“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 16 March 2013 10:06

CICLO BERGMAN (parte VI) - Luci d'inverno

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“Le riprese di Luci d’inverno furono d’avvero difficili e si protrassero per 56 giorni. Fu una delle lavorazioni più lunghe per uno dei film più corti che abbia mai fatto”

(Ingmar Bergman)

 

 

L’opera che ci accingiamo a raccontare è del 1963 (anche se alcune fonti lo datano 1961) e segue Come in uno specchio (1960) nell’ipotetica trilogia denominata “il silenzio di Dio” (vedi Ciclo Bergman parte V – Come in uno specchio) di cui farà parte anche il successivo Il silenzio (1963). Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un film complesso. Innanzitutto il regista riduce all’osso spazio e tempo, l’intera narrazione si svolge nell’arco di una mezza giornata e i tre quarti del film sono girati all’interno di una chiesa. Ciò che ne risulta è “cinema da camera”, una sorta di “suite teatrale” messa in pellicola. La mescolanza delle arti è un argomento non estraneo alla poetica bergmaniana. Il maestro vedeva in particolar modo nella musica un corrispettivo autentico con la settima arte: “Quando ci rechiamo a vedere un film, noi ci prepariamo coscientemente all’illusione. Mettendo da parte volontà e intelletto, facciamo luogo ad esso nella nostra immaginazione. La successione delle immagini opera direttamente sui nostri sentimenti, senza toccare l’intelletto. La musica opera allo stesso modo; direi che non v’è altra forma d’arte che abbia tanto in comune col cinema come la musica. Entrambi influiscono sulle nostre emozioni direttamente, non attraverso l’intelletto” (4 film di Bergman, Einaudi, 1961). Innanzitutto, vediamo la trama ricordando, a costo di ripeterci, che anche in questo caso ci troviamo al cospetto di un opera di “condizione” e non “situazionale”. I personaggi presenti nel film sono cioè la trasposizione di un carattere, una condizione esistenziale, ed agiscono (come in tutta l’opera bergmaniana) determinati da questa loro stessa condizione. La situazione e l’azione, invece, sono solitamente (e lo sono in questo caso) molto scarne, quasi meccaniche e avulse. Il film si apre in una chiesa di un freddo ed innevato villaggio svedese. Il pastore luterano Tomas sta officiando messa. I fedeli, pochi, si radunano attorno all’altare per il rito della comunione, poi vanno in pace. Dopo messa, il prete viene avvicinato da una coppia di fedeli. La donna chiede che il marito faccia due chiacchiere con lui. L’uomo è molto depresso, teme un improvviso attacco atomico da parte della Cina (i cinesi non hanno “nulla da perdere”). Il pastore invita l’uomo a ritornare poco dopo, così da poterlo ascoltare in tutta calma. In canonica intanto entra Marta, nuova compagna (da quando è morta sua moglie) di Tomas. La donna ha scritto una lettera per lui, uno scritto che racconta i sentimenti di lei nei suoi confronti, perché “quando si parla, ci si confonde”. Nel dargli la lettera si accorge del turbamento, ormai costante, dell’uomo. “Cos’è che ti turba?”. “Il silenzio di Dio” risponde il pastore. L’uomo è da tempo in crisi esistenziale e di fede (scopriremo poi essere in questo stato da quando quattro anni prima era morta sua moglie). Marta gli dice: “Dio non ti parla forse perché non esiste”. Lei è una donna cresciuta in una famiglia atea, teologia e cristologia apparivano assurdi e senza senso, poi l’amore verso quest’uomo ha mutato il suo approccio verso tali argomenti e ha trovato la sua forma di Dio nell’amore verso il pastore. Tomas legge la lettera, Marta confessa una volta per tutte tutto il suo amore. Quasi una missione ormai per lei, secondo le sue parole. Poco dopo torna l’uomo depresso. Quasi non parla, è infatti Tomas a sfogarsi. Riversa su di lui tutta la sua vacillante fede. Arriva addirittura a sostenere che forse tutto avrebbe senso solo se Dio non esistesse. Solo così potremmo accettare il male. Il fedele è stravolto e scappa via. Tomas, ormai in preda ad una spaventosa crisi di fede dice: “Dio, perché mi hai abbandonato?”. Dopo poco viene informato che nei boschi è stato trovato il cadavere di quell’uomo tanto avvilito. Il pastore accorre sul luogo, il poveruomo si è suicidato sparandosi in faccia con un grosso fucile. Tomas decide di occuparsi del terribile compito di avvisare la moglie. La donna accoglie la tremenda notizia quasi l’aspettasse. L’uomo torna da Marta, non si sente bene e da lì a poche ore dovrà recarsi in un’altra chiesa per dire messa. La donna si prende cura di lui, ma Tomas, ormai esasperato da tutto, coglie l’occasione per vomitarle in faccia una volta per tutte la verità quasi con odio: non la ama, no l’ha mai amata. Solo una donna ha avuto il suo amore, sua moglie. E alla morte di lei, è morto anche lui! Marta ingoia tutto nascondendo con sforzo il dolore e lo accompagna in chiesa come se niente fosse. Ad attenderli ci sono solo l’organista ed il sagrestano. Quest’ultimo gli confida le sue impressioni sulle letture dei vangeli. Secondo la sua riflessione, la più terribile delle sofferenze patite da Cristo è raccolta nella frase pronunciata sulla croce: “Dio, perché mi hai abbandonato?”. Un primo piano intensissimo ci mostra il volto pensoso di Tomas. È la stessa frase pronunciata da lui poche ore prima. Quindi anche Cristo ha sofferto per il silenzio di Dio, pensa. Il sagrestano intanto dà il richiamo ai fedeli con i doverosi rintocchi di campana. Niente. Nessuno entra in chiesa. Marta, seduta in fondo, attende l’inizio della funzione. L’organista si prepara, ma prima esorta Marta a scappare via. La invita ad abbandonare Tomas, magari a dare il suo Amore altrove. Già, l’Amore. Tornano qui le stesse parole pronunciate nel finale di Come in uno specchio, stavolta recitate dall’organista che scimmiotta i vecchi monologhi di padre Tomas, quando ancora aveva la fede e soprattutto l’Amore di e per sua moglie: “Dio è l’Amore, e l’Amore è Dio. L’Amore è una prova dell’esistenza di Dio. L’Amore è la sola realtà di questo nostro pietoso mondo terreno”. L’organista si rialza e si avvia verso il suo strumento, Marta recita al buio una preghiera: “Se riuscissimo ad essere sicuri… se riuscissimo a credere in una verità, se riuscissimo a credere!”. Il sagrestano dà i secondi rintocchi di campana. Nessuno. La chiesa è completamente vuota. Padre Tomas si avvia sull’altare ed inizia: “Santo Santo Santo il Signore Dio degli eserciti. Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.

