle diverse voci, dalla dimensione lirica a quella corale, dal realismo allo sconfinamento più totale nel sogno: un vero e proprio “arsenale di apparizioni” in cui Latini si produce senza risparmiarsi. Fino a un finale sospeso che si consuma, lento e onirico, sull’aria Una furtiva lagrima di Donizetti cantata da Enrico Caruso. Il palco vuoto, la sedia messa di spalle al pubblico, al posto del fondale, la luna a picco sul mare. Dopo gli applausi, si resta qualche attimo in silenzio, a riassestarsi dopo i colpi ricevuti in un’ora di teatro con la "T" maiuscola di cui oggi, in un periodo di crisi drasticamente simile a quello in cui fu concepito I giganti della montagna, si sente francamente il bisogno.

 




N.B.:
Su I giganti della montagna – Radio edit si veda anche:
Alessandro Toppi, Il teatro degli spiritiIl Pickwick, 9 dicembre 2014

 

 

Efestoval
I giganti della montagna – Radio Edit
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
realizzazione elementi di scena Silvano Santinelli
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti, Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione
lingua italiano
durata 50'
Bacoli (NA), Parco Monumentale di Baia, 17 settembre 2016
in scena 17 settembre 2016 (data unica)

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