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Saturday, 21 May 2016 00:00

John e Joe: due attori, due uomini

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"Generalmente i critici pensano che la grande e
vera recitazione è quando l'attore rende conscio
il pubblico del fatto che sta recitando. In realtà
meno il pubblico si accorge che stai recitando e
più è grande la tua recitazione".
 (John Ford)

 

 

 

In John & Joe c'è un momento in cui termina la certezza che stai assistendo a uno spettacolo, seduto nella platea di un teatro, e ti scopri assuefatto all'idea che non hai di fronte che due uomini, seduti al tavolino di un bar. Questo momento non è calcolabile con nessun orologio (d'altronde non staresti di certo a controllare l'ora precisa in cui avviene) né sembra dovuto alla strategia del regista, alla trama dell'autrice, alla particolarità della scenografia o alla comodità della poltrona: semplicemente accade, con la stessa naturalezza con la quale senti il calore dell'acqua che – ad un certo punto – ti cinge tutto il corpo quando ti immergi lentamente in una vasca.

Varchi la soglia senza avvertire la soglia, dunque, percependo soltanto che qualcosa è cambiato e che – tutto quello che valeva prima – adesso non vale più o comunque non ha più la stessa importanza: sei in una condizione nuova e semplicemente te la godi. Prima c'era la sensazione dell'ennesima opera post-beckettiana, coi due clochard che stanno insieme senza neanche sapere il perché (fatto salvo che si vogliono bene), all'interno di uno spazio al quale ritornano perché non possono non ritornarvi, lì sopravvivendo l'uno all'altro mettendo in pratica l'inevitabile esercizio di sopravvivere innanzitutto a se stessi; prima c'è questo telo rosa pallido macchiato d'un verde muffa che fa da parete di fondo e da tappeto fino al proscenio, ci sono due sedie posizionate a favore di pubblico e c'è un tavolino con al centro conficcata una rosa finta, rigida e diritta come un ombrellone insabbiato; prima c'è la nascita del personaggio nel retro (ne sento i bassi tonali o i raschi di gola, il rumore che fa la scarpa battendo l'assito, i passi che compiono gli interpreti andando verso destra o sinistra), prima ci sono – ed è l'inizio dello spettacolo – l'accompagnamento introduttivo da music hall, le macchiette motorie (coi due che si inseguono e si incontrano tra pose innaturali, lentezza, gag fisiche), le prime battute:
“Che ci fai qui?”
“Io?”
“Sì...”
“Passeggio. E te?”
“Passeggio anch'io... potrem(m)o passeggiare insieme”.
“Potrem(m)o”.
Prima c'è tutto ciò che fa scrivere ai critici il solito articolo sul solito spettacolo che deriva dal solito immenso Samuel Beckett anche se porta la firma di Agota Kristof: la parodia dell'azione attraverso la parodia del teatro, la reclusione spaziale, l'inevitabilità dello stare assieme, la coesistenza tra il dramma e la sua messa in commedia, la relazione diretta con gli spettatori attraverso lo sguardo, una battuta o un movimento (esempio: Joe/Sergio Romano che avanza, saluta, finge di rovesciare un bicchiere inesistente per poi tornare al tavolino), la comicità che deriva dal fraintendimento dialogico, dal doppio senso dato a una parola, dall'errore lessicale che diventa espressione rivelatrice: “Io l'ho detto così, tanto per fare conservazione”, ad esempio, poiché i personaggi teatrali non possono che conservarsi facendo conversazione: tra loro e col pubblico. Prima c'è la clownerie dei due attori vestiti come due spaventapasseri, che danno l'idea di un disfacimento fisico presente o assai prossimo (John avrà la sua stessa difficoltà a urinare di Vladimiro? Joe puzzerà quanto Estragone? O si sentiranno entrambi “un vecchio straccio”, alla maniera di Hamm?) che giocando e cioè facendo “i nostri esercizi” (per citare ancora Estragone) – ovvero manifestando un comportamento normale in una condizione anormale così rendendolo un atto ridicolo (ad un punto i due vorrebbero fuggire dal bar senza pagare e si ritrovano a fare ginnastica) – hanno il compito di rendere in scena il lato (in)felice della (in)felicità, per cui due esseri umani con quattro spiccioli in tasca, una scarpa lucida ed una opaca ai piedi, un cappotto sfrangiato addosso o sulla testa sempre lo stesso cappello di lana riescono a trovare ancora buoni motivi per sopportare la condanna d'essere vivi: il caffè della mattina, il giornale, un bicchiere d'acqua del rubinetto, la grappa, la bustina di “succhero”, l'incontro con l'unico amico che mi è rimasto, lo sgranchirsi della gambe, una chiacchierata senza alcun senso e fatta col solo scopo di dimenticare il destino, questa giornata che per fortuna è trascorsa, un biglietto della lotteria che ho comprato e che tengo in un portafogli che è vuoto.

