“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 16 April 2016 00:00

Dalla morte alla vita, attraverso l'arte

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Scrive Alfonso Berardinelli che il pensiero filosofico di Simone Weil “non viene da Hegel né rimanda a Nietzsche; fa totalmente a meno di Freud anche quando parla di psicologia, di passioni e di desideri; non tiene conto né del Tractatus di Wittegenstein né di Essere e tempo di Heidegger; non ha niente a che fare né con il Surrealismo né con altre avanguardie”. “Le sue riflessioni politiche” – continua – “non escludono l'esperienza religiosa” e “il suo ateismo intellettuale non nega la possibilità di concepire Dio, se davvero se ne è capaci, cioè se si è in grado di convivere con una certezza religiosa in un mondo costruito sull'assenza di Dio e la cancellazione del sacro”. Simone Weil amò Marx ma scrisse delle contraddizioni del marxismo, fece suo il cristianesimo ma intese il cristianesimo in maniera anti-dottrinale; Simone Weil fu saggista ed autrice, poetessa, sindacalista, a suo modo teologa, fu scrittrice politica: tutto assieme, tutto contenuto in un corpo magrissimo, che potevi tenere tra le braccia senza neanche accorgertene.

Per decenni gli studiosi, gli intellettuali e i docenti universitari hanno tentato di distinguere Simone da Simone, di separarne parti da se stessa, privilegiando ora questo volume, ora questa riflessione, adesso questo pensiero, adesso questa pagina e questa frase, questa definizione, l'uso specifico di questa parola. Esercizio inutile perché Simone, che nelle foto che ci sono rimaste sorride mettendo in evidenza lievi pieghe sotto gli occhi oppure osserva di lato, guardando ben oltre i suoi occhiali rotondi, è ad un tempo rivoluzionaria e moralista, religiosa e politica, mistica e marxista, cristiana e antidogmatica e lo è senza prestabilirlo teoricamente ma semplicemente respirando, riflettendo e vivendo. Simone ha compreso – prima di ogni altro – il deperimento dei partiti politici a una nicchia di chierici, non in grado di rappresentare altri che se medesimi; ha anticipato l'avvento del nazismo e il contributo – attraverso la frammentazione ideologica – che le sinistre europee hanno concesso all'affermazione di Hitler; ha postulato e messo in pratica l'esercizio della cura missionaria realizzata poi da Madre Teresa di Calcutta, cioè quel prendersi cura degli infermi che non avevano altra speranza che l'andare il più dolcemente possibile incontro alla morte; ha – in una trentina di pagine, analizzando l'Iliade – offerto una delle più brutali e veritiere descrizioni di come l'arbitrio della forza muta l'uomo nei riguardi dell'uomo ed ha compiuto tutto questo sentendo la stessa intima urgenza di quando ha deciso di recarsi in Spagna e di combattere il fascismo franchista, imbracciando un fucile che non avrebbe mai usato, avendo comunque deciso fin dal principio che non avrebbe sparato a un altro essere umano. Così gli studiosi di filosofia e di letteratura, di teologia e di storia dei partiti politici – che si infastidiscono della sua asistemicità, perché questa donna “non si sa mai come prenderla”, per citare ancora Berardinelli – si rassegnino: c'è chi è riuscito a vivere e interpretare il proprio tempo facendone parte pienamente, non chiudendosi nella torre d'avorio del proprio studio ma ponendosi invece al centro della realtà e non rinunciando mai a far convivere, nella stessa giornata, la riflessione con l'atto di dare o ricevere una carezza, la scrittura con il tragitto di un viaggio, l'approfondimento con l'acqua bollente di una pentola, l'osservazione con la mano che si allunga a stringere un'altra mano. Così nella prima parte di questo articolo potrei citare frammenti di Per la soppressione dei partiti politici, Sulla Germania totalitaria, La condizione operaia, L'Iliade poema della forza o La persona e il sacro, Lettera a un religioso, La prima radice (frammenti che compongono la drammaturgia testuale dello spettacolo) e – contemporaneamente – posso accennare al fatto che mangiava pochissimo, che cedeva la sua paga di insegnante facendosi bastare il salario di un operaio, che si ustionò una caviglia (fino a rischiarne l'amputazione) mentre lavorava “come sguattera” nella resistenza, che frequentò la mensa degli operai e che trascorreva la notte a scrivere – chiudendo la luce quando sentiva i passi dei genitori, per poi riaccenderla subito dopo – e che scrivendo finì: con una penna in una mano, un foglio nell'altra, si addormentò infatti cadendo in coma, il giorno prima di morire.
“Simone Weil mi ha cambiato la vita”, dichiarò un giorno Elsa Morante. Ebbene “Simone Weil mi ha cambiato la vita” dice César Brie, nel foyer del Nostos a spettacolo terminato, “e me l'ha cambiata” − aggiunge − “perché, a me che sono ateo e socialista e che ho sempre avuto un contenzioso con la religione, ha fatto riscoprire il valore profondo e straziante della pietà cristiana” che fu la ragione per la quale, prendendosi cura degli altri, Simone sentì il bisogno di alzare lo sguardo verso il cielo. Questa donna che fu fatta di parole, e che l'uso delle parole mise in pratica con un'ostinazione e un'urgenza forse senza pari, fu anche la bambina di nove anni premiata come la migliore della classe; fu l'adolescente che adottò un soldato di guerra, inviandogli lo zucchero e la cioccolata; fu la ragazza dagli occhi nerissimi, che non voleva essere né toccata né abbracciata; fu la curiosa che guardava le stelle senza aver studiato l'astronomia – per vederle “come le vedevano i greci” − e  fu la lettrice ugualmente appassionata del Vangelo e delle favole dei Grimm; fu l'attrice che, nel salotto di casa, giocava col fratello al Cyrano, recitandone il testo fino a sbagliare; fu la donna “tutta da rifare”, in preda ad improvvise crisi esistenziali e fu la maestra, la giornalista, l'operaia metallurgica, la donatrice che “regala ciò che neanche possiede”: fu l'infermiera che come una mistica si aggira tra gli oppressi, i diseredati, gli ammalati ed i feriti. Abitata “da un dolore” localizzato nel “punto di congiunzione tra l'anima ed il corpo”, incapace di badare a se stessa tanto era presa ad occuparsi degli altri e della storia collettiva e delle sue pagine, César Brie decide di farne memoria “cercando di costruire un viaggio” fatto di immagini, di “azioni e di pensieri”.

