“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 28 August 2016 00:00

Cercando teatro, scoprendo l'umano

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Il teatro è poesia che esce da un libro per farsi umana
(Federico García Lorca)

La vita è l'origine non rappresentabile della rappresentazione
(
Jacques Derrida)

Così inventammo, tentammo, esplorammo, discutemmo
(Peter Brook)

 

In un giorno di marzo del 2015 – subito dopo un esercizio di training, per un motivo che ignoro – Fortuna cerca la mano di Tonia. Le dita dell'una scivolano nel palmo della mano dell'altra. Stanno in piedi, le braccia lungo i fianchi, in linea con le altre: il gesto è naturale, avviene furtivo e dura un paio di minuti. Accanto hanno una ventina di attrici, d'avanti due registe: sono a Piazzetta Forcella, in questo luogo non teatrale in cui si comincia a pensare a uno spettacolo che è la ragione di una tre giorni di laboratorio ed è un'idea, una prospettiva, una meta per la quale non c'è ancora né tragitto né direzione. Fortuna e Tonia compiono questo gesto segreto poi rafforzandolo: le due mani si tengono, si stringono, diventano una cosa sola, prima di sciogliersi perché c'è da riprendere a lavorare.

Nel secondo atto del Bernarda Alba Adele – la più giovane tra le sorelle – dice a Martirio – la più brutta tra le sorelle – queste parole: “Non guardarmi così! Se vuoi ti do i miei occhi che sono freschi e la mia schiena perché ti spiani quella gobba che hai, ma voltati dall'altra parte quando passo io”. Martirio esce di scena, a capo chino, mentre interviene la Poncia: “È tua sorella” – dice ad Adele – “e inoltre” – aggiunge – “è quella che ti vuole più bene”. L'ombra dell'affetto resta, visibile ai piedi dell'invidia, della passione, del desiderio.
Durante la prima de La casa di Bernarda Alba avviene qualcosa di cui, probabilmente, non si accorge nessuno. Siamo nel secondo atto, è stato rubato il ritratto di Pepe il Romano, promesso sposo di Angustias, ed a farlo è stata una di “queste qua”: Maddalena, Amelia, Martirio e Adele. Le quattro sono messe in riga da Bernarda, sul lato destro del palco, e lì tenute ferme dallo sguardo della madre: simile a un plotone d'esecuzione, la donna inchioda le ribelli tenendole al muro. C'è spavento nell'aria, la tensione è alimentata dal tempo lento della scena e dal silenzio, rotto soltanto dalla Poncia, che sta grufolando nelle casse/stanze delle ragazze, simile a una scrofa che divora il suo pasto: dov'è il ritratto? Chi lo ha infilato tra le lenzuola? Adesso lo trovo. È in questo mentre che noto le mani di Martirio e di Adele che si sfiorano, come cercandosi, quasi fino ad afferrarsi. Le dita dell'una vicine al palmo della mano dell'altra.
Martirio è Tonia, Fortuna è Adele. Quel gesto compiuto in un giorno di marzo da due attrici, le sorelle del testo, i personaggi durante la messinscena.


Ho imparato che c'è una strana forma di destino che può regolare la nascita di uno spettacolo, che c'è come una trama pre-designata di piccoli segni che s'intersecano tra loro come tasselli, che si uniscono come un centimetro si aggiunge a un centimetro. Questo destino percorre strane vie servendosi dell'umano: sia esso un testo teatrale, l'improvvisazione di una coreografia, un momento di pausa, l'affetto spontaneo tra due attrici. Tutto sembra in disordine, per settimane – talora per mesi: il personaggio manca di spessore corporeo, non ha dettagli, non riesce a stabilire una relazione con il suo compagno di scena; questo momento non funziona, non sei dentro ciò che stai facendo, il terzo atto non va. Una montagna di ciarpame invisibile sembra accatastato nello spazio di prova, una quantità di materia inutile è stata accumulata nella sala: parole, improvvisazioni, letture, discussioni, confronti, sguardi e sudore, interrogativi, dubbi se ne stanno idealmente come se ne sta – in concreto – la roba vecchia da un antiquario: sembra destinata a non vivere la sera della prima ma a mostrarsi come morta, impolverata e confusa. Ma all'improvviso – o meglio: ciò che a me sembra all'improvviso ma che invece è il momento presente: giusto, unico, necessario – avviene qualcosa che dà senso a tutto il resto: come trovare il bandolo della matassa, l'inizio del filo che forma il gomitolo, la prima mollica di pane, l'indicazione che porta alla strada di casa.
Ho imparato che questa strana forma di destino è interna ed esterna e che può manifestarsi in maniera molteplice: può essere una frase del testo, un oggetto introdotto in una scena, un movimento effettuato durante un esercizio; può essere la citazione di un poeta, un ricordo lontano, la telefonata ricevuta questa mattina da tuo padre, le lacrime di allora che tornano adesso, il suono della parola “mamma”. Possono essere le dita di un'attrice che si rifugiano nel palmo della compagna.
Possono essere dei santini ecclesiastici usati come carte da gioco, un paio di scarpe diverse, una corda stretta alla vita, l'uso del dialetto natìo; può essere il rancore che sento per la mia collega di recita, questa mancanza assurda che ho della persona che amo, il dolore che provo alla spalla e che non mi fa dormire la notte. Può essere un vizio – ad esempio fumare: ecco, il personaggio fumerà. Non di rado è un limite, che si tramuta in ricchezza.
Ho imparato che questo strano destino si prende gioco di chi fa teatro. Simile alla mano invisibile che ci nasconde le chiavi di casa quando dobbiamo uscire, questo destino tormenta la pazienza e l'umore di registi ed interpreti. Cresce il nervosismo nel corso dei giorni, il procedere delle prove – per quanto sembri suggerire risultati apprezzabili – non regala mai la serenità, un tarlo continuo batte alle tempie, le mancanze svalutano ciò che hai trovato. L'insoddisfazione tiene al guinzaglio la sicurezza: concedendole un metro di libertà per poi tirarla subito al collo. Non ci siamo. Non va ancora bene. Niente è al posto giusto. Non è questa la maniera di lavorare.
Nell'anno trascorso al cospetto de La casa di Bernarda Alba di Alessandra Asuni e Marina Rippa ho visto sorrisi ed abbracci, sguardi pieni, volti emozionati, stupore, ho visto gioie che schioccano – “adesso sì!” – ed esaltazioni che arrivano a toccare il soffitto eppure – ciò che davvero conservo – è la presenza continua del rovello per cui aver cercato non basta: occorre cercare ancora, di più, andando in profondità, trovando la forza di marciare in direzione anche opposta.


