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Saturday, 04 June 2016 00:00

Quel rigore che poteva salvare una nazione

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A volte ci troviamo a ridere e scherzare per una partita di calcio. Ci sfottiamo e magari qualcuno resta male. Invece, dovremmo apprezzare il momento della sconfitta se questa resta limitata a un rettangolo verde, a un divano o a un social network, seppur popolato da amici impertinenti. Questi aspetti, in fondo, sono ludici. Purtroppo il calcio è anche diventato un segnale premonitore di accadimenti di ben altra portata. Tanto che, parafrasando von Clausewitz, è stata la guerra la sua prosecuzione con altri mezzi.

Faruk è un nome che… dove ci porta? In Egitto, in Medio Oriente? No, più vicino. Parliamo di Faruk Hadžibegić, l’ultimo capitano dell’ultima nazionale jugoslava. Chiamato a calciare il rigore che poteva cambiare il corso della storia. Era un pomeriggio afoso dell’estate italiana cantata da Gianna Nannini e noi ci deliziavamo con gli occhi spiritati di Schillaci e con gli uno-due tra Totò e Roberto Baggio. Neanche sapevamo, o facevamo finta di non sapere, cosa succedeva nell’altra sponda dell’Adriatico. Questo è l’aspetto negativo dello sport, offusca le menti e ogni cosa può passarci sopra. Quattro anni dopo, durante il mondiale successivo, quello statunitense, Berlusconi convocò un Consiglio dei Ministri durante una partita dell’Italia per fare passare un decreto che depenalizzava i reati di Tangentopoli.
Torniamo a noi e al libro di cui vi voglio parlare: era il 30 giugno 1990 e il calendario proponeva un quarto di finale tra Argentina, dove giocava Maradona, e Jugoslavia, dove giocava l’altro Maradona, quello dei Balcani: Dragan Stojković. La partita venne falsata da un arbitraggio pro-argentino nei novanta minuti regolamentari, soprattutto la Jugoslavia venne ridotta in dieci per un’espulsione a dire poco affrettata di Refik Šabanadžović che stava francobollando el pibe de oro. Il quale a sua volta giocò una partita più da fenomeno da circo che da fenomeno di calcio. D’altronde, l’Argentina di quel mondiale era una squadra bruttissima che ancora mi chiedo come possa essere arrivata in finale e perdere su calcio di rigore a cinque minuti dalla fine contro i tedeschi. Comunque dieci o non dieci, la Jugoslavia dimostrò la classica legge non scritta, ovvero che l’inferiorità numerica può trasformarsi in stimolo a dare il massimo per chi resta in campo. E dominò la partita. Poi, nei supplementari l’afa fiorentina fu sul punto di squagliare i giocatori che decisero di affidarsi alla buona sorte. Calci di rigore.
Maradona, nel pieno di una giornata da dimenticare, sbagliò perfino dagli undici metri facendo una figura meschina. Così il rigore di Faruk Hadžibegić poteva essere uno spartiacque: semifinale sì, semifinale no. E sarebbe stata Italia-Jugoslavia.



Oggi, Hadžibegić è un elegante signore sessantenne, torna spesso nella sua Sarajevo, pur avendo poi scelto la Francia per sé e la sua stupenda famiglia fin da quando era calciatore. Lo riconoscono ancora, in aeroporto, alla dogana, in taxi, per strada. E otto persone su dieci gli ripetono il mantra: “Eh… se tu non avessi sbagliato quel rigore”.
Siamo proprio sicuri che la guerra di Troia sia scoppiata per una questione di controllo commerciale degli stretti che si contendevano le città micenee e quelle della costa turca? Siamo proprio certi che il mito omerico non abbia alcunché di vero? O, almeno, di verosimile? E se invece fosse esistita quella strafica di principessa spartana, Elena, con un marito irascibile e geloso, è noto che con gli spartani c’era poco da scherzare, di nome Menelao e un amante aitante come Paride di Ilio?
Così è per Faruk e quel maledetto rigore. È ovvio, dice l’autore, Gigi Riva, che fa il giornalista e non è rombo di tuono, che nel sistema dei rapporti di causa-effetto la guerra, anzi le guerre della ex Jugoslavia che hanno insanguinato i Balcani per tutti gli anni Novanta, hanno un’infinità di moventi, intrecci, volontà. Figuriamoci se il rigore di Faruk... però, pensiamoci un attimo: Hadžibegić segna, la Jugoslavia va in semifinale, è una squadra con dei fuoriclasse ma soprattutto è interetnica, con serbi, croati, macedoni, sloveni, bosniaci, incontra l’Italia che, da padrona di casa, è nervosa e ha tutto da perdere. E perde. Per cui la Jugoslavia finisce in finale dove trova la Germania, da cui è stata sconfitta nel girone eliminatorio e ha dunque imparato le contromosse da adottare per fermare i tedeschi. E… entusiasmo per le strade, nuova retorica panjugoslavista, nazionalisti di qua e di là che decidono di riporre i loro piani secessionisti nei cassetti perché l’ondata popolare ha dimostrato che ancora in tanti credono in un unico stato degli slavi del sud.
Faruk Hadžibegić, oggi, vive con il sorriso sulle labbra quel rimprovero: “Eh… se tu non avessi sbagliato quel rigore” ma negli anni lo ha preso molto sul serio. Perché quel rigore era veramente l’ultimo appello che poteva lanciare un figlio della Sarajevo della convivenza, dove cattolici, ortodossi, musulmani, atei, ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti facevano sfoggio di humour e tolleranza reciproca: fermate i cannoni e che le tigri di Arkan tornino nella curva della Stella Rossa di Belgrado senza la pretesa di trasformarsi nelle bande paramilitari dedite allo stupro etnico. Quel rigore era l’estremo sostegno che la storia forniva a chi voleva mantenere l’edificio istituzionale, seppure scassato e riformabile, studiato da Tito.
Quello che, in alcuni momenti, sta dietro al calcio ce lo fa dunque capire Gigi Riva in questo libro bellissimo, che consiglio agli amanti del gioco e a chi non lo segue, giusto per avere uno strumento di lettura politica e socio-antropologica. Dite che sto esagerando? Forse, ma voi siete proprio sicuri che la guerra di Troia… ?

 

 

 

Gigi Riva
L’ultimo rigore di Faruk
Palermo, Sellerio, 2016
pp. 184

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