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Friday, 13 May 2016 00:00

Alla Scuola Elementare del Teatro

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Per me il teatro è il luogo della dignità, il
luogo nel quale difendere l'essere diverso.
(Eugenio Barba)

Napule 'O sole mio.
Napule carnale.
Napule vita mia.
Napule rinale.
(Mimmo Borrelli)

 

Ariele saltella da un punto all'altro della sala, simile a un'ape che passa di fiore in fiore, a un insetto che scivola da un filo d'erba a un altro filo d'erba. Entra quasi correndo – appena frenato dall'assistente che lo accompagna – si toglie in fretta le scarpe, si cambia con più fretta ancora i calzini e mentre si toglie di dosso il giubbotto, la felpa o il pullover, non distoglie mai gli occhi dal palco: lì dove i suoi compagni hanno già iniziato a lavorare. Ariele ha un fisico da nuotatore, è un cumulo d'entusiasmo e di energia muscolare e la sua pelle contiene a stento una riserva di frenesia e di voglia di fare che mi sembra sia inesauribile. Non riesce a stare fermo e così – quando Davide Iodice impone la stasi, durante un esercizio – lui batte di continuo il piede, muove la testa in avanti oppure agita la mano o – ancora – insegue, calpesta, rimarca, si tiene in bilico e poi supera le linee delle mattonelle che pavimentano la sala: simile in questo a un equilibrista che è incapace di rinunciare al suo gioco.

Ariele saluta tutti, ripetutamente. Bacia sulla guancia, dà il cinque, abbraccia e ribacia, dà di nuovo il cinque poi torna a saltare. Qualche volta ha salutato anche me, l'estraneo che se ne sta da alcuni mesi in un angolo, seduto, a prendere appunti. Una mattina, mentre tutti gli altri procedevano a schiera, Ariele ha deciso che era il momento di rotolare e così, figura orizzontale – simile a un tronco incontrato sul proprio cammino da un gruppo di viandanti – dopo aver rotolato s'è posto immobile, imperterrito, sorridente, disteso finché Iodice non gli ha fatto comprendere che faceva parte – che doveva far parte – del gruppo in cammino: diverso e identico agli altri, che si mettesse in schiera, fianco a fianco, prendendo il giusto ritmo. “Ariele alzati, forza!”.
Tommaso invece “sembra un ballerino della compagnia di Pina Bausch”. Rigoroso, severo, silente, Tommaso arriva facendo pendere dall'avambraccio sinistro lo zaino; attraversa la sala, saluta chi incontra ma senza imporsi di dover rendere per forza un gesto a tutti, sale in assito, lo passa e s'infila nel retropalco, lì dove si cambia. Esce e – ancora più rigoroso, severo, silente – partecipa agli esercizi. Tommaso indossa una tuta blu e rossa di cui si libera raramente, comprende in un attimo cosa deve fare e come deve farlo, rimane qualche volta impiantato sul posto e sembra riflettere su quale sia il prossimo gesto da compiere, il nuovo sforzo da affrontare. Mi piace seguirlo con lo sguardo nei momenti di pausa, tra una prova e una prova: quand'è stanco e si mette di sbieco rispetto alla fila; quando