Quattro materassi – rimando agli ospedali in cui Simone trascorse la parte finale della sua vita – di cui uno composto da bende annerite: Catia Caramia durante lo spettacolo prima vi immergerà il corpo, quasi a farlo sparire (il deperimento fisico di Simone, che dimagrisce facendosi sottile come una sfoglia) e poi lo trapassa, rappresentandone così la morte. Nell'angolo posteriore una sedia mentre – distesi in proscenio – ci sono due cappotti: buoni per vestire e dunque far apparire qualche comparsa della vicenda che viene narrata (un ufficiale tedesco, ad esempio, o padre Perrin, che divenne confidente della Weil). L'attrezzatura di corde e di ganci, per i momenti in cui César Brie dovrà volare, sfiorando col petto il palcoscenico, rimandando ai contenuti dell'Iliade e – sul fondo – la parete scura che fa da lavagna, sulla quale disegnare di volta in volta ciò che sembra una porta e diventa una lapide, due sagome umane, le stelle. Un secchio, uno straccio, una benda, due tazze di latta vagamente arrugginite. Una scopa che diventa un fucile per poi farsi stampella. Due attori.
C'è, in questa composizione, il teatro di César Brie: la povertà della scena, “che chiede di essere spoglia” il più possibile non per ragioni di pauperismo artistico fine a se stesso ma perché anche “la terra per l'uomo è un luogo vuoto”; il cromatismo (qui il contrasto bianco/nero) che dà risalto ai corpi e centralità alle parole, richiamando anche l'atto del ricordo ovvero il buio della memoria nella quale avanzano gli spettri chiamati ad abitarla; il riutilizzo degli oggetti, per cui la benda diventa una lettera – ne intravedo in controluce le frasi che vi sono scritte – prima di tornare benda; la cura della percezione acustica: lo straccio, imbevuto e lanciato contro la parete, a rendere il rumore dello sparo. C'è il teatro che rimane teatro, “senza fingere che c'è un mondo reale sulla scena” come scrisse Brie nella sua Autobiografia, e c'è la cura nella relazione tra i corpi e lo spazio (i movimenti in diagonale o verticale), c'è la composizione per quadri successivi, c'è l'oggetto, dietro cui si celano e attraverso cui si svelano concetti, simboli e idee, c'è che “ogni cosa si risolve in una forma, semplicemente perché è così che si rapprende”: “come costruisco la metafora” ovvero come cerco e rendo “l'immagine, attraverso cui riesco a mostrare il reale che non si vede?”, questa è la domanda che César Brie si è posto e da cui nasce La volontà ed allora cito a beneficio di chi mi legge due esempi così da condividere con voi ciò che ho visto.
Il primo. Sul fondo ci sono due sagome disegnate con il gesso: sono Mejerchol'd e Isaak Babel', imprigionati dallo stesso regime, reclusi nella stessa cella, messi allo stesso muro, uccisi dallo stesso plotone: a sei giorni di distanza. Contro queste due sagome, trascorsi pochi secondi – mentre la Weil di Catia Caramia ne racconta l'omicidio – César Brie scaglia lo straccio bagnato: all'altezza del collo, cancellandolo con un colpo, così decapitando le figure. Non basta: l'acqua rimasta sulla parete inizia a scorrere, non solo eliminando fisicamente la presenza delle due sagome dalla parete e dunque dal mondo ma dando anche la sensazione che quest'acqua, ora impastata con il gesso, sia il sangue che cola sulla pelle: il sangue che viene da un corpo che è stato appena trivellato e che, diritto al muro, lentamente si accascia a terra.