Rispetto a questo cercare la data d'esordio non è che una soglia, un accidente, la scadenza che lo scorrere delle lancette impone a chi sta dentro costringendolo a uscire fuori. Se avessimo altri tre giorni; vorrei ancora una settimana; se potessimo andare in scena a settembre; mancano solo ventiquattr'ore. È soltanto un'illusione concreta e tangibile la prima dello spettacolo, alla quale noi invece diamo un’importanza assoluta: è un’apparenza stabile e mobile a un tempo, un quadro dipinto che non verrà (forse mai) dipinto del tutto.
Se soltanto capissimo questo, se soltanto – noi spettatori – comprendessimo che non siamo al cospetto di un prodotto finito – un orologio che dev’essere preciso nel suo ticchettio, un vestito cucito a misura, un piatto cotto alla giusta temperatura – saremmo forse più in grado di metterci in relazione vitale con ciò che vediamo, con quello che si presenta al nostro cospetto: noteremmo comunque certi errori, addirittura potremmo accorgerci in maniera criticamente consapevole di ciò che non va decidendo alla fine di non applaudire ma – nelle migliori come nelle peggiori serate, quelle in cui benediciamo o rimpiangiamo di non essere rimasti a casa – non dimenticheremmo che il teatro è qualcosa di umano e che è dunque inevitabilmente votato all'imperfezione.
Invece di badare alla confezione proviamo a chiederci: quanta fatica c'è dietro? Quanto impegno, quanta sofferenza, quanto studio? Quanta consapevolezza e quanto coraggio? Quanto rischio? Quanto, ciò che osservo e che ascolto, ha davvero tentato di parlarmi e quanto – invece – si è accontentato di farsi vedere?
Siamo abituati a pensare teatralmente in termini di disonestà associando questo concetto al denaro, ai decreti ministeriali, ai fondi pubblici, alle spese occorse per la produzione o al nome del regista, a quello della prima attrice, alla formazione della compagnia. Non di rado abbiamo qualche ragione: c'è più marcio negli uffici di uno Stabile che nella Danimarca di Amleto e gli amici degli amici vanno sempre meglio a un provino. Ma c'è una disonestà – lo insegna Strehler con una sua lettera – più alta e profonda, che né i critici né gli spettatori avvertono. È una disonestà di cui sa soltanto chi fa teatro, che può essere messa in pratica comunque ottenendo successo e “senza che nessuno lo sappia”. “Non dimenticare” – scrive Strehler – “che il teatro può essere fatto male senza che il pubblico se ne accorga, a prima vista”: “è una delle grandi possibilità di essere disonesti nel nostro lavoro”. Anche questo ho imparato.
Così, durante la filata che precede la prima, cerco segni di nervosismo in Alessandra Asuni: la osservo, la spio, provo a comprendere il suo stato emotivo non riuscendo a comprendere nulla. Sembra serena. “Per quanto possa essere imperfetta” – mi dice poi – “sento che questa Bernarda è quanto meno un'opera onesta: abbiamo fatto tutto il possibile, errori compresi”.


L'inizio è un laboratorio per più attrici di quanti siano i ruoli disponibili. Non c'è alcuna trama, non ci sono sequenze da svolgere, non ci sono scenografie: un rettangolo vuoto è il palcoscenico, uno spazio perciò potenzialmente aperto al nuovo. “Partiamo da noi” dicono Alessandra Asuni e Marina Rippa. Sono tre giorni di lavoro fisico, individuale e collettivo, e di improvvisazioni, individuali e collettive. “Partiamo da noi” ripetono. Bernarda Alba, le sue serve e le sue figlie, se ne stanno ai margini: come un'ombra che staziona oltre la soglia, l'eco esterno di una voce che arriva flebile nella stanza, un nome che viene nominato soltanto di rado. Eppure – partendo “da noi” – in alcune delle attrici se ne vedono segni potenziali: un atteggiamento caratterizzante (la schiena sempre curva), una condizione fisica e umorale (la fretta giovanile, messa in ogni azione), un segno distintivo (l'attitudine a non abbassare lo sguardo). Alcune sembrano già essere ciò che saranno.
Tonia è Martirio. Lo è da quando – vedendosi in uno specchio inesistente – sembra vergognarsi di sé, del suo corpo e delle parti nude che mostra. Indecisa se coprirle o scoprirle – la zip di una felpa sale e scende di continuo – finisce per nasconderle: “Dio mi ha fatto debole e brutta”, mi vengono in mente le parole del testo. Fortuna è Adele, anche se non lo sa ancora: basterebbe si guardasse quando s'imbroncia, curvando le sopracciglia, mostrando sul volto l'esistenza di una serietà o di un peso che l'aggrava nell’intimo. Ilaria – durante un'improvvisazione – si trova a stringere il bastone del comando: non lo lascerà più diventando Bernarda; Annamaria non può che essere la Poncia: con le altre alterna prossimità e distanza, rigore e complicità, è una padrona a cui manca la regalità ed è il meno nobile e più comune tra i fiori di campo che è già consapevole che l'unica possibilità di chi è nato è appassire. E Angustias, Maddalena, la serva, Prudenzia, Amelia, la nonna? Verranno. Alcune a breve, altre solo a pochi giorni dalla prima.