Il finale del film è ancora oggi motivo di controversia da parte di critici e studiosi. Due le interpretazioni possibili: la prima vuole che nella scena conclusiva Bergman sottolinei la meccanicità del rito, una inutile messa poiché priva di fedeli non può che evidenziare l’alienazione alla quale si va in contro con la superflua visione della religione e dei riti che essa comporta. Questa interpretazione troverebbe manforte nella vicenda raccontata dallo stesso Bergman riguardo all’ispirazione del finale del film. Ebbene, il regista racconta che per quest’opera chiese la consulenza di suo padre Erik, anche lui pastore luterano (fu molto probabilmente anche un tentativo per riappacificarsi e per distoglierlo dalla tensione per il ricovero in ospedale della moglie Karin) e che durante la visita dei due in una chiesa a nord di Uppsala suo padre volle officiare messa insieme ad un pastore che era arrivato malaticcio. La scelta di papà Bergman era stata categorica: occorre sempre mantenere i propri impegni, bisogna sempre officiare la messa davanti ai fedeli per non perdere il senso del magistero. La seconda interpretazione, all’opposto, vede nel finale ancora una volta il senso di speranza presente in molte opere bergmaniane precedenti. Secondo questa interpretazione infatti il pastore, ricordandosi dell’esempio del Cristo che sulla croce dubita di Dio, riacquista quella fede perduta, e la funzione per una platea vuota diventa il più forte atto di fede ch’egli potesse compiere. 

A nostro avviso entrambe le letture sono possibili, ovvio però che, essendo in contraddizione tra loro, una delle due è sicuramente sbagliata. Forse però c’è la possibilità di una mediazione. In fondo, come lo stesso Bergman ammise, Luci d’inverno rappresenta “la certezza messa a nudo”. Quella certezza che Dio è Amore conquistata in Come in uno specchio, ma che adesso deve passare al vaglio del dubbio. La frase del Cristo sulla croce “Dio, perché mi hai abbandonato?”, rappresenta indubbiamente una relazione fondamentale tra il pastore e Dio stesso. La sua fede torna quindi effettivamente sincera e reale, ma inesorabilmente mortale, una fede che vive in se stessa la sua contraddizione e che è destinata a svanire nel silenzio. Come può infatti l’uomo avere fede in un Dio che, anche solo per un attimo, ha dubitato di se stesso?! Per i fedeli la ricerca della comunione (la traduzione esatta del titolo è I comunicandi) rimane quindi ancora incompleta e necessita di un ulteriore sviluppo che il regista affronterà nella sua opera successiva (in questo senso la tanto smentita trilogia ha comunque un suo perché).

Per Bergman, di solito critico impietoso dei suoi film, in Luci d’inverno “nulla si è rotto o si è corrotto” a distanza di tanti anni. Per il suo autore, l’andamento complessivo della storia e lo stile della rappresentazione restituiscono ancora le stesse emozioni d'allora: “La genesi della sceneggiatura ha proceduto per gradi e per più stesure con l’obiettivo di raccontare un dramma davanti all’altare di una chiesa. Ecco perché la storia è ingegnosa non per la sua complicazione ma per la sua semplicità”. Una interessante curiosità rivela la difficoltà della realizzazione dell’opera. Anders Dymling, quello che non vedeva inizialmente di buon occhio la realizzazione de Il settimo sigillo (1956), e presidente della Svensk Filmidustri, dopo aver espresso la sua opposizione al progetto si ammalò. Scrive Bergman a proposito di questa improvvisa fortuna: “Io ero nella condizione di poter fare quello che volevo. Era il momento del salto mortale […] Mi sono sempre sforzato di essere attraente per il mio pubblico. Tuttavia non ero così stupido da non capire che Luci d’inverno non avrebbe avuto nessun esito di pubblico. Era una cosa deplorevole, ma necessaria” (Immagini, Garzanti, 1991). Sulle previsioni di insuccesso del film, il regista si è sbagliato nettamente perché Luci d’inverno resta una delle sue opere più acclamate dal pubblico e dalla critica e, come abbiamo visto, la discussione sul suo stile e sul suo contenuto, ad oltre quarant’anni di distanza, non si è affatto conclusa.

 

 

Retrovisioni

Nattvardsgàsterna (Luci d’inverno)

regia Ingmar Bergman

con Gunnar Bjòrnstrand, Ingrid Thulin, Max von Sydow, Gunnel Lindblom, Allan Edwall

produzione Svensk Filmindustri

sceneggiatura Ingmar Bergman

paese Svezia

lingua svedese

colore b/n

anno 1963

durata 80 min.

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