“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 18 September 2016 00:00

A Valle d'Itria 2016

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Dal 14 luglio al 5 agosto 2016 si è svolto nella bellissima cornice di Martina Franca, in provincia di Taranto, il quarantaduesimo Festival della Valle d’Itria.

Nell’ambito del Festival, un appuntamento sicuramente interessante è stato quello con i Baccanali di Agostino Steffani, rappresentato nel suggestivo scenario del chiostro di San Domenico. Si è trattato infatti della prima  mise en scène in tempi moderni di questo “divertimento drammatico” rappresentato per la prima volta ad Hannover nel 1695, in occasione del Carnevale. Il “divertimento drammatico” era un breve intermezzo che serviva a spezzare opere più lunghe e impegnative, per distrarre e divertire gli spettatori.
I Baccanali è, in tutto e per tutto, un esempio di teatro musicale che trae ispirazione da un soggetto di argomento greco pastorale. Tra i precedenti più celebri: l’Aminta (1573) di Torquato Tasso e il Pastor fido (1590) di Giovambattista Guarini. Anche in pieno Settecento, il poeta melodrammatico per eccellenza, Metastasio, metterà in scena, nel 1733, un’opera di ambientazione greca, L’Olimpiade, in cui grande importanza hanno tematiche e personaggi.
In questi drammi viene messo in scena un mondo incontaminato, innocente, popolato di ninfe e pastori spesso restii all’amore e all’innamoramento. Nei Baccanali di Steffani, su libretto di Ortensio Mauro, la figura di Bacco è preponderante: tutto è giocato in funzione dell’apparizione finale del dio della forza vitale, dell’ebbrezza e del delirio mistico. La figura di Bacco, l’equivalente del dio greco Dioniso, è rappresentato come un portatore di ibridazione all’interno di un mondo segnato dalla solitudine e dall’isolamento di alcuni dei personaggi, fra i quali indubbiamente spicca il pastore Ergasto. Dioniso-Bacco è il dio dell’ibridazione, anzi è un dio ibrido, come è stato definito da Massimo Fusillo1, poiché in sé racchiude diverse polarità (come, ad esempio, umano/animale, gioventù/vecchiaia, io/altro).
Nei Baccanali la stessa scenografia sembra tutta giocata in funzione dell’ibridazione: la solitudine, l’innocenza, la negazione dell’Eros, lentamente, viene ibridata dalla forza misteriosa di Bacco e, tramite la danza, questa ibridazione prende corpo in scena. Ibridazione come scoperta dell’amore, dell’Eros e della sua forza travolgente. Così scrive infatti in Il bacio di Bacco, una bella nota di regia, la regista Cecilia Ligorio: “Spogliato di una narrazione fatta di azioni, le ore che i personaggi spendono sul prato a perder tempo, diventano il giusto tempo della scoperta del turbamento erotico, di quell’inquietudine feroce e lieve insieme, che ci investe nei primi preziosi e fondanti momenti in cui il corpo fanciullo è scosso dall’eros e si dibatte per imparare come essere nel mondo attraverso il corpo degli altri”.2 E la danza (poiché la partitura è disseminata di danze) – continua la regista – esprime “il linguaggio specifico del corpo”.
