“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 19 June 2016 00:00

L’equilibrio precario di un’altalena

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Il Napoli Teatro Festival Italia edizione 2016 ha in sé uno spettacolo che è parte integrante di un progetto che prevede la collaborazione tra teatri, istituti penali per minori e scuole grazie a percorsi che mirano a ricostruire la coscienza etica del giovane che delinque e renderlo un adulto consapevole in grado di reinserirsi nella società.

Il progetto si chiama Il palcoscenico della legalità ed è nato al Teatro San Carlo nel 2012 da un’idea di Giulia Minoli che ha coinvolto finora studenti della Sicilia, del Lazio e della Campania e gli istituti minorili di pena di Airola, in provincia di Benevento, e il Malaspina di Palermo. Proprio l’istituto beneventano ha lavorato con la compagnia di attori professionisti per la parte laboratoriale del Nest, un nuovo teatro nato a San Giovanni a Teduccio, due anni fa, dalla collaborazione tra Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Miale di Mauro, Giuseppe Gaudino e Andrea Velotti.
Quindi sulla scena del Teatro Nuovo si è assistito alla realizzazione di un lavoro fatto dai detenuti di Airola che ha il proprio focus su parole chiave quali "possesso", "gelosia", "sogno". Queste parole sono inglobate in altre come "pazienza" − cioè aspettare che arrivi il tempo del fine-pena − e "onestà", a cui devono mirare una volta usciti dal penitenziario. Sul palcoscenico vi è solo un’altalena, di quelle su cui ci si siede all’estremità.
Attorno è solo buio. Dalla platea avanzano verso il palco una coppia vestita in modo bizzarro. L’uomo indossa in abito scuro, leggermente stropicciato, con un gilet verde: è il Grillo Parlante, quello della favola di Pinocchio. La donna indossa un abito bianco di tulle con tanto di velo da sembrare una sposa, ma spruzzato di verde e di azzurro. Lei è una disincantata Fata Turchina che sembra conoscere molto bene le dinamiche e le storie che intercorrono tra i due ragazzi che entrano poco dopo sulla scena. I due giovani si esprimono nello slang di quartiere, degradato ulteriormente. I due discutono dei loro miti, delle pistole, dell’arroganza, hanno una gestualità esasperata, i toni sempre alti ed al limite dell’urlo. I due personaggi della favola cercano di stabilire un contatto con i due giovani perché il Grillo vuole “educarli” ad una vita diversa. Inizialmente deriso, sempre sul filo tra lo scherzo e la provocazione, il Grillo cerca di entrare in empatia con i due ragazzi cercando di farli riflettere su quello che pensano e su ciò che dicono. Che cosa significa possedere una persona? Che rapporto hanno con la fidanzata che è fuori e perché si comportano così? Attraverso questo esercizio di maieutica nasce un ritratto tristemente noto delle vite di questi ragazzi segnati dalla paura, da codici di onore ereditati dalle madri, dal mondo terribile in cui vivono: l'unico che conoscono davvero.
I due ragazzi per quasi tutto il tempo della rappresentazione sono sull’altalena, salgono e scendono a turno, in un’alternanza di speranza e delusione, di dentro e fuori, di alto e basso. Anche il Grillo a un certo punto vi si siede insieme alla Fatina che, con un linguaggio più diretto, riesce a porsi al loro stesso livello. I due personaggi della favola sono (diventano) dunque lo Stato e le sue Istituzioni che cercano di recuperare ai valori etici chi, questi valori, non li ha mai conosciuti. I due ragazzi prima si pongono in una contrapposizione polemica, poi accettano lentamente il dialogo e il percorso che viene loro proposto. Il problema più grande da affrontare è la speranza in una vita migliore fuori dalle mura del penitenziario, quando lo Stato non li aiuta a inserirsi nel consesso civile, pensando che la parte maggiore del lavoro del recupero sia stato effettuato. Invece è fuori che si gioca l’ultima possibilità per i giovani detenuti. La battuta finale, detta da uno di loro, è sintomatica di questo passaggio cruciale: “Ci proviamo, ci speriamo” pronuncia uno dei due ragazzi, mentre continua il gioco dell’altalena con un sorriso amaro che somiglia molto a un ghigno.
Lo spettacolo pecca nel presentare una serie di luoghi comuni sul mondo dei minori carcerati e sul contesto sociale da cui provengono, ma essendo un testo laboratoriale pensato, elaborato e scritto proprio da loro, si sorvola inevitabilmente su certi limiti compositivi che lo contraddistinguono. La regia ha puntato sulla capacità degli attori: infatti i due giovani non erano i detenuti del carcere di Airola, ma Giuseppe Gaudino e Adriano Pantaleo, bravissimi nel porsi le battute con tempi precisi e la giusta intonazione. Si comprende la difficoltà di portare sulla scena i veri detenuti, ma averlo fatto avrebbe dato a tutto il lavoro una connotazione più originale, più necessaria.

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Aspettando il tempo che passa (e mentre passa nuje ce facimmo viecchie)
scritto
con i detenuti del carcere minorile di Airola
regia Emanuela Giordano
con Giuseppe Gaudino, Adriano Pantaleo, Veronica Montanino, Salvatore Presutto
progetto Il palcoscenico della legalità
coordinato da Giulia Minoli
in collaborazione con Associazione Nest/Napoli Est Teatro, The CO2 Crisis Opportunity Onlus con l’IPM- Istituto penitenziario Minorile di Airola
hanno partecipato ai laboratori i ragazzi detenuti Mattia, Luigi Palmieri, Ivan D’Apice, Carlo Esposito, Salvatore Sacco, Raffaele  Krezel, Krispyan, Luigi, Luigi Di Costanzo, Bruno D’Avino, Vittorio Albano, Gaetano Nunziato, Dalibor Radosaljevic
assistenti al progetto Luca Caiazzo, Noemi Caputo, Ludovica Siani
assistente alla regia Tania Ciletti
produzione Nest – Napoli est Teatro
costumi Teatro San Carlo
durata 35’
paese Italia
lingua italiano
Napoli, Teatro Nuovo, 15 giugno 2016
in scena 15 e 16 giugno 2016

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