il suo mutismo diventa osservazione generale e insistita; quando cammina rasentando i muri della stanza o la parete di fondo del palco. Quando corre – ovvero quando un esercizio prevede l'atto disciplinato ma anarchico di fiondarsi nello spazio – il suo volto muta: appare più netto il sorriso mentre le sopracciglia (di solito inarcate come fosse imbronciato) tendono a curvarsi dolcemente e – agitando i palmi, scuotendo le spalle, facendo andare gambe che sembrano rigide quanto quelle di un Pinocchio carnale – dice di continuo “ciù ciù”: come avesse davanti una bella ragazza di cui richiamare l'attenzione. “Ciù ciù”, “ciù ciù”, “ciù ciù” mentre osserva i compagni o guarda nel vuoto. È, questa, una delle sue stereotipie.
“I ragazzi affetti da autismo” – mi spiega Davide Iodice – “hanno difficoltà a seguire una sequenza, a rimanere dentro un ritmo e un ordine, a rispettare una partitura fisica o vocale. Per loro la laboratorialità teatrale, che prevede l'esecuzione di esercizi precisi, è dunque fondamentale. Si tratta di uno sforzo notevole, di una difficoltà cui vanno incontro ogni volta e che, ogni volta, devono tentare faticosamente di affrontare”. “Per questo” − continua − “non solo svolgono gli esercizi assieme al resto del gruppo, fatto di attori ed attrici formati o in formazione: a loro tocca talvolta fare il caffè (manualità coordinata) e prepararsi lo zaino (responsabilità individuale), a loro tocca talora aiutare nell'organizzazione della sala e nello spostamento di un suo arredo (partecipazione paritaria)”.
C'è sole fuori e penetra dalle grandi finestre laterali. Questo sole imbianca rendendo ancora più pallido il volto di Tommaso. Il suo respiro è affrettato, lo zaino è richiuso, indosso ha la solita tuta blu e rossa. Senza scomporsi ha rifatto il cammino al contrario: è uscito dal retropalco, ha traversato l'assito, passato la sala, salutato Davide Iodice, poi si è fermato esattamente in questo sole che oggi riscalda con maggiore insistenza un lembo della sala. Fermo sul posto apre lo zaino, prende il panino, lo addenta, mastica, poi sorride, dà un ultimo sguardo al palcoscenico, si volta e prosegue. Da solo va poiché da solo è venuto.
Ariele invece necessita che qualcuno gli dica “basta” perché altrimenti andrebbe avanti per l'intera giornata. In questo simile a un bambino alle giostre, occorre spesso richiamarlo, spiegargli che davvero è finito il lavoro, convincerlo che non ci sarà altro teatro in questo teatro ubicato al terzo piano de L'Asilo. Non si fida. Vuole controllare, verificare che anche gli altri siano in pausa, qualche volta fa le bizze ma alla fine cede: calzini, scarpe, pullover, felpa o giubbotto. Si torna a casa. Prima di andare fa ancora in tempo a ripetere una domanda che uso per terminare questa prima parte d'articolo; la domanda che replica decine di volte, la domanda che ti fa non appena ti incontra, la domanda da cui non attende risposta ma che ti costringe ugualmente a rispondergli: “Sei felice?”.