La prima scena appare bipartita: da una parte vediamo Atlante sofferente che sorregge il peso del mondo, dall’altra ninfe e pastori; alla fine della scena dolore e gioia si mescoleranno mentre Atlante intona il suo canto: “Più non sento / dèi benigni il mio martir”.
Anche nelle scene successive, da una rigida bipartizione si passa a forme di ibridazione. Il marchio costante di questa bella rappresentazione dei Baccanali sembra perciò lo scioglimento della rigida bipartizione fra solitudine e festa legata all’eros. La stessa scenografia − piante che si inerpicano sullo sfondo e si illuminano – sottolinea questa bipartizione: sembra che sulla scena bacchica la solitudine non possa aver luogo. Infatti, il canto di Ergasto (interpretato dal bravo Yasushi Watanabe, dotato di una dizione limpida e di una grande musicalità) che si eleva celebrando la propria solitudine, inizia fuori dalla scena e noi lo sentiamo provenire inizialmente da un altrove lontano, un altrove dove forse può esistere il dolore e contemporaneamente il tenue piacere della solitudine. Il canto, mentre entra sulla scena, lentamente viene circonfuso dal riso delle ninfe che lo attorniano e l’incanto della solitudine e del dolore viene spezzato. È infatti l’influsso di Bacco, che sulla scena veste i panni di Tirsi (soluzione registica quanto mai indovinata), un pastore, a irradiare la piacevolezza dell’eros e della libera felicità; quest’ultima è quasi simboleggiata da due figure (due danzatori, altra felice soluzione registica) – una maschile e una femminile – che si avvolgono in sinuose danze che mimano le carezze dell’eros. Fino alla scena finale, in cui assistiamo al trionfo di Bacco e allo scioglimento della solitudine di Ergasto (e alla seduzione di una ninfa ritrosa) mentre le luci si smorzano e trionfa un abbraccio collettivo. Uno degli appellativi di Bacco era infatti “Lieo”, cioè colui che scioglie, che libera, che crea ibridazione. La stessa scenografia, nell’ottica della regista, è eloquente in tal senso: “Nel Chiostro di San Domenico abbiamo voluto esporci all’incontro, immaginando con Alessia Colosso (scene), Manuel Pedretti (costumi) e Marco Giusti (luci) un mondo unico, che cerca di annullare la dualità tra scena e platea.
Pubblico, performers, musicisti insieme, in un territorio di confine: quello della scelta all’abbandono al proprio piacere e agli altri. Ecco dunque che lo spazio di Baccanali prende forma come un luogo di trasformazione, irregolare, imprevisto, e quindi organico, in cui siamo tutti immersi”.3


