“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 09 September 2016 00:00

Fondamenti del teatro: Strehler e l'attore

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L'attore sa che il teatro è un fatto definitivo, senza spiegazioni, né premesse né postille.

L'attore sa che il teatro si esplica, per lui, ogni sera tra un'apertura e una chiusura del sipario. L'attore sa che un'unica possibile espressione gli è consentita, attraverso la parola altrui pronunciata sul palcoscenico. Perciò l'attore non sa parlare. Nemmeno del proprio mestiere. O ne parla male.
Sono così giuste ed umane alcune frasi dell'ultimo Jouvet: "Si entra in una parte, ci si infila in una parte, si mette in azione un testo e poi ci si giustifica con delle idee, venute dopo. Ma quando si tratta di pensare, di parlare, di scrivere, l'attore è lasciato a se stesso, nel suo vuoto. La sua natura e la sua vocazione sono quelle di essere vuoto, risonante, disponibile, vacante, abitabile. L'attore si annienta, sentendosi parlare o leggendo le sue proposte. E per una curiosa ironia, quest'uomo fatto per parlare, che ha per missione il parlare, è incapace di farlo per conto suo".
Eppure nessun luogo più del teatro stimola il pensiero sul teatro. L'attore medita sempre su ciò che è teatrabile, su tutto ciò che fa parte del suo mestiere, ma senza sistema direi, come una divagazione, come un fatto personale. Un fatto di pensiero-sensazione condizionato dall'azione del teatro e che nell'azione del teatro soltanto si definisce e si chiarifica.
L'uomo di teatro non riesce − se è uomo di teatro − a sfuggire al limite concreto del suo mestiere di teatrante. Il diario umano ed estetico di un uomo di teatro è scritto con azioni teatrali, nel teatro, per il teatro, attraverso il teatro e si brucia pagina per pagina, nei limiti di una ribalta, reale o immaginaria che sia. Il resto è didascalia o tentativo di pedagogia.
La verità o la falsità di una vita di teatro, la nascita di un'estetica teatrale avviene soltanto attraverso l'operare quotidiano del teatro, attraverso l'esempio e il lavoro sul palcoscenico. Questi limiti restano immutabili, anche dove le affermazioni paiono giungere all'assoluto, o dove la teoria pare urtarsi contro la pratica quotidiana del mestiere.
Il fatto è che, nell'avventura del teatro contemporaneo, l'affanno di una lotta esplicita più che altro nel senso di far sussistere la forma drammatica − entro i limiti di una società che sempre più si allontana da essa − sembra distrarci dalla problematicità di una vera drammaturgia, talché tale drammaturgia, ricercata nella sua sostanza più concreta diventa invece mitica, astratta. E alcuni ragionamenti estetici assoluti sembrano porsi persino in contrasto con le condizioni dell'attività giornaliera dell'uomo di teatro.
All'attore il teatro si presenta in modo estremamente concreto. Si presenta semplicemente come un complesso di rapporti quotidiani e di risultati, al di fuori non esiste un'idea del teatro o non serve. "Teatro" è il risultato a posteriori, non un fatto a priori dell'incontro di elementi eterogenei in un reciproco gioco di equilibri, subordinazioni ed eccitazioni. 
È questa una definizione che appare quasi ovvia. Ma per l'attore di teatro è tutto qui. È cioè il più complesso che diviene più semplice. In questa direzione l'attore riconosce la fondamentale unità del teatro, priva di reali contrasti o di opposizioni sostanziali. Il teatro come fatto unitario, e soltanto unitario, e raggiunge una verità che molte estetiche non riescono a ritrovare. Unità e concretezza del teatro per cui l'attore sa bene che "il teatro" non esiste senza che egli reciti, senza un testo, senza un pubblico che ascolti il testo recitato.


