“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 20 July 2016 00:00

Quello che non è

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Alcune case non hanno nulla di rassicurante. Vi sono focolari domestici che non promettono protezione e riposo dopo lunghe giornate nel mondo. In alcune case nemmeno si può entrare o uscire, soltanto ci si aggira. Sempre si è dentro e fuori di casa, con un’inquietudine stanca ma allarmata.

Nella scena che Milena Costanzo costruisce per la famiglia di Emily Dickinson, si è sempre dentro e fuori di casa, dentro e fuori di testa. Si intrecciano psicosi e nevrosi nei tre personaggi che aprono la scena, i quali si costruiscono sotto il segno dell’intensità più che della verosimiglianza. Gli attori hanno sembianze paradossali che non si sforzano di essere reali. Essi non hanno bisogno di convincerci, poiché sono subito veri, con una presenza attraente, invadente, irresistibile. La madre di Emily vive in un ricordo bloccato, mangia zucchero a palettate e ogni tanto dice la verità. Il fratello avvocato è all’apparenza un uomo brillante, ha una moglie ed un figlio che sono la luce dei suoi occhi, ma nasconde una sessualità morbosa e si rivela incapace della minima empatia di fronte al dolore altrui. La sorella di Emily, di “buonasera” in “buonasera”, è il punto in cui la vita di società si incrina, lasciando intravedere il vuoto sotto le convenzioni. I tre personaggi si aggirano per casa, si incrociano e parlano di niente, mentre i loro corpi talvolta vanno fino in fondo ad un’azione, dalla banalità all’estremo. Vediamo cosa succede dietro le parole di circostanza: dicono “fa caldo” e sotto ribolle la trance.
Con le loro etichette e paranoie, i tre personaggi oscillano. Sono come i tre lampadari sul palco, sempre sul punto di divenire lampi. La scena, magistralmente attraversata da Alessandra De Santis, Rossana Gay e Alessandro Mor, è un teatro della crudeltà nel senso dell’allarme e del pericolo. Aspettiamo lo spavento come aspettiamo la risata − e non ridiamo dell’assurdo, che sarebbe ancora razionale, come negazione dell’ovvio della ragione. Ridiamo e tremiamo insieme, con una sensibilità fatta ostaggio dal teatro. Non ne siamo padroni. Aspettiamo Emily: uno spettro che accarezza appena la scena, un corpo disperato ed estatico. Per lo più invisibile agli spettatori, Emily è pur sempre presente. Non esce dalla sua stanza, si nasconde e bisogna nasconderla. È pazza, e con la sua lucidità mostra la follia di quello che la circonda. In scena vediamo tutto quello a cui lei dice di no. Emily non vuole essere ammirata. È andata a scuola, ma non è istruita come si deve. Non vuole prendere il tè e fare cerimonie. Non vuole mangiare, non vuole dormire, non vuole morire.
Che cosa significano tutti questi no? Si tratta solo di un’adolescente che si ribella? La destituzione è già un atto di creazione. Emily non vuole essere così come dovrebbe. La negazione ha il senso di una sottrazione attiva all’intrascendibilità delle alternative presenti. Rifiutare un mondo di apparenze significa immaginare una forma di vita differente, nel desiderio di andare oltre quello che non è. Che cosa cerca Emily? A che cosa dice sì?
Di contro all’immobilismo dei suoi familiari, Emily fa girare i lampadari, mette in circolo le presenze, cerca una via di fuga, corre in cerchio, cammina a linee spezzate, grida quasi fosse in croce “come sono sola”, grida. Parla delle colline e dei tramonti, unici compagni, e dei cani, che sanno tutto ma non dicono niente. Parla del suo amico che voleva l’immortalità, ma ci è andato troppo vicino e non è tornato mai. “Sono viva, mi sembra” sussurra “hai una cassetta per tenere dentro una viva?”. Emily vuole essere immortale, vuole vivere nella presenza assoluta della verità. E dice sì all’amore, nella maniera in cui si risponde ad una vocazione. Emily è nata per amare, nell’amore sempre incontra sé stessa. Eppure, è anche vero che nell’amore si incontra l’altro e, in qualche modo, si muore a sé stessi, almeno a quella forma di sé che si conosceva come individualità isolata prima dell’incontro. In questo senso, Emily trova sé stessa nell’amore, morendo alla sua solitudine. Ed ecco che esce di casa e arriva fino a noi, trova la sua verità nell’estasi, ossia, letteralmente, nell’esistenza fuori da sé.
Nella sua poesia, così come è incarnata dalla scena di Milena Costanzo, troviamo un amore più pericoloso dell’allarme e, al contempo, più rassicurante della protezione. Con la caduta di ogni contrario, che sia in una stanza, in un teatro o in un abbraccio, diviene possibile sentire insieme sé come l’altro e, allora, lasciar avvenire l’abbandono.

 

 

 

Da vicino nessuno è normale
Emily NO!

liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Emily Dickinson
di Milena Costanzo
con Milena Costanzo, Alessandra De Santis, Rossana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
foto Paola Codeluppi
produzione Fattore K
in collaborazione con Olinda e Danae Festival
lingua italiano
Milano, TeatroLaCucina, 12 luglio 2016
in scena 12 luglio 2016 (data unica)

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