Questa edizione del Festival riserva un’altra piacevole sorpresa: se abbiamo potuto ammirare i Baccanali nella loro prima rappresentazione moderna, la Francesca da Rimini (1831) di Saverio Mercadante su libretto di Felice Romani, trova la sua prima rappresentazione assoluta proprio qui a Martina Franca il 30 luglio 2016. Per varie vicissitudini, infatti, l’opera non venne mai portata sulle scene.
Il soggetto, che vede protagonisti i celeberrimi amanti sfortunati, Paolo e Francesca, oltre che, naturalmente, dal canto V dell’Inferno, trae ispirazione dall’omonima tragedia di Silvio Pellico. È infatti proprio quest’ultima, come ci informa il libro di Sala, un’importante fonte per il librettista. Sulle scene del Palazzo Ducale viene ricostruito un cupo e angoscioso medioevo; leggiamo alcuni dei suggestivi appunti del regista Pier Luigi Pizzi: “So che devo trovare un’atmosfera tenebrosa per questa vicenda inquietante. So che un velario nero tutt’attorno allo spazio scenico renderà i muri del cortile di Palazzo Ducale meno presenti. Conto sull’aiuto del vento che potrebbe evocare la bufera infernale di dantesca memoria avvolgendo gli infelici protagonisti. So che tutti i personaggi sulla scena vestiranno abiti leggeri, fluttuanti”.4
Il vento fresco della Valle d’Itria, in effetti, la sera della prima, riveste bene il suo ruolo: drappi neri, ai lati del palco, svolazzano tetri gonfiati dal vento mentre sulla scena, in un voluto contrasto cromatico, appaiono leggiadre danzatrici vestite di bianco. Da un lato vediamo un coro di uomini armati vestiti di nero, rigidi e tetri. Fa poi il suo ingresso Lanciotto (un bravissimo Mert Süngü) con un lunghissimo drappo, anch’esso gonfiato tetramente dal vento. I costumi mossi dal vento offrono un lugubre gioco di luci e di ombre che si staglia sullo sfondo chiaro del muro del Palazzo Ducale e la danza dei guerrieri assume un vero e proprio aspetto ‘macabro’, tanto da ricordare la danse macabre cinematografica che chiude il settimo sigillo (1956) di Ingmar Bergman. Le figure di Paolo e Francesca, in contrasto con i colori cupi dominanti, vestono rispettivamente di blu e di rosso: due colori forti, emblema della fatale passione che li avvolge (il personaggio di Paolo è affidato, en travesti, alla bravissima contralto Aya Wakizono mentre quello di Francesca all’altrettanto brava soprano Leonor Bonilla). Rosso è anche l’oggetto mediatore dell’amore fra i due, il famigerato libro che li induce al ‘peccato’: durante un assolo, Francesca lo esibisce in scena ed esso assume un valore particolarmente significativo tanto da trasformarsi in oggetto magico, in oggetto feticcio.
I momenti che vedono in scena i due innamorati sono ora segnati da alcune danze più veloci e concitate delle fanciulle biancovestite, ora, invece, da un rallentamento dell’azione, come nel momento in cui Francesca si sdraia a terra; la stessa musica rallenta assieme all’azione scenica.
In momenti simmetrici, successivamente, i due innamorati vengono circondati dalle guardie di Lanciotto mentre quest’ultimo impone ad entrambi una possibile morte ‘parallela’: Paolo per mezzo della spada, Francesca del veleno. In questi  momenti, appunto, la scena è costruita secondo una rigida simmetria che vede gli innamorati compiere le medesime azioni.
Nell’opera dell’Ottocento – ma anche, in precedenza, nel teatro elisabettiano (basti ricordare Shakespeare con il Romeo e Giulietta) e nel melodramma settecentesco – il principio di simmetria che investe gli innamorati sembra essere una costante. Secondo lo psicanalista cileno Ignacio Matte Blanco il desiderio di simmetria riflette la logica dell’inconscio:5 del resto, il desiderio di fusione ha da sempre caratterizzato il linguaggio erotico nonché quello mistico (possiamo ricordare, a questo proposito, Juan de La Cruz o John Donne). Eros domina costantemente la scena: come scrive il direttore artistico del Festival Alberto Triola, si tratta di un “teatro con il dio dentro”; se Dioniso aveva dominato le scene dei Baccanali, è Eros che regna incontrastato sulla Francesca da Rimini.6
Le tonalità lugubri tornano nel finale, quando Lanciotto si avventa su Paolo per ucciderlo mentre Francesca si frappone e viene colpita a morte mentre Paolo, a sua volta, si uccide. Il vento, di nuovo, torna protagonista sulla scena dopo il silenzio che avvolge l’istante fatale. Un vento lugubre, tetro ma anche leggero e “soave”, come scrive lo stesso regista nei suoi appunti, suggella un canto sublime e una grande opera.