Tra i primi tre giorni di lavoro e i successivi passano settimane di nulla. Non mi sembrano – oggi – meno importanti di quelle trascorse in sala. Perché le lunghe pause che subisce il progetto di Femminile Plurale dicono delle condizioni in cui si trovano ad agire gran parte delle compagnie teatrali indipendenti. Dicono dell'assenza di un luogo in cui provare e di condizioni minime di dignità strutturale (la possibilità, ad esempio, di lavorare su un vero palcoscenico), dicono dell'inesistenza di ogni forma di tutela, di accompagnamento o sostegno, dato alla continuità dell'impegno, dicono di tutto quel sommerso che sono le prove – e l'attesa delle prove – che non viene conteggiato né considerato “lavoro” dalla burocrazia italiana che regola il settore e che viene trattato come inesistente anche dal teatro per il quale si è scritturati. Dicono della fragilità in aggiunta a un percorso che è già fragile di suo e che, proprio in queste lunghe pause, rischia di morire prima di cominciare a crescere.
La casa di Bernarda Alba sarebbe potuta finire dopo il laboratorio a Piazzetta Forcella, dopo le mattine e i pomeriggi passati nella Chiesa delle Scalze a Pontecorvo e – senza la residenza ottenuta nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia – sarebbe potuta finire dopo aver passato giorni e giorni in una scuola in disuso: tra pareti scrostate, fili pendenti, balconi di vecchio legname, vetri macchiati, una rete che raccoglie i calcinacci in caduta dal soffitto. Durante queste pause da un lato le promesse dell'amministrazione locale accompagnate da smorfie d'attenzione, parole d'incoraggiamento, i vedremo, faremo, ci sentiamo domani di un assessore, di un sindaco, di un dirigente di chissà quale ufficio; dall'altro l'impegno delle registe per non veder sfibrati i legami instaurati, perso il tempo impiegato, svanita l'energia già impegnata e – contemporanea, parallela – la paura delle attrici che sono costrette ad attendere un cenno che tarda a venire. Ci rivedremo e lavoreremo ancora? Bernarda la faremo davvero? Che prospettive ci sono? Cosa hanno detto? Tu sai qualcosa?
C'è un cumulo di tensione non calcolabile in gran parte degli spettacoli teatrali che vediamo, c'è un dietro che comporta di solito anche umiliazioni, sofferenze, mediazioni con la propria dignità, approssimazione, adattamento fisico e morale e che – ancora prima che in relazione con la gratuità della prestazione – riguarda la scarsa considerazione che, sul piano personale, sociale e politico, riceve il lavoro teatrale nella sua pratica quotidiana e concreta, materiale e immediata. Viene lo sconforto ad osservare la sproporzione tra la bellezza che il teatro come arte, lavoro ed impegno può produrre e le condizioni di miseria nelle quali si agita ogni giorno. L'umidità, la polvere, un bagno rotto, l'assenza di elettricità, i pochi spiccioli per un caffè, la noncuranza altrui, un pavimento di cemento o mattonelle come palco, l'entra ed esci di estranei e curiosi, il fastidio del vocio esterno o le prove col sole a picco sulla testa mi dicono che l'assenza di politiche culturali da parte di un'amministrazione – o la vocazione elitaria al sostegno pubblico dei progetti – non è teoria che rimane teoria o argomento buono per una polemica spicciola, una discussione da spritz, un articolo per il web ma è una scelta e una responsabilità di cui pagano le conseguenze gli artisti di una città o di una regione; che hanno sentito sulla pelle e nell'umore anche queste undici donne che ho osservato per un anno.