Di cosa ci parla John & Joe? Poiché il biglietto è vincente, poiché il biglietto viene sottratto dall'uno all'altro, poiché il denaro vinto col biglietto viene sperperato in abiti, scarpe, bevute e panini con prosciutto e mostarda, poiché biglietto e denaro diventano causa di ragionamento e conflitto tra i due clochard prima che facciano pace verrebbe da scrivere che John & Joe parla di caso, di fortuna e di economia, di come influisce il denaro sulle nostre esistenze, di quanto l'essere ricchi possa farci più poveri e di come la povertà possa non essere così povera, di cosa conta o dovrebbe contare davvero nella nostra esistenza: parla dei piccoli piaceri con cui nutriamo la secca piantina della quotidianità, parla di quant'è importante inventarsi una speranza e di come – compreso che l'abito non fa il monaco per cui un senzatetto con un "tranciotto" nuovo resta pur sempre un senzatetto – è meglio rinunciare a una borsa di pelle in cui, tra l'altro, non ho niente da mettere che all'unica amicizia che mi resta. Volendo potrei anche scrivere – visto che i due giocano con l'immateriale, che di continuo eseguono numeri da pagliacci (lo scambio d'abiti), che iniziano così come finiscono (compiendo gli stessi gesti, ritrovatisi nella stessa condizione) – che per metafora in John & Joe c'è anche il teatro che tradisce se stesso, il proprio fondamento e le proprie asserzioni, i propri vincoli ed i propri principi, nel momento in cui si trova a maneggiare un po' di cartamoneta per cui – invece che all'essenza della propria esistenza – dopo aver riempito la pancia (“ho mangiato lumache, carne, pesce, formaggio”) bada all'apparenza finalizzata solo all'apparenza: “Ho comprato camicie, cravatte, pantaloni, questa valigia” e un portafogli nuovo di zecca, di plastica, tutto colorato, che presto tornerà vuoto. Tuttavia già nello scriverlo mi sento come quei critici che – negli anni Cinquanta – recensendo Finale di partita vi assegnavano tutti i temi del mondo, vi vedevano espressi tutte le ragioni del mondo, notavano tutte le allusioni del mondo, i rimandi del mondo, i messaggi del mondo. “Quando si tratta di giornalisti” – scrisse non a caso Beckett ad Alan Schneider – “penso che l'unica linea da adottare sia quella di rifiutarsi di essere coinvolti in esegesi di alcun genere e insistere sulla estrema semplicità della situazione drammatica. Se ciò per loro non è sufficiente, ed evidentemente non lo è” – continua – “è sufficiente per noi; non abbiamo delucidazioni da dare su misteri che esistono solo nella loro immaginazione”. Infine: “Se la gente” – ossia quella strana razza di gente che sono i critici – “vuole scervellarsi con le sfumature, faccia pure. E diamogli anche un'aspirina. Hamm, così com'è presentato, e Clov, così com'è presentato, in tal posto e in tale modo” ed è tutto.
Dunque torno all’inizio dell’articolo e alla sensazione che, ad un certo punto, questi due attori – pur continuando ad essere evidenti tutti i segni della loro teatralità – smettano d’essere due che recitano la vita per sembrare due che la vita la vivono. Da cosa dipende? Non ho la risposta. Forse da una complicità che sembra appartenere al loro rapporto (il modo in cui si guardano o si toccano, la maniera nella quale l’uno parla all’altro, l’altro prende in giro l’uno); forse dal senso, calmo e forte assieme, dell’abitudine per cui – con lo scorrere dei minuti – comincio a provare affezione per quest’esteriorità difettosa, claudicante, fintamente misera, umanamente ricchissima; forse dalla naturalezza di gesti ed espressioni, che sembrano non votati a rendere due personaggi ma due esseri umani. La barba grigia e il sudore sulla fronte, la mano sinistra storpiata e la “s” strascicata, il movimento continuo delle pupille, i brividi alle guance e alla bocca quando viene bevuta la grappa, il dito portato alle labbra; il mutismo, una pausa, un momento di riflessione che serve a comprendere ciò che è davvero accaduto e l’inclinazione delle sopracciglia che cambia quando penso d’essere stato truffato, questo ridere strano che contraddistingue me e solo me, il ginocchio messo di sbieco, l’atto di farfugliare nell’orecchio, la mano tesa alla mano. C’è una lettera – e a questo punto non dev’essere un caso – che Valerio Binasco scrive un anno fa ai due interpreti, nella quale il regista affronta il tema della nonchalance attorale, della capacità cioè di irradiare dal palco alla platea una sensazione morbida di gioco, gioia e verità. Si tratta, a leggerla bene, di un inno al teatro nella sua dimensione più piacevole, si tratta di un invito a non viverlo – dall’interno – come una prova infernale ma come una circostanza felice e come un atto, una scelta o un momento di libertà. “La gioia è pura quando è immotivata” – scrive Binasco – “Quando è pura e semplice gioia di vivere. Che per un artista vuol dire – credo – pura e semplice voglia di giocare”. Così, “se poco prima di entrare in scena arriviamo a questa verità minima, questa verità senza pensiero che nasce da una scintilla di gioia di vivere, allora non sarà difficile compiere il prossimo passo” ovvero pensare e rivolgersi a un pubblico che non coincide più con gli spettatori presenti questa sera in platea ma col mondo intero giacché è col mondo che ogni essere umano è in rapporto quando vive: e allora, conclude Binasco, “si confondono le distanze, perché anche noi siamo il mondo. Siamo gente nel mondo. Noi sulla scena come loro seduti lì davanti”. Questo “esercizio di recitazione” che è John & Joe riesce, ad un punto, a mostrarmi non due uomini che fanno gli attori ma due attori che diventano due uomini. E non mi sembra poco.