Caratterizzata da ben altre tonalità è invece La grotta di Trofonio (1785): si tratta infatti di una commedia per musica di Giovanni Paisiello su libretto di Giuseppe Palomba rappresentata la prima volta al Teatro dei Fiorentini di Napoli. Il libretto di Palomba è a sua volta ricalcato su un testo dell’Abate Casti messo in scena per il Burgtheater di Vienna, ma con notevoli variazioni: il contesto, infatti, è estremamente diverso. Napoli non è Vienna ma, soprattutto, la corte imperiale viennese non è il Teatro dei Fiorentini, “avvezzo a ospitare commedie di ‘brillantezza’ alquanto ruspante”.7 Il rigido ed erudito dramma del Casti viene perciò ‘alleggerito’ e reso, per certi aspetti, più ‘popolare’, adatto ad un teatro impresariale.
Tutto ruota attorno ai magici poteri della grotta di Trofonio: le più ricche informazioni su questo personaggio mitico le troviamo nella Guida della Grecia (II secolo d.C.) di Pausania, nella quale si descrive anche il rituale che accompagna i pellegrini che si recano nel magico antro. Trofonio, secondo la descrizione di Pausania, è un semidio: figlio di Apollo (secondo altre versioni del mito, dello stesso Zeus), elargisce oracoli divini nel suo antro. Il personaggio è oggetto di rinnovato interesse e preso satiricamente di mira da parte del razionalismo Sei e Settecentesco: secondo questa lettura razionalista dissacrante, la grotta custodita dal semidio avrebbe il potere di cambiare l’umore delle persone che vi entrano (mentre, secondo il mito, chi era ammesso a interrogare l’oracolo beveva due tipi di acque: una dell’oblio e una del ricordo). Su questo magico potere si basano i testi del Casti e del Palomba.
A entrare nella grotta sono, nel nostro dramma, i vari personaggi: il faceto Gasperone, sempre pronto allo scherzo, e il serioso Artemidoro, nonché le loro due promesse spose, l’allegra Dori e la seria Eufelia, figlie dell’ignorante Piastrone. La trasformazione di personalità investe un po’ tutti: chi è serio e filosofeggia, come Artemidoro, diviene allegro e scherzoso mentre un personaggio allegro e spensierato come Gasperone si trasforma in filosofo. L’intreccio si complica ulteriormente, poiché Palomba aggiunge altri due personaggi femminili, Rubinetta e Bartolina, che andranno spose, rispettivamente, a Piastrone e allo stesso Trofonio.
L’opera dispiega una puntuta satira contro gli pseudofilosofi che proliferavano nella Napoli del tempo. Il complicato intreccio, gli scambi di persona e gli inganni sicuramente molto devono alla commedia plautina e al suo Fortleben, un vero e proprio importantissimo ‘ipotesto’ per ogni intreccio comico.8 Interessante è anche l’analisi dell’eloquio di Gasperone, il quale si esprime in un dialetto napoletano che “andrebbe dissezionato a sé, magari col supporto degli studi Del dialetto napoletano editi in quegli anni (1779, 1789) sotto il nome di Ferdinando Galiani, per rivendicare il primato della lingua napoletana su quella toscana”.9 È interessante ricordare, infatti, che successivamente vennero realizzate delle versioni toscanizzate dell’opera in cui il grasso e allegro Gasperone, mercante napoletano, si trasforma in mercante livornese.
L’ambientazione è greca e settecentesca ma nella mise en scène di Martina Franca il regista Alfonso Antoniozzi predilige un’ambientazione primo-Novecentesca “in cui torme di stranieri si riversavano in Grecia (ma anche in Italia) alla ricerca di un ideale classico perduto”.10 Molto indovinata, in questo senso, è la scenografia: lo sfondo ci mostra vestigia classiche tratteggiate con gusto piranesiano ed edifici classici in rovina, invasi da piante e erbacce.
Don Gasperone, che si può considerare la figura principale del dramma, “racchiude nella figura e nelle movenze l’arco teatrale che va dalla maschera di Pulcinella alla paglietta di Nino Taranto”.11 Per il resto, la scena è costellata di grossi libri aperti dai quali escono i personaggi: il libro, probabilmente, simboleggia il flatus filosofico e culturale di cui la commedia è impregnata; una cultura e una filosofia che si vogliono satireggiare ma, attenzione, anche rilanciare, esponendole in scena, in tempi in cui proprio la cultura e il teatro sono sacrificati da ingiustificati tagli. Trofonio viene rappresentato come una sorta di reggitore dei fili della trama, come un oscuro burattinaio che incute timore ma che, alla fine, sarà il corretto deus ex machina della situazione. Egli stesso, alla fine, si trasformerà in un elegante nobile greco e il giusto amore, per le coppie ricomposte, trionferà.
Anche questo, come le precedenti opere che abbiamo visto, è un “teatro con il dio dentro” mentre Eros, come scrive Fabrizio Basciano in un altro suggestivo testo del libro di Sala, “aleggia” quest’anno nella Valle d’Itria, grazie alla magia del Festival.


