“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 July 2016 00:00

La purezza di Macbeth

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Bisognerebbe anticipare in calce che qui si tratta di un saggio. Ma nel nostro caso ritengo riduttivo introdurre così, vista la qualità della regia; lo dico per rettitudine di pensiero.

Si tratta del Macbeth di William Shakespeare, opera plurirappresentata e con una lunga tradizione. Sottolineo questo perché ho molto apprezzato − ed è il motivo per cui ho deciso di scrivere questo articolo − la scelta registica. Se infatti la struttura del Macbeth risponde a uno schema di pensiero che Brecht1 definì "drammatico", lo schema mentale della Capece è approssimativamente l'opposto. Il modello "drammatico", basato su una concezione rettilinea e finalistica della trama (trama come Storia), è trasformato qui in qualcosa che definirò "circolare". Il modo è il seguente: la trama è stata divisa in quattro: quattro quadri (in opposizione all'originale divisione in cinque atti), quattro episodi circolari corrispondenti a quattro attori diversi. Quattro Macbeth, quattro Lady Macbeth spezzano la trama rendendola un sottotesto e si ottengono così due binari: quello dei quadri, e quello della trama che sottoscorre. L'ottica rettilinea secentesca è frantumata. La parola si rarefa, scompare quasi nell'evoluzione dei cerchi, per riapparire forte alla fine di ognuno. Può la parola avere valore conoscitivo, ci si chiede? No, forse, o conosciamone i limiti. Essa appare, chiarifica ogni quadro rappresentato sul suo finire, sentenzia. Ma non salva Macbeth. I toni sono volutamente antipoetici: è questo a mortificarla, le voci provengono dagli altoparlanti, molte scene sono sotto la fascinazione dell'ipnosi, le voci sono ripetitive e caricaturali. La parola viene irrisa. Lo stacco ulteriore da Shakespeare è che essa non porta all'azione. Nel teatro drammatico è la parola che scandisce, qui no. È il cerchio, che col suo continuo ritornare a sé ci domanda: ci può essere la Storia? Ci può essere un progresso umano?
Secondo elemento: la luce. L'illuminotecnica è gestita interamente in scena dagli attori. Presenta luci calde e luci fredde. Agli angoli del palcoscenico sono poste delle lampade da terra (luci calde), e su una colonna al centro della struttura sono posti dei neon (luci fredde), rossi e blu. L'impressione è di un cimitero. Le luci calde danno l'intimismo della scena, le luci fredde controbilanciano. Lo spettacolo non presenta così sentimentalismo. La seconda impressione che se ne ricava è di unificazione. L'impasto luminoso avvolge tutto, denso, ipnotico. Gli oggetti in scena si rarefanno, gli attori si svuotano del personaggio, tutto sembra fatto dello stesso impasto della luce. Tutto diventa infunzionale, irreale, ricordando l'interiorità di un cervello. Lo spettatore smette di vedere i personaggi e ne vede solo le parti. Niente accade di reale, le forze motrici non sono gli attori, Macbeth, Lady Macbeth, ma le parti della mente stessa della Capece; una costellazione di parti, di forze, di luci, di colori che conflagra, prendendo facce sempre nuove. Quattro attori per quattro Macbeth. Ho avuto l'impressione, quando le luci fredde si spegnevano e rimanevano le lampade a pedana, di trovarmi di fronte al cimitero dell'anima della Capece. Le forze in gioco si scontrano, ma senza realtà. La vittoria, l'azione, l'omicidio possono avvenire solo nel fisico e nel reale, ma quando tutto assume i toni dell'interiorità, gli ordini si sconovolgono e non è più possibile soluzione duratura. Non c'è vittoria nell'anima, dove i morti possono risorgere, non c'è frizione che si risolva, solo azioni che si ripetono e si ripetono. Tutto circolarmente segue l'andamento ipnotico del cerchio, senza soluzione e senza progresso. I personaggi rappresentati si avvicinano alle luci, parlano loro, le fissano e vanno via. Poi tornano, come gli insetti che di notte sbattono contro le luci notturne. L'uomo continua a compiere i propri errori, come l'insetto che sbatte sulla luce sperando nel sole.