Nel Documento di Resoconto Generale redatto a seguito delle Giornate per la Cultura (serie di incontri e di tavoli collettivi voluti dall'allora assessore Antonella Di Nocera e tenutisi al Convento di San Domenico Maggiore nell'aprile 2013) leggo che tra le urgenze di questa città viene indicata  la nascita di “un Centro di Formazione delle Arti Sceniche, interdisciplinare e modulato” ovvero un luogo, citando Leo de Berardinis, “per la ricerca sullo studio dei linguaggi non solo teatrali ma sull'arte dal vivo in generale, che possa tendere a riunire le varie arti sceniche, un luogo che rilanci il teatro e la cultura non come mezzi di Potere o di consenso, o come sottoprodotti, ma come necessità primaria in un contesto di rinnovato stato sociale, un centro di aggregazione e di confronto sulla cultura teatrale”. Sfoglio ancora il documento e scopro che tra le necessità impellenti c'è quella di individuare e concedere “strutture da destinare alle prove, ai laboratori, alle produzioni”; continuo a leggere e mi salta agli occhi la frase “c'è fame di spazi” e l'associo ad un'altra frase − “il bisogno di una formazione continua” − che leggo nella pagina seguente dello stesso documento. Volendo fare un salto indietro torno al resoconto redatto nel 2012 dall'Assemblea Permanente sulle Arti della Scena riunitasi al PAN e, al paragrafo dedicato alla “Riconsiderazione della formazione dell'artista”, leggo che “la formazione professionale pubblica degli artisti e dei tecnici deve intrecciare le conoscenze, i saperi, gli insegnamenti, deve essere multidisciplinare e gli allievi devono poter sedimentare una molteplicità di esperienze didattiche eterogenee”; deve “inoltre sfuggire a logiche verticistiche di qualsiasi genere e a impronte monocratiche”: “Una Scuola Pubblica di Teatro” − così termina il paragrafo − “deve perciò essere concepita come un laboratorio permanente”.
Ebbene.
A Napoli non sono presenti centri pubblici di pedagogia teatrale; a Napoli non viene attuata alcuna politica istituzionale di residenza per cui risulta raro il confronto/conoscenza tra i teatranti cittadini e i loro colleghi nazionali e stranieri; a Napoli gli spazi potenziali per la cultura sono spesso occasioni perse, progetti irrealizzati (Teatri di Napoli) o carcasse ammuffite (esempio: l'Auditorium di Scampia); a Napoli né lo Stabile né il Real Teatro San Carlo organizzano e coordinano in maniera continuativa “seminari e workshop con registi, drammaturghi, attori, danzatori, scenografi, musicisti per la scena” per supportare e “sostenere il percorso creativo, tecnico e professionale” dei più giovani tra i teatranti partenopei (torno al documento del 2013); a Napoli otto edizioni di uno tra i più cari Festival nazionali non hanno neanche minimamente contribuito alla realizzazione di politiche di residenza creativa e di trasmissione del sapere né hanno aiutato – ad esempio – la nascita di una “Scuola pubblica delle Arti e dei Mestieri dello Spettacolo” cui “si acceda per concorso” e che dia finalmente “alla Campania un polo di eccellenza, al momento assente nel Mezzogiorno”; a Napoli il percorso verso la professionalità è un itinerario di fatto autodidattico, spesso accidentale e momentaneo e svolto in solitudine e senza l'ausilio di strumenti che permettano quanto meno di orientarsi rispetto a un'offerta laboratoriale e seminariale confusa, che fa dell'autocertificazione lo strumento con cui garantisce, di volta in volta e di caso in caso, la propria qualità professionale.
A Napoli non esiste insomma una politica culturale integrata e strutturale e, dunque, non esiste neanche una politica che riguardi la formazione artistico-lavorativa: dove può studiare un attore qui a Napoli? Quali scelte ha concretamente a disposizione? Come può integrare, rafforzare e migliorare le proprie capacità? Quanti (veri) Maestri del Teatro nazionale e internazionale può sperare di incontrare, così diversificando il proprio sapere? E se non possiede mezzi economici sufficienti per pagare laboratori, seminari e scuole, quanto le istituzioni pubbliche possono sopperire alla sua povertà così garantendogli il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione e ribadito dallo Statuto Sociale Europeo degli Artisti? E infine mi chiedo: nelle condizioni di partenza di un suo collega romano o milanese quanto è materialmente sfavorito un giovane attore o danzatore, una giovane attrice o danzatrice, qui a Napoli? Basta scorrere gli elenchi degli ammessi o degli iscritti a una qualsiasi Accademia di Milano o di Roma per accorgersi di quanto sia sempre più assidua e costante l'emigrazione teatro-culturale e dunque l'abbandono di un contesto d'origine che, non consentendo di studiare in maniera adeguata, non consente di crescere, di migliorare nel tempo, di affermare se stessi; basta aver fatto parte di giurie di premi dedicati alla vocazione attorale o essere stato presente alle audizioni (come a me è capitato) per rendersi conto di quanta giovane potenzialità venga sprecata qui a Napoli, di quanta immaturità venga lasciata appassire senza essere stata coltivata come si sarebbe potuto, come si sarebbe dovuto, come sarebbe stato possibile e necessario.

