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Monday, 23 May 2016 00:00

Dal Tavoliere con amore

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È di presa facile e immediata, Nella gioia e nel dolore, spettacolo della compagnia pugliese Contromano Teatro che ha visto la rassegna MutaVerso far ritorno – per l’occasione – nello spazio intimo e raccolto del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. È di presa facile e immediata perché racconta un tòpos – quello delle ritualità accessorie che contornano il rituale matrimoniale nella provincia meridionale – che non solo è noto e diffuso ai più per averne fatto esperienza (diretta o indiretta), ma che tanto interesse suscita da aver anche alimentato un fiorire di format a tema che animano il (sotto)bosco televisivo, spaziando indistintamente dal kitsch al sofisticato e spesso confondendo i due ambiti.

È di facile presa, Nella gioia e nel dolore, perché racconta una realtà che all’ingrosso conosciamo tutti, ma soprattutto è di facile presa perché affida il racconto ad un linguaggio che sa dosare l’idioma basso e popolare del contesto sociale su cui s’indirizza una satira di costume col linguaggio – e con gli stilemi – del teatro contemporaneo, rinunziando – ed è scelta felice – ad una teatralizzazione convenzionale per puntare sul meccanismo agile di un grottesco che, per buona misura, è pure spassoso.
Il gusto dell’iperbole attraversa tutta la rappresentazione, a partire dalla scenografia ingombra di una mastodontica torta nuziale, per poi connotare ciascun dettaglio della partitura, incentrata sulle imminenti nozze tra due giovani della provincia pugliese, mediante accumuli e esasperazioni tipiche. Così ascoltiamo Nunzia e Sabino sciorinare dapprincipio tutta la fiera campionaria delle banalità da canzonetta che preludono allo sbocciare di un amore modesto, contraddistinte dal gusto  dell’enumerazione (i Solo 3 minuti dei Negramaro, i Cinque giorni di Zarrillo, i Mille giorni di te e di me di Baglioni), cui s’aggiungono melensaggini varie – da Mi fai stare bene a Se stiamo insieme – che solitamente popolano l’immaginario amoroso di coppie dell’ordinaria medietà; brandelli di canzoni recitati frontalmente, meccanicamente, proprio a voler significare la doverosità ineluttabile di una tipologia “statutaria” e diffusa, il cui destino programmato è in un fidanzamento culminante nelle nozze di prammatica, anche queste tipologiche. Tipologia che, per essere completa, abbisogna del parrucchiere specializzato, dalla wedding planner a cui si rivolgono tutti, del fotografo che vanta nel proprio pedigree la collaborazione con Telenorba, la scelta del ristorante con annesso menu pantagruelico. Accumuli ed esasperazioni che si affastellano in elenchi di portate, di buste, di eccezioni al menu stesso. Il tutto mentre sottotraccia si diffonde un senso amaro di forzatura, mentre si svela progressivamente e senza neanche attendere troppo, la contrazione (e la contrizione) di un matrimonio che pare più frutto delle convenzioni che di un amore sbocciato romanticamente all’ombra di un gelato al pistacchio; un amore figlio della necessità, sentita come tale – da uno strato trasversale di popolazione, meridionale ma non solo – di mettere su famiglia a un certo punto della vita, trovando “una brava ragazza” (o “un buon partito”, se la vediamo dall’altra angolazione), senza star troppo a dilaniarsi dietro a romantiche pene d’amore sentimentale.  
C’è in questa concezione matrimoniale – e a spanne sociale – della vita un’impalcatura a sostegno eminentemente materiale, fatta di sicurezze e riconoscimento sociale, e fa nulla se ciò possa andare a detrimento di una qualunque forma di felicità. E c’è, in questo affresco della deferenza alle convenzioni, la nemesi di un passato che riaffiora, visto che scopriremo che i due ragazzi in procinto di coronare il loro “sogno d’amore” (in realtà poco sogno e con ancor meno amore) sono figli di genitori – la madre di lei, il padre di lui – che quel sogno coltivarono autenticamente anni addietro e tristemente dovettero rinunciarvi a causa di quelle stesse convenzioni, all’epoca d’ostacolo, e che all’oggi consentono invece ai figli di convolare a nozze con la benedizione di tutti.