C’è un ultimo appunto che mi viene da scrivere. Veniamo da decenni di metateatralità dichiarata, da quarte pareti inevitabilmente abbattute, da recitazioni tramutate in performance votate (anche) a mostrare il proprio procedimento. Un lessico di cui si espone ogni regola grammaticale che lo compone, un modo di stare in palcoscenico che ostenta energia impiegandola spesso per condividere tanto l’opera quanto la spiegazione tecnica dell’opera stessa. Attori frontali, al cospetto del pubblico; uso di microfoni all’asta; luci alte in platea. La recita della recita, recitata recitando. Il coinvolgimento strategico e strutturato degli spettatori, il mezzo che diventa messaggio. Come non fosse più possibile – o non fosse il caso – di starsene tra quattro pareti, finte e ideali, provando a rispecchiare un frammento d’esistenza nascondendoci tuttavia la maniera in cui si tenta di rispecchiarlo; come fossero scelte ormai non più fattibili la sottrazione dei segni o il loro adeguamento alla natura, la rinuncia all’invasività massmediale e tecnologica, la coniugazione del tempo presente in qualcosa di diverso dal ritmo accelerato e di maniera. Il Čechov con le telecamere e i maxischermi, certa ritualità che ormai ripete soltanto se stessa, i nipotini iperattivi di Artaud. Sarà che a me questi sembrano invece tempi molto lenti, tempi in cui si è definiti “giovani” troppo a lungo e in cui la vecchiaia si trascina decenni; sarà che il trambusto da cui siamo cinti non mi sembra trambusto vero ma soltanto confusione indotta, accumulo che ci viene propinato e che spesso serve a vendere qualche prodotto o a distogliere attenzione dalle poche cose concrete cui dovremmo badare; sarà per chissà quale altra ragione ma provo ancora sollievo nel rallentamento offerto ogni tanto da una certa recitazione che non calca, monta, aggiunge, esaspera, digrigna e sputa stando in proscenio ma che invece ha in sé – o sembra avere in sé – il ritmo variabilmente veritiero della vita, che sa porgere ancora una frase senza doverla campionare, che conosce l’importanza del vuoto o del silenzio e che il gesto lo incarna con una dinamica naturale ed è forse significativo che – pensando a questo, pensandoci adesso – i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di attori che non appartengono alla mia generazione: Scimone e Sframeli, ad esempio, cui il tempo ha marcato i segni del volto, ingrigito le tempie e come approfondito il suono ed il senso di ogni parola che hanno scritto o che adesso pronunciano; Vito Signorile, cui ho visto recentemente interpretare – prima che Bukowski – un uomo gonfio del proprio fallimento; Gianrico Tedeschi, che nel deludente Dipartita finale di Branciaroli, non può che andare al ritmo in cui gli consentono i suoi novantasette anni e che termina, ad ogni replica, mostrando occhiaie gonfiatesi e arrossatesi per la stanchezza della recita. In questi casi, dove finisce la vita e inizia il teatro? Ecco: attori cui l’età, l’esperienza o chissà cosa, ha ormai permesso – per citare ancora la lettera di Binasco – di “rimuovere ogni piccola tentazione di insicurezza, ogni minuscola ombra di sottomissione ai luoghi comuni” del nostro teatro e “ogni dipendenza dalle approvazioni della sala”; attori per i quali il palco non sembra essere più una vetrina, un avamposto o un trono di un regno momentaneo ma solo il posto nel quale sentirsi forse più liberi, forse più felici.  

 

 

 

 

John & Joe
di Agota Kristof
traduzione Pietro Faiella
regia Valerio Binasco
con Nicola Pannelli, Sergio Romano
assistente alla regia Aleph Viola
realizzazione scene Mario Fontanini
foto di scena Michele Lamanna
produzione Fondazione Teatro Due, Narramondo Teatro, Popular Shakespeare Kompany
lingua italiano
durata 1h 15'
Napoli, Nest – Napoli Est Teatro, 14 maggio 2016
in scena 13 e 14 maggio 2016

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