Non pensate troppo, fate. Non lavorate sui segni esteriori. Dimenticate ciò che deve accadere. Reagisci alla sua azione. Lo hai visto il suo sguardo? Il testo ora non ci interessa, state invece nella situazione. Quello che capita adesso, tra di voi, è più importante della drammaturgia. Tenete presente ciò che vi succede attorno. Diamine, vedi cosa è appena successo? Non eliminate ciò che avete già trovato. Voi non conoscete le battute prima che siano dette. Se vi sentite perse guardatevi intorno. Devi capire perché entri nella stanza. Per quale ragione stai dicendo questa frase? Da dove vieni? Così non vi credo. Quello che fai devi rappresentarlo. Ripeti e approfondisci. Non c'è una necessità nel gesto che stai compiendo. Non cercare appoggi esterni. Non guardare fuori. Non spiegare, agisci. Senti lo spazio. Non fate piccole cose adesso, fate grandi cose: siate vistose, portate tutto all'estremo. Esagerate. Giocate. Create.
La scrittura dello spettacolo è un atto partecipato, collettivo, di gruppo. “Siete attrici-autrici” ripetono spesso Marina Rippa e Alessandra Asuni, “avete la possibilità di comporre e determinare la vostra stessa presenza in scena”. Training, improvvisazioni, letture del testo e prove di una scena servono, prima che a montare progressivamente la visione, a cercare le ragioni profonde di un movimento, il valore di un gesto, il senso ulteriore di una frase.
La Maddalena di questa Bernarda Alba è maschile nel portamento, indossa scarponi, fuma, sa fare ogni nodo con la corda, è l'unica in grado di usare il fucile poiché è andata a caccia, non la spaventa la vista del sangue e quando s'addormenta inizia subito a russare. Portatrice d’informazioni casalinghe (“come, non lo sapete?) Maddalena è consapevole che il passato è passato e che il futuro non prevede cambiamenti e perciò s’adatta al presente: cinica, ironica, oramai disillusa.
Angustias appartiene “a un'altra figliata” (divergono i tratti somatici, la capigliatura è più riccia, la pelle più chiara) ed è quindi una diversa e un'esclusa e reagisce in termini di sfida al suo isolamento, specchiandosi e incipriandosi il volto. Quasi danza, mostrando alle altre i suoi averi, mentre trema, impallidisce, abbassa il capo, subisce l'onta restando in bilico tra pianto e dolore quando Bernarda – punendola – le tira i capelli. Amelia, giovane bizzoca, ama cantare e agita i santini come fossero dei burattini parlanti, a cui dà di volta in volta la voce e – quando le si racconta una storia – non la comprende: occorre dunque ripetergliela. Apparentemente allegra, è svagata, talora assente: impaurita dal silenzio, lo colma di chiacchiere e, desiderosa di non sapere cosa accade davvero, fugge la realtà inventandosi motivi per distrarsi e sorridere.
Martirio ricama, arricciando il naso sotto gli occhiali; fa collezione di rosari, che toglie e mette facendosi il segno della croce e quando urla – ad esempio per chiamare la nonna – la sua voce si fa stridula. Sbuffa, sovente, ed è solita origliare i discorsi e spiare i segreti.  Nel petto, poi, ha conficcata una voglia di corpo maschile che non le passa e che la rende cattiva, sofferente, a tratti spietata e maligna.
Adele ha tra le mani il vestito verde con cui morirà, nella cassa tiene in segreto una conchiglia, talvolta corre traversando lo spazio, talaltra cammina scalza – per non farsi sentire – appoggiando al pavimento solo la punta dei piedi; quando s'infuria – “Non è stato uno scherzo!” – Adele stringe i pugni mentre quando sorride, maliziosa, è perché si sta vendicando delle sorelle, di cui soffre sguardo, fiato, attenzione, vicinanza. Le sue gambe sono bianche e lisce, i suoi seni sono turgidi, la sua schiena fatica a stare ferma la notte.
La serva passa sul fondo portando ceste e pile d'indumenti o lenzuola, le si nota qualche ciuffo fuggito – durante il lavoro – alla stretta di un elastico. Ha le mani arrossate dall'acqua e sapone, mangia pane e salsiccia, addenta voracemente una mela e – quando tutte dormono – s'incontra con la Poncia per farsi un sorso di vino: tenendo il bicchiere in una mano, mantenuto tra pollice e mignolo. Come ogni povero, la serva scaccia e detesta chi è più povero di lei.
La Poncia ha i capelli corti, quando dice del prete emette ululati, s'agita la veste se riporta fatti scabrosi ed alterna il passo militare al ruolo di giullare servente o di “seconda mamma” della casa. Chiama a sé le ragazze, per dire della sua prima volta all'inferriata con un uomo, e passa in rassegna le casse quando si tratta di fare ragionamento sul dare e l'avere, calcolando eredità e patrimonio, sottolineando avanzi e differenze. E Bernarda? Ha un dolore alla spalla destra, su cui porta spesso la mano sinistra cercando sollievo; brevi conati e qualche colpo di tosse dicono della stanchezza che nasconde e infatti – quand'è sola, quando le figlie non possono vederla – cede, sedendosi o stando distesa. “Tira” dice alla Poncia, “tira” ripete a se stessa – imponendosi un'autopunizione attraverso i capelli: lacrime le scendono sulle guance, la fronte s'arrossa, i denti stringono come in un morso. Bernarda impone il nero, l'uso dei ventagli scuri, l'assenza di trucco, la pettinatura rigida con la fila centrale e, quando ha da punire, tira i capelli – colpisce con lo stesso gesto con cui si flagella – fino a piegare una propria figlia per terra. Preghiere, una cantilena ecclesiastica poi il silenzio. Di sera un pezzo di pane, bagnato in tre dita di vino. Abbiamo cenato, potete andare a dormire.
Infine la nonna. Probabilmente ha dipinto con la fantasia le pareti della camera nella quale è stata rinchiusa, conosce a memoria canti e poesie, ricorda come si fa l'amore e lo desidera ancora. La nonna ha un animo da artista, indossa un vestito bianco sulla cui gonna sono disegnati i pesci del mare, alle dita porta anelli, ha una collana di perle e orecchini di ametista e dai polsi le pendono sacchetti contenenti conchiglie. La nonna, quando balla, impone alle nipoti un brivido che sembra una danza. La nonna dice il vero, tendendo in avanti la mano, lo sguardo perso forse nel vuoto, forse all'orizzonte della sua immaginazione, e sorride prima di tornare nella sua stanza/galera. Di notte cammina per la casa deserta, trascinando una pecora di stoffa: l'allatta scoprendosi il seno, la coccola poggiandola sull’avambraccio, qualche volta la frusta, così riservando alla finta bestiola lo stesso trattamento che subisce ogni giorno. Infila la testa nel pozzo, una sera, come per cercare una via di fuga, facendola coincidere con la voglia di caderci dentro e sparire.


Nessuna delle caratteristiche che ho appena elencato sono espressamente indicate da García Lorca nel testo. Alcune dal testo sono suggerite, altre lo trasfigurano, lo coniugano in maniera sorprendente, in certi passaggi lo umanizzano perché sia scrittura che vive. La debolezza di Bernarda, ad esempio, non è che una suggestione appena avvertibile nell’opera mentre Ilaria – che la interpreta – Alessandra e Marina – che firmano la regia – scovano e approfondiscono questo bisogno di cedere, di sbottonarsi la veste che stringe al petto e sul collo, di slacciarsi le scarpe ed abbattersi, respirando più libera. Questa debolezza è stata trovata durante un'improvvisazione mentre è durante una pausa che Alessandra Asuni e Marina Rippa notano Annamaria (Poncia) che sistema i capelli ad Ilaria tirandoglieli. Un gesto comune che, introdotto nel perimetro del palco, diventa più intenso, si fa concentrato di passioni e pensieri, funziona come metafora, segno, comunicazione destinata agli spettatori. E il pane bagnato nel vino? Un atto istintivo, compiuto durante una prova, all'improvviso. Non si tratta d'invenzioni aggiunte procedendo per tentativi ma di conseguenze esterne di percorsi interni: un particolare che riemerge dal passato, un atteggiamento personale, la reazione alla scena teatrale che sta avvenendo. Per quanto il testo sia stato setacciato a tavolino – per quanto sia stata interrogata ogni sua pagina – lo spettacolo nasce nel perimetro in cui si agisce, quasi che il corpo dell'attore, sollecitato da stimoli continui e differenti, si ribelli producendo, facendo, creando. Amelia è stata un mistero per Marilìa fino a che quest'ultima non ne ha scoperto la passione per il canto; Adele piega il vestito verde nella cassa perché un giorno Fortuna è entrata in scena portando – piegata sulle mani – una stoffa rossa; Maria Grazia emette le giaculatorie funebri inginocchiandosi da quando si è rimessa in contatto con la sua Calabria attraverso il canto Tata ca moru. Brandelli vengono così strappati all'oblio e tirati perché siano mostrati all'impianto luci dello spettacolo, vestendo il personaggio, rendendolo vitale.
Si tratta di un continuo logorio effettuato su se stesse, di uno scavo che sembra avvenire tra le tempie e nel centro della cassa toracica e che turba tanto le viscere quanto la memoria (corporea) di sé: come si affondasse la mano nella propria stessa carne. Non è indolore. Provoca turbamento. Determina fastidi e alimenta cattiveria spicciola. Acuisce la propensione al conflitto. Crea fratture che possono far crollare internamente il progetto. Genera dubbi e spossatezza, voglia anche di mollare. Può derivarne un rifiuto silente per cui l'attrice finge di cercare accontentandosi invece di far passare un'altra giornata, felice – alla sera – che la fine di questo strazio sia più vicina. Scontri possono nascerne tra attrice ed attrice – il lavoro superficiale d'una rovina le ore di lavoro approfondito delle altre – o tra le attrici e le registe: non abbiamo ancora montato nulla; io non ho mai usato questo metodo; tu mi hai detto di fare così ed ora non ti va bene; non voglio neanche starti a sentire; sono stanca, siamo stanche, vogliamo andare a casa. Maria Grazia: “Ho la sensazione che dalle improvvisazioni che sto facendo non nasca niente”. Consiglia: “Sento di ripetere in maniera automatica”. Mafalda: “Non riesco a capire cosa vuoi”. Annamaria: “Non ce la faccio”. Mi dice un giorno Tonia, durante una pausa: “Adesso è davvero faticoso, non solo per me: per tutte. Perché? Perché ora stiamo davvero ricercando: scavi e quando trovi qualcosa che davvero ti riguarda allora puoi farti male. Cose che non ricordavi o che non vorresti ricordare, cose che hai fatto di tutto per rimuovere, cose con cui hai cercato di non confrontarti”. Mi guarda, beve un sorso d’acqua, poi aggiunge: “Credimi, è davvero doloroso”.