Direi ancora di più: al di là del riconoscimento di questi elementi costitutivi, l'attore sente che il teatro è ancora da raggiungere, che, cioè, il teatro nasce non solo dalla presenza unitaria degli elementi che lo compongono, ma da un particolare atto trasfigurativo, da una specie di incandescenza che sorge ad un certo tempo.
L'attore, a questa incandescenza, dà il nome di "successo".
Non sbaglia nella sostanza, anche se equivoca sul significato di "successo".
Un teatro senza "successo", senza questa incandescenza che ha per nome "successo" è smorfia e, soprattutto, squallore.
I francesi hanno un termine teatrale assai commovente per identificare questo fenomento fondamentale: la parola "réussite". Un successo a teatro è une réussite, qualcosa che è riuscito (a divenire). Il processo del teatro è riuscito.
Quando il processo riesce, e soltanto se riesce, diviene il "teatro", cessa ogni contrapposizione tra gli elementi costitutivi (testo-spettacolo-collettività), cessa la possibilità di contrapporre su piano separato questi elementi, come troppo spesso e da troppo tempo fatalmente avviene. Cessa cioè la tipica tendenza della decadenza: quella di dividere, di specializzare, di scindere, di contrapporre, invece di ricercare la originaria unità del molteplice.
L'attore, invece, accetta questa unità del teatro e non sa giudicarla − per fortuna − su altri schemi di giudizio artistico. Non accetta la letterarizzazione del teatro, non lo accontenta la teatralizzazione del teatro, non gli basta la generica collettivizzazione del teatro. Non accetta soprattutto, quindi, la presa di possesso del teatro da parte di uno dei suoi elementi. Semmai la subisce e si subordina alle necessità del tempo in cui vive. Ma egli sente che l'equilibrio, l'armonia, la semplicità, l'accordo delle cose e degli uomini, della parola con la voce, della voce con il gesto, della parola pronunciata e dimensionata nello spazio davanti e insieme alla sua collettività sono il "teatro". E che oltre o prima di questo esistono delle possibilità di teatro, ma non il teatro.


Per l'attore leggere un testo drammatico e giudicarlo nelle sue parti è comprenderne le possibilità di essere messo in azione. L'attore − insomma − non accetta un testo come fenomeno letterario definito o lo accetta solo a condizione di poterlo realizzare drammaticamente, di riconoscergli le capacità di realizzarsi drammaticamente. Per l'uomo di teatro il testo drammatico è una larva di drammaturgia e un qualcosa di inconcluso. Egli sente che − se così non fosse − questo qualcosa sarebbe altro − poesia, racconto, romanzo − che cercherebbe il suo contatto singolarmente con il lettore nel silenzioso colloquio tra pagina e uomo che legge. L'opera di teatro invece cerca il suo contatto collettivamente in suono e movimento e durata assai ben specificata nel tempo: quello della rappresentazione.
Non prima e non dopo.
Si potrebbe dire che soltanto in un attimo si libera [così] la sostanza del teatro, quasi che tutto il resto sia un preludio a questo avvenimento tragico.
L'attore − sebbene legato alla spesso povera avventura del teatro quale le epoche glielo concedono − conosce bene questo momento, questo coinvolgersi di cose e uomini in unità. Lo considera appunto come "teatro". E sa che il testo, alla lettura, potrà solo presumerlo, indicarlo.


Il testo teatrale, per rdimensionarsi, per completarsi, corre dunque verso la sua rappresentazione. Corre cioè verso gli attori. Diviene quasi un punto di partenza. Per l'attore, il mestiere dell'attore − infatti − è un punto intermedio nell'unità del teatro, nato attraverso dialettiche interne. Il testo è un punto di partenza. Il pubblico un punto di arrivo.
Se ciò è vero, se cioè la conoscenza del testo drammatico nella sua realtà può avvenire soltanto attraverso l'attore, appare evidente la responsabilità dell'interpretazione.
Accettare l'unità del teatro porta dunque con sé alcune conseguenze di responsabilità.


[Così dunque] l'attore è il termine più chiaro, più esposto del fenomento teatrale: per una certa collettività egli diventa simbolo del teatro, lo compendia ed, in effetti, egli è veramente il fulcro di trasmissione del teatro.
(Giorgio Strehler)




Fondamenti di teatro
Giorgio Strehler
L'attore è un artista?
Milano, Ubulibri, 1974
pp. 363; pp. 157-161

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