“Il mio sogno è che la Scuola Elementare del Teatro diventi un'officina alla maniera dei Conservatori Popolari che, negli anni Settanta, hanno consentito a un'intera generazione di accedere alla conoscenza e alla competenza musicale” mi dice Davide Iodice. “Sogno” – ribadisce questo temine – “che venga riconosciuto il lavoro che da tre anni qui è stato svolto e che venga quindi supportata dalle istituzioni un'esperienza concreta che sta dando, a quaranta tra ragazzi e ragazze, la possibilità di studiare per studiare: non in seguito alle imposizioni quantitative di un decreto ministeriale, non in vista di un saggio cui far assistere genitori plaudenti e paganti, non per uno spettacolo da produrre e distribuire nei circuiti della Campania”. “Sogno” – per la terza volta inizia la frase con lo stesso verbo – “una Scuola che abbia più insegnanti, sogno più borse di studio da concedere agli allievi che hanno problemi economici o che soffrono condizioni familiari problematiche, sogno un luogo e una possibilità formativa che sia in grado di accogliere, di rispettare e di valorizzare le differenze integrando la problematicità fisica o intellettiva all'interno di un gruppo di teatranti in formazione, generando un rapporto di conoscenza, di relazione, di reciproco sostegno che si determina concretamente attraverso il lavoro e la prassi artistica”. “Continuo a immaginare”, leggo lo scritto di Iodice contenuto nel report della Scuola, come possibile “un luogo-laboratorio della ri-creazione in cui la natura di ogni attore/persona” – la sua vita – “venga smontata e rimontata all'infinito, non come un mero esercizio tecnico e quindi vuoto ma come un solfeggio ostinato e vivo che lentamente si fa musica” e nel quale “circuitino intorno al nucleo centrale”, formato dagli attori e dalle attrici, “poeti, drammaturghi, artisti visivi, musicisti, gruppi già attivi” così da innescare “un processo di formazione reciproca e di autoformazione permanente”: un luogo in cui “la pluralità delle grammatiche sia orientamento fondante”; un luogo in cui mettere in pratica “riscrittura e creazione originaria, visionarietà e testimonianza, narrazione e biografia”; un luogo radicato nel territorio di appartenenza e che, mentre da questo territorio è nutrito perché sono i suoi figli ad abitarlo, questo stesso territorio lo nutre generando e dispensando poetiche, capacità, narrazioni, bellezza.
Da tre anni Davide Iodice conduce la Scuola Elementare del Teatro; coadiuvato nel training da Chiara Alborino e Lia-Gusein Zadé, ha strutturato un percorso formativo che nel primo anno ha riguardato l'individuo, nel secondo ha prodotto la determinazione di piccoli gruppi interni e che, nel terzo, s'è fatto lavoro totalmente collettivo. Ricerca sonora e visiva, interrogazione ed evocazione del personaggio, improvvisazione e relazione con l'imprevisto, montaggio e smontaggio dell'azione ed ancora: la disciplina della forma fissa e il suo superamento, l'oggetto come estensione ed ostentazione di “qualcos'altro”, la costruzione di una sequenza e la sua variazione, l'uso consapevole del corpo e d'ogni suo muscolo, la realizzazione di figure/emblema si fondono all'emersione di necessità e temi espressivi personali, alla lettura e alla capacità di comprensione del testo, alla scrittura scenica come pratica compositiva dell'attore, all'autorialità drammaturgica, alla realizzazione scenografica, alla conoscenza dei meccanismi organizzativi imposti dal sistema e dall'organizzazione teatrale. Due volte a settimana, dalle cinque alle sei ore per un totale di millecento ore complessive in tre anni, con il sostegno − “diecimila euro” − di Forgat Onlus, che ne ha dunque consentito lo start up e la continuità pluriennale (“i diecimila euro sono diventati assicurazione e borse di studio per gli allievi, strumento per l'acquisto di piccoli oggetti utili al laboratorio, mezzo con cui microfinanziare le attività teatrali extrascolastiche”) e con l'ospitalità garantita da L'Asilo e dal suo teatro; chiedo a Iodice quanto servirebbe perché tutto questo possa continuare, così diventando una delle espressioni possibili di quella Scuola Pubblica delle Arti e dei Mestieri dello Spettacolo che Napoli non ha mai avuto e lui, sorridendomi, mi risponde: “Settantamila euro l'anno, più o meno, per tre corsi da quaranta allievi ciascuno, svolti in contemporanea e in grado di usufruire della presenza di più insegnanti regolarmente retribuiti, di ospitalità in grado di arricchire, variare e approfondire ulteriormente la formazione, garantendo anche un sostegno economico ai partecipanti con più disagi”.
Settantamila euro per centoventi studenti. Ripenso così ai soldi che il Comune di Napoli ha impiegato per i concerti-evento a Piazza Plebiscito, al disavanzo messo a bilancio per certe manifestazioni ospitate sul lungomare, alla disseminazione a pioggia di contributi donati ad un associazionismo para-teatrale per rassegne estive prive di qualità effettiva; ripenso agli oltre quaranta milioni di euro di fondi europei che, nel corso degli anni, hanno consentito al Napoli Teatro Festival di esistere senza tuttavia “lasciare nulla sul territorio” (Giuliana Ciancio); ripenso tanto ai costi abnormi delle co-produzioni festivaliere quanto alle regie smisurate e tecnologicamente ricchissime firmate dai vari direttori che si sono succeduti alla guida dello Stabile, ripenso alle ospitate straniere sbrigative e inicidenti, che sono state spettacolo per un'élite momentanea e che si sono dissolte dopo un paio di serate.