Il secondo. César Brie interpreta, ad un punto, Joë Bousquet ma Joë Bousquet quando Simone Weil gli scrive la sua prima lettera è invalido, fermo in un letto, col corpo che gli è diventato un ammasso di carne immobile; “è tutto peso” dice Brie e “dunque ho pensato al suo contrario: ho pensato al volo dei suoi pensieri, alla leggerezza della sua anima, in contrasto a una carcassa che rimane statica” ed è così che – imbragato a mezza altezza – il suo Bousquet se ne sta tra le braccia di Simone come un Cristo deposto giace, lieve in apparenza come piuma, sul petto di una Vergine.
La scrittura di una lettera, che viaggia dalle labbra di una donna alle mani di un uomo mettendoli in contatto, diventa un filo rosso di cotone; le parole della Weil, scritte su una benda di cotone imbevuta d'acqua e deposta sopra gli occhi diventano un nuovo modo di guardare; la serialità della catena di montaggio diventa il montaggio seriale di una partitura di micro-azioni fisiche. Questa continua trasfigurazione, per cui la forma passa dall'informe e prende un'altra forma, è forse l'essenza del lavoro che ho visto al Nostos: due attori che riescono – cito le parole che Brie usò nelle sue Riflessioni lirico-pratiche – a farsi interpreti “nell'antico senso della parola” diventando “mediatori di un mistero, ombra di illuminazioni che vengono dalla vita e dalle morti” (quella della Weil, quella di chi se ne fa carico in scena) nel tentativo di segnare “il passo della nostra esistenza”. L'attore – scrive d'altronde ancora Brie – “testimonia a un tempo arte, morte e vita. La vita che ricorda, la morte che la attraversa, l'arte che rivela entrambe”. Ecco, non riesco a trovare una forma migliore per dire de La volontà.
Alla base dello spettacolo infatti c'è la morte di Simone (“mi recai alla sua tomba, per renderle omaggio”) ma c'è anche la fine di un uomo – uno “C.M.” misterioso, di cui non si è scoperta ancora l'identità –  la cui lapide colpì Brie al cimitero per le parole che portava incise sopra: “La mia solitudine / l'altrui dolore / ghermiva / fino alla morte”. C.M. diventa Carlo Manfredi, inventato infermiere che accudisce la Weil negli ultimi suoi giorni e che fa da narratore interno allo spettacolo, stando in bilico tra l'allora e l'adesso, tra il presente (“Simone, devi mangiare”) ed il passato (“credeva nel bene”) mentre le parole della lapide rappresentano l'inizio dello spettacolo, tracciate come sono sulla lavagna dalla quale risorge e avanza Simone Weil.
La morte diventa quindi il fondamento di una rinascita e chi può farsene carico carnalmente, mettendo a sua disposizione fiato, sguardo e corpo, gesti, azioni, parole e silenzio, rincorse, slanci e fatica se non l'attore, “colui che con la propria arte indaga la vita attraversato dalla morte”? Questo mi sembra quindi La volontà, questo infine mi lascia per davvero: la convinzione che l'arte degli attori, praticando il mestiere del ricordo, consegni ogni sera il mondo al mondo ossia ciò che è stato a chi è ancora: nella speranza che rimanga, che non taccia, che non sparisca.