C’è una concezione eminentemente materiale che fa sì che venga fugato ogni dubbio residuale (perché “la caparra sta data” e perché il pensiero correrà rapidamente all’apertura delle “buste”) e le paturnie e le insicurezze sono destinate ad un dopo a cui non si pensa; c’è una concezione eminentemente materiale della vita e del menage che alla domanda “amore, ma tu mi ami?” induce a rispondere con uno svicolante “con tutte le cose che stano da fare!?”.
Perché il matrimonio è sentito come occasione sociale prima che come coronamento di un viaggio sentimentale; e ancor più si percepisce lo stridore di questa antinomia tra cuore e materialità quando Elio Colasanto e Alessia Garofalo – attori che regalano un’interpretazione decisamente efficace, convincente nel connotare un universo riconoscibile e ravvisabile all’intorno – indossando semplicemente una collana di perle e una catenina d’oro, cessano d’essere Sabino e Nunzia per diventare i rispettivi genitori, inaspriti dall’acribia del rimpianto e che coronano la loro simbiosi negata nella sublimazione di un bacio finale. Ed è da sottolineare la scelta di caratterizzare le difformi fasi dell’amore (o presunto tale) con versioni sempre mutate di All You Need Is Love dei Beatles.
Nella gioia e nel dolore regala un’ora scarsa di satira di costume e lo fa su una tematica fondamentalmente facile da mettere alla berlina, da esporre al dileggio di chi, da quel sostrato sociale ha preso idealmente le distanze (pur magari continuando a farne parte e a frequentarlo). Contromano Teatro effettua però un’operazione filologicamente interessante, perché di quello spaccato preso per farne racconto ridanciano offre una visione che sa di conoscenza diretta e di analisi approfondita. Di più: negli stilemi comici, nelle caratterizzazioni grottesche, nelle connotazioni tipologiche si può riscontrare tutto un milieu di vezzi e personaggi che, in certa televisione locale, hanno costituito uno specchio abbastanza fedele della società rappresentata: penso alla comicità tutta pugliese del duo Toti e Tata, di Gianni Colajemma, di Pupetta e le Battagliere, fenomeni di costume che hanno descritto una realtà “bassa” e plebea facendo leva su vizi e vezzi di un certo sostrato sociale. Contromano Teatro, a mio avviso, quella comicità l’ha conosciuta, molto probabilmente Elio Colasanto e Alessia Garofalo hanno visto passare in televisione quegli sketch, quella comicità di lana grossa destinata all’intrattenimento di un pubblico largo; ma Elio Colasanto e Alessia Garofalo – e qui risiede a mio modo di vedere il merito che rende Nella gioia e nel dolore un esperimento riuscito – di quella comicità che ha popolato il loro immaginario giovanile si servono per metterla al servizio di un’idea di teatro autonoma, la quale non rinuncia agli aspetti iperbolici e comici, ma li raffina, convogliandoli in una partitura che si eleva dal livello di semplice commedia per farsi invece satira strutturata.
Di presa facile e immediata, ma con lo spessore di uno spettacolo compiuto.

 

 

N.B.: su Nella gioia e nel dolore si veda anche: Alessandro Toppi, È da domani che ti voglioIl Pickwick, 4 giugno 2015

 

 

 

MutaVerso
Nella gioia e nel dolore

di e con Elio Colasanto, Alessia Garofalo
scene Riccardo Mastropasqua
luci Alessandro Grasso
consulenza musicale Michele Consueto
assistente Claudia Caradonna
produzione Contromano Teatro
lingua italiano, dialetto pugliese
durata 55’
Salerno, Piccolo Teatro del Giullare, 13 maggio 2016
in scena 13 maggio 2016 (data unica)

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