“Io qui sto bene. Venire e tentare di creare mi fa stare bene” (Elena). “Ho capito l'importanza della relazione con l'altro ma anche quanto sia liberatorio far parte di un gruppo, all'interno del quale sparire – far sparire il mio ego – per provare a diventare ciò che non sono mai stato” (Michele). “È proprio in questo luogo che ho trovato la mia forza, che ho preso coscienza del fatto di essere capace di fare ed è come se fossi rinata: sì, posso tentare, posso riuscirci” (Angela). “Ho lavorato sulla figura come non avevo mai fatto prima ed ho imparato – nessuno me lo aveva mai detto – che il concetto in teatro non si enuncia: si incarna” (Pasquale). “Mi sono sentita invisibile ed ho smesso così di giudicarmi” (Nora). “Mi sono abituato a non sapere cosa accadrà e adesso riesco a relazionarmi con l'imprevisto” (Fabio). “Ciò che mi accade qui lo porto con me per il resto del giorno, per l'intera settimana: il lavoro mi segue, cambia il mio contatto col resto, muta la maniera nella quale mi confronto con l'esterno. E adesso ho paura di perdere tutto” (Monica). “Mi piace questo tempo sospeso nel fare, che fuori da qui non esiste. Mi piace questa dimensione a-parte dal mondo nella quale ho la possibilità di conoscere me stessa e i compagni, i miei e gli altrui limiti, le mie difficoltà, quelle degli altri” (Ilaria). "Ch'aggia dicere?" (Damiano). “La scrittura scenica, senza dubbio: quello che ho capito è che un attore, anche quando è guidato da un regista, può comporre in scena” (Caterina). “Mi piace studiare ed ho scoperto l'importanza di cercare, strutturare e mettere in pratica un proprio metodo. Lo studio, sì... l'importanza dello studio” (Veronica). “Senti invece di pensare! Chi la dimentica più questa frase?” (Lorenzo). “Vivere il teatro in una maniera differente: più umana e sociale, diversamente politica” (Tonia). “Prima vedevo e vivevo molto l'aspetto fisico e la mia malattia ma adesso quando sono in scena – quando sono qui – la malattia non c'è o sembra non esserci. Nella vita posso e potrò avere anche dei limiti, non m'importa, ma in scena questi limiti non voglio sentirli, non devono esserci” (Sefora).