C'è solo un ultimo pensiero che trovo necessario scrivere. Tutto questo l'ho veduto al Nostos di Aversa, uno spazio da novanta posti, nato dalla fatica e dall'impegno quotidiano di tre ragazzi (Giovanni Granatina, Gina Oliva, Dimitri Tetta) che con le loro forze, in totale autonomia, hanno letteralmente resuscitato questo luogo ridandogli vita attraverso l'esercizio del mestiere: lo stesso processo che ho ravvisato nello spettacolo di Brie. Dalla morte alla vita attraverso l'arte. Non c'è retorica, in queste mie parole, sia chiaro: è quello che è accaduto.
Per questo il Nostos diventa allora il simbolo di una lotta quotidiana che chi fa teatro ingaggia col reale e con le condizioni buro-pratiche imposte da un sistema che non si cura del teatro nel momento stesso in cui dice di prendersene incarico, ma diventa anche il simbolo di una teatralità − pensata, programmata, ospitata ed esercitata − che è in grado di tramutare ciò che vive ai margini e ciò che sembra piccolo in qualcosa di centrale, di immensamente grande. È in spazi come il Nostos – mentre nei Nazionali sorgono scenografie da centinaia di migliaia di euro per fare pratica di repertorio, mentre i grandi festival si reggono sui cachet che sfiorano o superano il milione – che oggi sopravvive il teatro inteso come atto di presenza, come occasione per l'incontro, come ragione d'emozione: è qui, in queste sale “in cui mi mancavano due metri di palcoscenico” ma “in cui ho sentito che ciò che facevo è arrivato a chi mi stava a un metro di distanza, diventando così davvero intimo” − come ha raccontato César Brie in foyer – che il teatrante e lo spettatore non sono l'esecutore materiale ed il fruitore ormai passivo di un prodotto da vedere – lo strumento ed il cliente di una pratica di vendita che sempre più assomiglia allo spaccio commerciale – ma due esseri umani che condividono per un tempo una comune condizione: è qui − in spazi come il Nostos − che la parola arriva senza diaframmi, autentica, rivolta a noi non in astratto e in generale ma in concreto e in particolare; è qui che una parte di società, per quanto piccola, ritrova se stessa e con se stessa si confronta; è qui che il teatro scopre ancora chi lo ama, chi lo rispetta, chi ne ha un bisogno che è impossibile spiegare.

 

 

La volontà. Frammenti per Simone Weil
drammaturgia e regia César Brie
con César Brie, Catia Caramia
scene e costumi Giancarlo Gentilucci
musiche originali Paolo Brie
disegno luci Daniela Vespa
assistenti alla regia Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Vera Della Pasqua
consulenza tecnica e macchinistica Sergio Taddei, Stefano Ronconi, Nevio Semprini, Matteo Fiorini, Gianluca Bolla
residenza Teatro Nobelperlapace
foto di scena Paolo Porto
produzione Campo Teatrale / César Brie
Aversa, Nostos Teatro, 10 aprile 2016
in scena 9 e 10 aprile 2016

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