Scrivendo in passato del teatro di Alessandra Asuni i riferimenti sono stati Richard Schechner e Victor Turner, gli scritti sull’antropologia teatrale di Barba, De Marinis e Tessari, gli studi sul teatro sardo e meridionale di Mario Atzori, Leonardo Sole, Maria Margherita Satta. Performance e ritualità, simbologia e drammatizzazione di una condizione sociale, isolitudine geografica, etnografia familiare e comunitaria, l’intenso legame con la propria terra d’origine e con le sue consuetudini, i suoi odori, certi suoi ritmi atavici o stagionali. Anche quando si è trattato di approfondire singoli spettacoli (l’interessante Mamma compie 70 anni, che già portava a Lorca, o il non riuscito Il salto, che fu esperienza da accantonare presto ma che già conteneva in segreto Bernarda e le figlie) l’analisi ha portato a radici talmente profonde che, pur oggi impiantate a Napoli, arrivano fino a Cagliari. Attraversando il mare.
Il dato folklorico e l’organizzazione dello spazio come antro e come limite, l’uso del mito e i dettagli da sacra rappresentazione popolare, la settimana santa, il legame tra biologia corporea e processo collettivo, il rapporto tra esistenza e non esistenza e il formulario evocativo del teatro, la cerimonialità come trama, la compresenza di sacralità e dramma, l'esigenza di atti eseguiti secondo norme stabilite, l'induzione a una partecipazione emotiva profonda sono aspetti che si sono intrecciati al modo nel quale il quotidiano viene recitato diventando rituale estetico, forma codificata ad hoc. Ebbene: il testo – nelle messinscene già dette come nel percorso svolto con le donne di Forcella o quando l’Asuni ha teatralizzato se stessa (Accabbai, Matrici) – non era che una conseguenza, acqua che sgorga da una fonte primaria, parola che segue la suggestione, una prima immagine che viene da un tema talmente grande – la nascita, la morte, la solitudine, la prigionia, la dignità datami dal fatto di esistere – che era impossibile avvertirne i confini.
In questo caso – per la prima volta – Alessandra Asuni si trova al cospetto di ciò che è già scritto e che nel suo scritto ha già tutto: dimensione ideologica e storicità specifica, valenza documentaria, bellezza poetica, complessità drammaturgica, particolarità strutturale e metafore verbali, data ed ambiente, un paese d’origine e quattro pareti che incastrano troppi corpi di donna. Il lavoro che le spetta – qui più che altrove, adesso più di quanto abbia fatto in precedenza – è leggere/vedere, scegliere/sottrarre, evidenziare il rimasto e dargli carattere, tradendo e quindi traducendo il dettato in azione, rapporti, momenti in sequenza, una nuova vita.
Pensando – ora – al suo modo di affrontare questa situazione mi viene da scrivere che prima che al palco, agli arredi, alle luci e alle musiche, prima che ai costumi e alla costituzione della parete di fondo o alla data d’esordio Alessandra Asuni ha badato all’elemento umano e che questa locuzione – elemento umano – va intesa tanto pensando all’opera quanto a chi l’ha interpretata: da un lato de La casa di Bernarda Alba coglie soprattutto la fitta trama di rapporti tra madre e figlie, sorella e sorella, padrona e serve, ospiti e ospitati, vecchie e giovani, ricche e povere, uomini e bestie, cogliendo anche la coesistenza che Lorca impone tra i defunti, che restano come nomi e pensieri spettrali, e chi sopravvive respirando come dall’interno di una bara; tra i maschi (esterno) – che fanno sentire il calore dei pantaloni, l’odore dolce del sesso – e le ragazze (interno), che fremono come freme una mula in calore costretta in un recinto. Dall’altro l’elemento umano è nel tentativo di mantenere compatto un gruppo di individualità mettendole in costante relazione scenica perché ad un’azione corrisponda una reazione, a uno stato d’animo una conseguenza emotiva, ad un gesto un contro-gesto, al senso di una battuta il senso della battuta che segue. Prima che personaggi sono attrici e nell’essere attrici Annamaria, Tonia, Consiglia, Ilaria, Marilìa, Maria Grazia, Fortuna, Mafalda e Valentina devono rifarsi all’essere a loro volta donne e madri, figlie, sorelle, serve e padrone, vecchie e giovani, ad essere ricche e povere, trattate come bestie o come dignitosi esseri umani: coi propri morti che restano, con le proprie aspirazioni soddisfatte o insoddisfatte, con i propri umori giornalieri.
Compito registico dell’Asuni è stringerle tra le tre pareti dello spazio teatrale perché – questo spazio, nel quale tutte le energie devono convergere – diventi per loro l’unico posto possibile, il solo nel quale valga la pena tentare, per due sere e in un altro modo, di esistere.
E la concezione etno-antropologica della sua teatralità? L’Asuni la preserva concentrandola in alcune scene dello spettacolo, che sorgono perché alla base hanno una ritualità collettiva, cioè partecipata dall’intera compagnia, e che prevedono come fondamento gli elementi-base della natura (l’aria, la terra, l’acqua ed il fuoco), la parola “mamma”, un pezzo di pane, il canto, il respiro, la formula o la preghiera. 