L'ora della rappresentazione è l'ora notturna, come in Shakespeare, e degli attori per ricordarlo entrano con delle torce e illuminano gli spettatori come dei guardiani notturni, nella speranza forse di una scoperta, che lo spettatore si scopra visto e si veda, si scopra colpevole, insetto e veda la luce e capisca, se quella è luce che salva o egli stesso, incapace, si tirerà indietro. Da un lato la caccia al colpevole, dall'altro la ricerca della salvezza. È della notte dell'anima che qui si parla, sviscerando la colpa di Macbeth, che paralizza, che macchia, che rende incapaci di salvarsi e di capire. È la colpa che regna così sul dramma, nelle luci, nella rarefazione, nella quieta disperazione delle voci fuori campo. Neanche la violenza ha il coraggio di persistere, anch'essa ricapitola, e l'uomo si scopre incapace per natura. Niente è possibile nella notte, essa è solo il tempo in cui l'uomo guarda il cielo e aspetta il giorno, quando riacquisterà la capacità di agire. Essa si compenetra alla colpa e insieme accecano, indeboliscono, rendono consapevoli che nulla cambia, come la luce che dondola sulle teste degli attori ritornando sempre e sempre dov'era stata. Persino l'eroe per eccellenza, il glorioso Macbeth, viene rivelato per un nulla e fatto giocare come un bambino nell'inconcludenza di un gioco a palla.
Le streghe, che in Shakespeare sono il movente dell'azione, qui ne sono la castrazione. Esse escono su un carro come a carnevale, parodiando la vita stessa. La loro entrata disfa propositi, impone silenzio, ricorda la colpa. Esse sono la colpa, che paralizza l'uomo e lo riporta alla condizione di bambino. Una è rappresentata dalla Capece vecchia e incinta, capolavoro di mostruosità. Un amico mi ricordava l'episodio biblico di Sara, incinta per miracolo a settantacinque anni, e della grande gioia che il popolo ne ricavò. Ma qui non c'è dio, perché avvenga un miracolo, non c'è provvidenza, e ciò che rimane è il contronatura. È l'uomo stesso che è contronatura, sussurra lo spettacolo con un passeggino che circola per le scene in mano alle streghe, simulando l'originale calderone, qui incubatore di insetti e di mostruosità. Da colpa nasce colpa, da mostro nasce mostro. Se Dio fosse esistito nella mente della regista, il suo teatro sarebbe stato drammatico. Fantocci, bambole, esseri fintamente vivi, gli esseri della non vita, gli esseri in cui il soffio di dio non è passato a rendere vivi, simili nelle sembianze a tutti gli altri ma mostri dentro.
Quando l'uomo è lasciato al buio si mostra l'animale. Nel sottopelle degli attori, nelle scene più cruente; le danze rituali, la morte di Banqo rappresentata con bestialità di chi disprezza la morte. È la colpa, di nuovo, la grande e oscura regista del dramma, la mano che muove ogni azione, la forza motrice degli scambi e dei gesti, fitta e densa come la luce delle lampadine. Essa va e viene nelle scene con le facce degli attori, di cui ognuno ne interpreta una sfumatura, e quando tutto implora una soluzione, un re o un altro assassinio, ritorna: la colpa, nella scena finale, nelle facce di tutti gli attori, osserva l'assassinio dell'ultimo Macbeth, e rende tutto vano. Il destino, che in Shakespeare riveste un ruolo cruciale, qui passa in secondo piano.
Non sono solito tollerare il male nell'arte. Un artista che apra le vie del male e non mostri una via di uscita non è un artista, è un blasfemo e un lamentoso. Ma un senso di purezza viene fuori da questo spettacolo. C'è da chiedersi: come può da quel mostro umano scaturire purezza? La purezza è nel dolore e nella qualità del dolore. E la purezza dell'uomo è in ciò che lo fa soffrire e nel come egli soffre. Ci fosse stato un pizzico in meno di dolore, avrei capito che quello è male. Ma solo un'anima pura può provare tanto dolore, specie se è alle ragioni della vita che esso si lega. E c'è una qualità di dolore dalla quale emana luce, purezza, tenerezza, innocenza, non fosse altro che per la sottile vergogna che si dimostra sottopelle nella trattazione della sporcizia, quel leggero disagio, quella pudicizia che dev'essere tanto più grande quanto grande è l'argomento che si deve trattare, e che qui c'è. Nietzsche direbbe che un uomo è grande quanto grande è la porzione di verità che esso può tollerare. E se questo è vero, allora questo è uno spettacolo coraggioso.

 

 

1) B. Brecht, Scritti teatrali, Einaudi, 2001.

 

 

Macbeth
di William Shakespeare
regia Yvonne Capece
coreografie Antonella Boccadamo
con Ignazio Vanfiori, Martina Bubba, Riccardo Trentadue, Simon Luca Villani, Ippolito Dell'Anna, Sara Iacarella, Luca Camilletti, Carlotta Signori, Sofia Gerosa, Claudio Novelli, Onofrio Mazzarisi, Elena Minetti, Morena Del Gaudio, Roberta Casadei.
lingua italiano, inglese
durata 1h 45'
Bologna, Spazio teatrale di (S)Blocco5, 1° Luglio 2016
in scena dal 1° al 4 Luglio 2016

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