“Non si può pensare un teatro senza sapere cosa teatro non è ma l'alimenta. Molte volte il laboratorio è stato visto come il luogo dove si elaborano particolari tecniche per realizzare spettacoli singolari; di questi non ne abbiamo bisogno. Il laboratorio, per me, è un luogo della mente e del corpo. È un modo per arrivare ai propri bisogni primari.  È dove si creano le condizioni vitali per la ricerca. I modi, i tempi e il luogo devono essere trovati ogni volta, come se si cercassero le cose essenziali per la vita. Ogni volta va scelta l'organizzazione adeguata e la sua disciplina. La produttività non esiste in questo campo. Il laboratorio deve praticare zone aperte, liberate”.
(Antonio Neiwiller)

Per tre anni la Scuola Elementare del Teatro è stato un incubatore di necessità e di voglie; ha raccolto – per tre anni – il bisogno di imparare ad imparare che è alla base di ogni miglioramento di sé ma è stata anche un utero protettivo, una guaina (“è come stare in una bolla” dice Monica) che ha avvolto e tutelato questi giovani dagli scricchiolii o dai crolli di un sistema teatrale finanziato che sempre più sembra prossimo al collasso particolare e generale. Permettendogli di non avere fretta, consentendogli l'esperienza essenziale dell'errore, liberandoli dalla scadenza contrattualizzata del dover fare presto e di continuo spettacolo per produrre borderò e cumulare (reali o fittizie) giornate lavorative, la Scuola ha consentito di godere del tempo lento della riflessione, della ricerca, del confronto e della scoperta. Se adesso ripenso ai mesi che ho trascorso standomene sul confine – seduto di lato o sul fondo – non mi vengono in mente i frammenti di testi che sono stati letti, ripetuti o recitati né mi viene di descrivere a chi mi legge quei lembi di messinscene che mi sembravano già pronti per il palco ma che il palco non lo vedranno mai; ricordo invece e quindi mi sembra giusto qui scrivere di quando ho saputo che Francesco ha un taccuino su cui segna tutti i pensieri che non dice, di quando ho visto Angela emozionarsi per aver vinto la borsa di studio annuale, di quando Sefora – stanca per gli esercizi compiuti – si è seduta ad osservare i compagni, iniziando a prendere appunti o della volta in cui ho visto Monica piangere tra le scale, ad esercizio terminato, emotivamente travolta da quello che era appena accaduto. La paura della morte, il dolore di un tradimento, una persona perduta, la vergogna per il proprio corpo o di una sua parte, la voglia di vendetta, l'incomunicabilità coi genitori, il timore di non farcela, la sensazione di inettitudine, il peso della propria unicità, il bisogno di dimenticare se stessi e l'età vissuta come una condanna, il cosa farò domani, l'incertezza di poter davvero fare di questa passione il proprio futuro: la vita che ho visto d'improvviso eruttare come lava dalla terra e che si è manifestata attraverso la fatica, il sudore, la stanchezza, i volti accaldati, gli occhi chiusi, l'esercizio svolto e subito, un'improvvisazione, il gioco, il dolore alla schiena o alle braccia, l'incontro e lo scontro, il contatto continuo, la continua sollecitazione di sé.
La vita, ecco in fondo ciò che mi resta, di quattro mesi di osservazione teatrale.

Nel giorno in cui viene pubblicato questo articolo la Scuola Elementare del Teatro termina. Incapaci le istituzioni (e chi le rappresenta) di accorgersi realmente della sua esistenza; incapaci fino ad ora le strutture che vivono di finanziamenti europei e regionali (il Teatro Nazionale, il Napoli Teatro Festival Italia, il Teatro Pubblico Campano) di prendersene carico, di stabilire un vincolo continuo e collaborativo o d'impegnare parte delle proprie ingenti risorse per renderla un'opportunità stabilizzata, una possibilità offerta alla presente e alla prossima generazione teatrale. “In questa città nulla è duraturo ed ogni volta ci ritroviamo a contemplare gli sforzi svolti in passato, ricordando ciò che poteva essere e non è stato” mi dice Davide Iodice, non riuscendo ad evitare una smorfia di rabbia e dolore. Poggia la mano sul mento, come per trattenere parole ulteriori, osserva gli allievi impegnati nel training poi volta il viso e guarda fuori, a lungo, forse pensando in che modo poter – nonostante tutto e a dispetto di troppi – far continuare un'esperienza che non merita la mortificazione del silenzio e del disinteresse, l'omertà dell'inazione o del rimando, la parola fine.

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