“Non si è delimitati” – scrive Peter Brook – “da un’unità di luogo o di tempo quando l’accento è sui rapporti umani. Quello che trattiene la nostra attenzione è l’interazione tra una persona e un’altra; il contesto sociale, sempre presente nella vita, non viene mostrato ma è determinato dagli altri personaggi”. “Se il soggetto in questione è il rapporto tra una donna ricca ed un ladro” – continua – “a crearlo non sono né l’ambientazione né gli arredi ma la storia, l’azione in sé. Lui è il ladro, lei è ricca, ecco che viene un giudice: il rapporto umano tra la donna, il ladro e il giudice crea il contesto”. “L’ambientazione, nel senso vivo della parola” – ricorda Brook – “viene a crearsi in modo dinamico e totalmente libero attraverso l’interazione dei personaggi. L’intera commedia, incluso il testo e le sue inclinazioni politiche o sociali, sarà l’espressione diretta delle tensioni sotterranee”.
Fortuna, perché non riesci ad abbracciare Tonia? Marilìa, con cosa giocavi da piccola? Qual è la tua preoccupazione, Consiglia? Cosa stavi facendo prima di entrare in scena, Valentina? Maria Grazia, cosa significa per te essere povera? E avere fame? Ilaria e Annamaria, quanta confidenza c’è tra di voi? A cosa stai pensando Mafalda? Tonia, cos’hai oggi? Cosa non va? Perché sei triste, abbassi lo sguardo e te ne stai muta? Sorge una parete di fondo composta da camicie da notte cucite tra loro; vengono trascinate cinque casse che sono – ad un tempo – stanza, cassetto dei segreti, simbolo di morte e segno del destino che attende; i fari alternano il celeste della sera, il giallo del giorno, l’arancione del tramonto; un vassoio di metallo con sopra due bicchieri di vetro e una vecchia bottiglia di liquore (venuta da chissà quale dispensa) fa la sua comparsa; il braciere diventa un centrotavola, passa di mano in mano un ritratto in cui non c’è nessun volto, aghi tra le dita ricamano lenzuola, tovaglie e merletti: abbaia il cane alla luna; cantano gli uomini, andando o tornando dai campi; suonano le campane; le stelle – questa sera – fanno da tetto alla prima de La casa di Bernarda Alba.
Prende forma ciò che giace nelle parole del testo, una casa s’innalza mostrando la sua fattura teatrale, oggetti da antico realismo arredano lo spazio assumendo funzione metaforica e lentamente cinque figlie, una madre, una nonna, due serve, una mendicante, un’amica di famiglia appaiono e non sembrano meno vere dell’articolo di giornale letto questa mattina, della poltrona su cui poggio la schiena, delle lancette che girano nel quadrante del mio orologio.


L’inizio delle prove è solitamente un risveglio teatrale o meglio: è una ripresa di contatto con le proprie capacità muscolari, con la propria potenzialità attoriale. Un percorso di esercizi porta dall’individuale al collettivo: concentrazione mentale, presa di coscienza del corpo attraverso il suo utilizzo progressivo, relazione con lo spazio; primo rapporto instaurato con una compagna di lavoro, successivo rapporto con tutte le altre, così entrando nel e facendo parte del gruppo.
Rendersi fisicamente sensibili, abbandonarsi a se stesse e alle altre, guardare e lasciarsi guardare, trovare la libertà del movimento, giocare in maniera infantile, rinunciare ai movimenti più comodi e alle posizioni più consuete, prendersi il rischio del ridicolo dimenticando la categoria del “ridicolo”, superare il proprio limite, conoscere lo sforzo, eliminare il concetto di sbaglio e il sentimento della vergogna, trovare (talvolta) ciò che servirà e che si presenta ancora spurio e grezzo, ancora sporco.
“Il mio è un lavoro dietro le quinte, che meno si vede e meglio è” – scrive Marina Rippa ne Il gesto cavo ma io non sono d’accordo con la frase appena citata: se Tonia e Fortuna riescono a guardarsi come si guardano nel corso del terzo atto è perché sono state unite tra loro da un bastone o da una corda; se Mafalda o Consiglia sanno in che modo e secondo quale traiettoria rientrare in scena è perché hanno imparato a bilanciare intensità dell’azione e ampiezza del movimento tenendo in equilibrio una bacchetta mentre se Ilaria crolla, piegando le ginocchia, inclinando la schiena, distendendo i tratti del volto, è perché ha conosciuto il senso di sollievo che dà la fine della pressione, della compresenza e della fatica. “Trovo raggiunto il mio obiettivo” – scrive ancora la Rippa – “quando nello spettacolo l’agire degli attori risulta organico”, quando la durata, il suono, la prossemica di un gesto o di un respiro diventano “un atto naturale dell’attrice” formando così “un’espressione unica, irripetibile, che sia solo sua”: destinata, domani, a caratterizzare il personaggio.
Alla base l’osservazione del linguaggio del corpo (il modo di disporsi nello spazio, le espressioni e le posture) e l’accompagnamento del non-verbale a sostegno del verbale: mai infatti – durante la preparazione de La casa di Bernarda Alba – la lettura del testo non è stata associata anche all’impegno fisico, mai c’è stato giorno in cui una battuta non sia stata vissuta – in forma anche implicita o indiretta – attraverso quest’allenamento personale e collettivo. Sono qui, faccio questo, devo parlare a, mi sposto da, mi muovo verso, incontro chi, sono attenta, mi accorgo di, ho notato che, sto con, sono costretta a: una vera e propria ricognizione conoscitiva d’ogni comportamento motorio potenziale (dall’intenzione all’esecuzione) è dunque il training, perché l’interprete sia uno strumento consapevole, funzionale e naturale.
Anche in questo lavoro è l’umano che prende forma, pur nell’assenza di forma che ha ogni training: perché ogni atto che viene compiuto è intimamente giustificato; perché nelle quattro posizioni-base che assume il corpo durante gli esercizi c’è l’intero corso di una vita: in avanti, con la schiena inarcata e la testa quasi al petto è l’infanzia; la verticalità (o lo zenit) racconta la crescita, l’equilibrio e dunque la maturità; l’autunno, periodo digressivo della stagione, è nell’asse portato all’indietro mentre la vecchiaia atrofizza i muscoli rannicchiandoli, fa piegare di nuovo le spalle ed inclinare la testa: diventando anziani si torna bambini, la morte sfiora la nascita, al buio si torna come dal buio si è venuti.
Ma c’è di più, ad osservare bene il training: c’è la quota di stranezza che giace nascosta in ogni creazione artistica, c’è il nucleo ludico e gioioso che sta nel to play di chi fa teatro, c’è la metafora a monte (la vita tradotta in esercizio, in vista della scena) della metafora a valle che è lo spettacolo (l’esercizio che traduce la vita in scena); c’è una concezione solida del palcoscenico per cui ogni cosa che vi accade influisce fisicamente su chi lo abita; c’è il rifiuto della vuotezza meccanica del gesto, che invece dev’essere pieno d’intenzione e di necessità (che sia propria, indotta dal regista o dovuta al testo); c’è il concetto di movimento inteso non come uno spostamento ma come una dinamica per cui non importa il fatto che l’attrice si muova dal punto A al punto B ma interessa come compie questo percorso, perché si mette in viaggio, cosa condivide e mostra durante il tragitto. Bernarda che spezza il pane, Maddalena che batte il sigaro su una scatola di metallo, Martirio che agita il ventaglio o tira fuori il cuscino dalla cassa; la serva che si asciuga le mani sulla veste, Amelia quando srotola i merletti, la nonna che mette i piedi a bagno nel pozzo, Angustias che canta una canzone già cantata, la Poncia quando osserva senza fiatare, quando si volta per non guardare, quando attende prima di parlare. Adele, che giace a occhi chiusi, col vestito verde addosso, senza respirare più.