N.B.: Ringrazio l’amico Giuseppe Girimonti Greco per i suoi suggerimenti nonché per essermi stato preziosa ‘guida’ al Festival e squisito ospite nella bellissima Martina Franca.

 



1) Cfr. M. Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le «Baccanti» nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2006.

2) Cfr. Libro di Sala, Quarantaduesimo Festival della Valle d’Itria, 2016, p. 93.

3) Ibid.

4) P. L. Pizzi, Tutto nasce con la musica, in libro di sala, cit., p. 69.

5) Cfr. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, trad. it.  Einaudi, Torino, 2000, p. 118.

6) Cfr. A. Triola, Eros e Dioniso: il teatro con il dio dentro, in libro di sala, cit., p. 2.

7) L. Cosi, Grotte, garbugli e fragaglie. Magia del comico e comicità del magico secondo Paisiello, ivi, p. 10.

8) Per Plauto e la sua fortuna, soprattutto cinquecentesca, cfr. F. Bertini, Plauto e dintorni, Laterza, Roma-Bari, 1997.

9) L. Cosi, Grotte, garbugli e fragaglie, in Libro di Sala, cit., p. 17.

10) A. Antoniozzi, Siam nella terra che sguiglia scienze e filosofi, in Libro di Sala, cit., p. 28.

11) Ibid. 

 




Festival Valle D'Itria

Baccanali
di Agostino Steffani
libretto di Ortensio Mauro
edizione critica a cura di Cinthia Pinheiro Alireti
regia Cecilia Ligorio
maestro concertatore al clavicembalo e e direttore d'orchestra Antonio Greco
con Nicolò Donini (Atlante), Riccardo Angelo Strano (Bacco/Tirsi), Barbara Massaro (Driade), Vittoria Magnarello (Celia), Paola Leroci (Clori), Elena Caccamo (Aminta), Chiara Manese (Fileno), Yasushi Watanabe (Ergasto)
danzatori Joseba Yerro Izaguirre, Daisy Ransom Phillips
coreografie Daisy Ransom Phillips
e con gli allievi dell'Accademia 'Belcanto Rodolfo Celletti'
scene Alessia Colosso
costumi Manuel Pedretti
disegno luci Marco Giusti
assistente alla regia Giulia Rienzi
Martina Franca, Chiostro di San Domenico, 22 luglio 2016
in scena il 22 luglio 2016 (data unica)


Francesca da Rimini
di Saverio Mercadante
dramma per musica in due atti di Felice Romani
edizione critica a cura di Elisabetta Pasquini
regia, scene costumi Pier Luigi Pizzi
maestro concertatore e direttore d'orchestra Fabio Luisi
con Leonor Bonilla (Francesca), Aya Wakizono (Paolo), Merto Süngü (Lanciotto), Antonio Di Matteo (Guido), Larisa Martinez (Isaura), Ivan Ayon Rivas (Guelfo)
danzatori Paolo Bruno, Anita Caprara, Alessandro Colaninno, Antonella Colella, Silvia Di Pierro, Diletta Filippetto, Giovanni Fumarola, Cristian Leuci, Giovanna Pagone, Lara Angela Rocco, Raffaele Vitozzi
e con Coro della Filarmonica di Stato 'Transilvania' di Cluj-Napoca, Orchestra Internazionale d'Italia
maestro del coro Cornel Groza
assistente alla regia Marco Fragnelli
Martina Franca, Palazzo Ducale, 30 luglio 2016
in scena il 30 luglio 2016 (data unica)


La grotta di Trofonio
di Giovanni Paisiello
commedia per musica di Giuseppe Palomba
da Giovanni Battista Casti
edizione critica a cura di Luisa Cosi
regia Alfonso Antoniozzi
maestro concertatore e direttore d'orchestra Giuseppe Grazioli
con Benedetta Mazzucato (Dori), Caterina Di Tonno (Rubinetta), Matteo Mezzaro (Artemidoro), Domenico Colaianni (Don Gasperone), Angela Nisi (Eufelia), Daniela Mazzucato (Madama Bartolina), Roberto Scandiuzzi (Trofonio), Giorgio Caoduro (Don Piastrone)
e con Orchestra Internazionale d'Italia
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Camilla Piccioni
assistente alla regia Barbara Patruno
Martina Franca, Palazzo Ducale, 14 luglio 2016
in scena il 14 luglio 2016 (data unica)


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