Sappiamo che il teatro impone una compressione del tempo, perché ciò che vi accada risulti intensificato. Così un anno diventa un’ora e un’ora si riduce in cinque minuti, nei quali ogni parola, ogni azione ed ogni evento assumono un’importanza capitale, decisiva, inevitabile. È questa la cronologia che regola lo spettacolo, dalla tragedia greca al giovane drammaturgo che adesso sta terminando la sua ultima creazione. Quello che non sappiamo – o che dimentichiamo nel momento in cui ci abbandoniamo alla visione – è che c’è un altro tempo preesistente, diacronico ed accumulato: è quello delle prove, della ripetizione, dei tentativi, della ricerca; è il tempo che ha in sé l’invenzione e la preparazione di ogni parola, d’ogni azione e d’ogni evento cui assistiamo. Così gli stessi cinque minuti dello spettacolo contengono decine di ore ed un’ora di messinscena può nascondere un anno intero di lavoro.
Questa duplice cronometria – per cui un minuto di recita rappresenta una settimana di vita e una settimana di prove ha come risultato meno di un minuto di recita – dà valore duplice anche agli accadimenti che formano l’andamento della visione perché se è vero che in un colpo di spada si concentra la storia, la presenza e la potenza di un intero esercito è altrettanto vero che – per questo colpo di spada che va a segno sul palco – ce ne sono almeno un migliaio che sono andati a vuoto prima che si aprisse il sipario.
Questo per dire che non c’è processo creativo che non preveda lo spreco e che avviene molto più teatro di quanto noi spettatori possiamo immaginare. Dinamiche iniziano per non finire, battute vengono dette e interrotte, oggetti sono usati e scartati; intere scene sorgono e sembrano offrire una soluzione al dilemma salvo sparire a distanza di mezz’ora, non tornando mai più. Così nessuno vedrà mai – ne La casa di Bernarda Alba di Alessandra Asuni e Marina Rippa – la Poncia sporcarsi con lo zucchero a velo dei cornetti alla crema; nessuno vedrà mai Amelia alzare per dispetto la sottoveste ad Angustias, Adele ascoltare il mare da una conchiglia, la nonna ballare con le nipoti e le nipoti tuffarsi dalle casse come da un trampolino; nessuno vedrà mai ciò che ho veduto io a giugno, quando fuori era mezzogiorno mentre dentro scoccavano le tre di notte: due materassi distesi per terra, in proscenio un velatino offusca ciò che succede. Bernarda è seduta di lato – ovvero fingiamo che sia nella sua stanza – mentre le figlie giacciono assieme, rannicchiate l’una all’altra come i cuccioli di una gatta si accalcano alle mammelle della madre. Fa caldo, c’è silenzio, forse abbaia un cane ma non lo sentiamo; d’intorno s’aggira Pepe il Romano. Queste cinque ragazze hanno dismesso l’abito nero e indossano camicie da notte bianchissime. Nude le gambe, le braccia, la parte superiore del petto, qualcuna ha nuda la schiena. Angustias ha gli occhi chiusi e dorme placida, pacificata e inconsapevole; Maddalena guarda il soffitto, cercandovi il disegno dei propri pensieri; dorme anche Amelia, col sorriso accennato sul volto; Adele invece s’agita, cambia posizione, mostra insofferenza: si sveglia, alza il busto, si guarda intorno, si morde per un attimo le labbra poi scatta in piedi ed attende: si assicura della placidità generale poi smuove i capelli, abbassa la spallina destra, compie un passo, poi un altro e corre verso la finestra. Martirio, dal basso, la spia – attende trenta secondi – poi la segue. Intanto la nonna, sulla destra, si aggira infiltrandosi tra un muro in cemento e una parete fatta di lenzuola. Seguita dalla serva e dalla Poncia.
È questa la notte che separa il primo dal secondo giorno de La casa di Bernarda Alba: assente dal testo di Lorca – che si limita a farcene intuire lo svolgimento presentandone le conseguenze –, sarà mutata e ridotta in un’immagine-chiave dello spettacolo (il prologo al secondo atto) che avrà la durata di due o tre minuti. Ma – in quei due o tre minuti – c’è questa notte apparsa a mezzogiorno, durata oltre un’ora ed evaporata per sempre.


Osservare con continuità la nascita di uno spettacolo significa avvertire nel frattempo il dilatarsi del concetto di teatro fino a comprendere in sé anche la vita. Perché in un anno nasce un figlio o una figlia cresce, perché in un anno un padre si ammala, inizia e termina un amore, cambi casa e cambi tu. In un anno il tuo corpo si trasforma, cominci l’Accademia, muti più volte il lavoro con il quale sostieni il tuo desiderio d’essere un’attrice, maturi esperienze che influiscono sulla tua percezione del mondo o dell’arte, partecipi a spettacoli di cui non t’importa niente, osservi spettacoli degli altri che ti stupiscono o che non ti lasciano nulla. Durante quest’anno ho imparato che il teatro è un’arte porosa, che assorbe l’esistenza filtrandola restituendo a sua volta un’esistenza filtrata. Madri, padri, fidanzati e mariti, figli e figlie, gli amici e le amiche – presenti o passati – entrano nel processo, influenzano la presenza quotidiana, possono far parte del modo in cui viene recitata una scena. Di contro il teatro – questo testo, questo personaggio, questa frase – possono aiutarmi a capire il mio rapporto con l’esterno, la paura che provo e che non ho mai saputo spiegarmi, quest’affetto che sento ma che non riesco ad esprimere.
Ecco dunque l’intreccio, fattosi progressivamente indistricabile, per cui il dolore di un personaggio si nutre dello strazio di una donna che di mestiere fa l'attrice o nel sorriso di un’attrice si trovano le battute del personaggio che interpreta. Maria Grazia che lucida il vassoio, durante una pausa: neanche fosse davvero la serva di casa; Fortuna che raccoglie dei fiori, uscendo dalla sala così come Adele esce dalla casa facendosi pizzicare dalle galline; Mafalda che fuma in solitudine, quasi perpetuando la diversità della sua Maddalena. Le sorelle della trama che ridono complici pur essendo adesso una parte delle attrici durante la pausa per il pranzo; Annamaria e Ilaria che se ne stanno vicine, senza parlarsi: in questo identiche a Bernarda e la Poncia durante alcuni momenti dello spettacolo; Consiglia, Tonia, Marilìa, Mafalda e Fortuna che scappano e danzano sotto la pioggia, manifestando un bisogno di allegria e di libertà che Angustias, Martirio, Amelia, Maddalena e Adele sentono senza saperlo dire.
Così della messinscena, nascoste in non so che modo, fa parte questo paese (Sant'Angelo dei Lombardi) di anime franate nell'Ottanta e ne fanno parte le telefonate notturne ai genitori, ai fidanzati o ai mariti, il silenzio e la calma che ne segue o il dispiacere che viene per un figlio che non vuole parlare “finché non torna la mamma”; ne fanno parte il desiderio della propria casa e del proprio letto; il cane, randagio del posto che, in cerca di fresco, invade le prove; ne fanno parte i momenti in cui si condivide una fetta di zenzero o un barattolo di Nutella e la volta in cui ti addormenti per la stanchezza, mentre stai conversando su Skype con la persona che adori; ne fanno parte questa pila di libri che hai sul comodino, le note scritte ai margini del copione e il diario su cui segni ogni cosa; ne fanno parte lo sguardo attento delle bambine e il sorriso svagato dei migranti che hanno assistito a una prova; ne fanno parte la febbre alta, il bruciore agli occhi, il graffio che un chiodo della scenografia ti lascia sul braccio, la schiena che ti fa male dalla mattina alla sera; ne fanno parte la nostalgia improvvisa di Napoli, il bisogno di startene appartata per un po’, le sere in cui non c'è distrazione che tenga e questa solitudine che ti prende quando le prove finiscono e che senti nonostante ti trovi a convivere con dieci persone.


Come può finire l'articolo? E come termina quest'esperienza durata – tra pause e riprese – più di un anno? Qual è l’ultimo lascito da mettere in calce?
Scrive Eugenio Barba che pur “con tutti gli equivoci che comporta, vale la pena di tentare di tentare di parlare del modo in cui cresce, prende forma e si trasforma uno spettacolo” poiché “significa interrogarsi su qualcosa che ha a che fare con la vita”. “Si ha la sensazione” infatti “che siano domande analoghe a quelle che si pongono coloro che indagano la segreta complessità dell’esistenza”. “In fondo” – afferma Barba – “è questo che giustifica l’interesse e la curiosità per ciò che accade nel processo artistico, per i suoi paradossi e i suoi blocchi. E spiega l’accanimento di alcuni a parlarne, pur sapendo che le parole saranno opache e le domande resteranno quasi sempre senza risposte”.
Ecco: cervavo il teatro, prima che si tramuti in uno spettacolo, ne ho trovato il suo fondamento umano. Ed è questo che ho tentato di condividere con voi.

 

 
Leggi anche:

Alessandro Toppi Matrici, un rito. Prime riflessioni (Il Pickwick, 1 novembre 2014) 

 


La casa di Bernarda Alba

da La casa di Bernarda Alba
di Federico García Lorca
messinscena a cura di Alessandra Asuni, Marina Rippa
con Consiglia Aprovidolo, Maria Grazia Bisurgi, Valentina Carbonara, Mafalda De Risi, Fortuna Liguori, Annamaria Palomba, Tonia Persico, Ilaria Scarano, Marilia Testa
luci Marcello Falco
scene Marco Di Napoli
costumi Cinzia Virguti
produzione Femminile Plurale
lingua italiano, spagnolo, dialetto calabrese
durata 1h 50'

N.B. Le immagini a corredo dell'articolo sono fotografie fatte dalle appartenenti alla compagnia; gli scatti della fotografa Daniela Capalbo fanno riperimento alla prova generale e sono coperti da copyright.

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