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Friday, 15 April 2016 00:00

Preamleto o del Potere (mafioso)

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Il luogo (o non-luogo) in cui Veronica Cruciani inscena il Preamleto di Michele Santeramo ha l’aria di essere un bunker che riusciamo ad intendere come una occulta camera del Potere, una cabina di regia nella quale – secondo la contemporanea sensibilità dell’autore − si annidano dei germogli “politici” che vengono ipoteticamente sottesi all’opera shakespeariana. Non siamo sicuri, a dire il vero, che Preamleto sia soltanto un semplice assioma, un precedente episodio all’Amleto. Se ragioniamo solo in termini di pura sequenzialità è probabile che la prospettiva non sia del tutto esaustiva e che, forse, si ha l’impressione di essere dinanzi ad un tentativo di asportare da un classico una cellula essenziale: per renderlo opera aperta e, nella relativa (non) conclusione, lasciarci con domande più che con nuove risposte.

I personaggi − Re, Gertrude, Claudio, Polonio ed Amleto − confluiscono fra queste pareti grigie e sghembe sulle quali si mimetizzano porte e che formano una scena asimmetrica ed elevata rispetto al piano d’assito; è a quinte ristrette, non manca una piccola luce a neon e una sorta di aeratore senza graticole, come un sotterraneo, un bunker, una dimensione blindata, insomma, ed inaccessibile. Ci stanno solo una grande poltrona rivestita in pelle, trono del Re, e due scanni più bassi, riservati agli altri personaggi.
Il Re Amleto, interpretato da Massimo Foschi, dimentica tutto e non riconosce più nessuno e, come un pirandelliano Enrico IV, convince i suoi di una “tenera follia” che ce lo declina umoristicamente, non senza pieghe farsesche; una sorta di autismo emerge dalla drammaturgia, costellata da domande e risposte reiterate, un rifiuto della realtà, (un apparente) demenza lo fa credere incapace di intendere e di volere. Si replicano i tentativi di Gertrude (Manuela Mandracchia), di Claudio (Michele Sinisi) e del sottomesso Polonio (Gianni D’Addario) di interrogare il monarca, di rendere a se stesso tangibile la sua incapacità nello stare su quel trono, additandolo come marionetta di un altro che comanda al suo posto. E Amleto?
Amleto (Matteo Sintucci) è un giovanotto in giacca di pelle che si ribella secondo quell’insolvibile istinto di adolescente, attanagliato dalla rabbia verso il padre (ma pieno già di odio verso la madre) e, al contempo, da una furiosa volontà di proteggerlo e di nasconderlo alla vista altrui, sino a volerne fare le veci. In realtà la determinazione ad avere il trono da parte di Gertrude, già amante di Claudio, agisce da sotterranea spinta che convoglia questa particolare drammaturgia al relativo compimento finale. L’“ostruzionismo” che ella tenta verso il marito la cui vecchiaia e malattia glielo rende repellente, viene ripetutamente neutralizzato dalle estranianti risposte del Re, quali rimandi continui alle sue pulsioni tirannicide ed infanticide.
E se il Re fosse invero lucido? “La mia malattia salva tutti” dirà ad un certo punto, preannunciando la sua (finta) morte che farà vedere ad Amleto il suo fantasma; solo così sarà possibile preservare il figlio da fatali vendette e, soprattutto, tale finzione decreterà il passaggio del potere a Claudio e Gertrude.
Michele Santeramo lascia intendere molteplici elementi secondo i quali poter forse guardare il grande classico con occhi diversi. Il Re è come un capomafia che “decide” (finge, quindi sceglie) di morire per poter essere vigile su un’inesorabile usurpazione attuata dalla moglie e dal fratello e quindi sul relativo passaggio di scettro, per poter sventare la sete di vendetta in Amleto, controllare il suo potere anche quando non lo abbia più, evitando così le lotte intestine che sgretolerebbero la sua stirpe, imponendone così la relativa conservazione, secondo un eloquente motto “Il silenzio è alleato del comando” che ripeterà più volte ad un ingenuo ed impulsivo Amleto.
L’avvicendarsi dei dialoghi consente di indagare processi interni negli stessi personaggi: Gertrude è posta dinanzi al proprio rifiuto d’esser moglie e madre; Amleto risolvendosi di detenere il potere è incapace di esserne complice; Claudio è al cospetto del suo travaglio, dilaniato fra brama e riverenza per l’ordine familistico costituito; il Re che, come fosse un gioco, si stanca d’esser tale, continua invero a comandare giacché “uno che deve decidere più si dimentica, più comanda senza pensieri” e così Santeramo ne rivela la lucida sapienza politica attraverso una posizione estraniante – di capo già detronizzato, pur se fisicamente al suo posto – confinata in questa strana demenza e che incide fortemente sul linguaggio e, nel complesso, sulla struttura dei dialoghi. Quanto a Polonio cosa scrivere? Polonio è una sorta di baricentro esterno a questo poligono familiare, “quel pezzo che mancava”, l’ombra grottesca e connivente che in quanto tale conferma lo status quo di un potere gerarchico e che, con la sua patetica obbedienza, ne sigilla la forza.
Ciò che ci sembra rilevante nel lavoro di Santeramo è la rielaborazione di alcuni versi originali dell’opera shakespeariana. E così del verso “buttane la parte peggiore e vivi più pura con l’altra metà” che similmente ricorre nel atto III, scena IV, tra Amleto e Gertrude se ne appropria alla fine anche il Re, incitando lo stesso figlio a non seguire la legge di vendetta impressa nel proprio cuore. Ma è sufficiente? Preamleto ci lascia con le  parole della Regina, riprese dall’atto I, scena III − ”Non cercare più tuo padre...” − inframezzando un monito finale (“Non vendicarlo mai”): del resto è la non vendetta che avrebbe consentito il mantenimento del regno di Danimarca, con gli stessi usurpatori moglie e fratello (che qui il vecchio Re “legittima”), impendendone perfino l’invasione definitiva da parte di Fortebraccio. Ma cosa sarebbe Amleto senza la sua vendetta, quale posto avrebbe in quel suo universo costituito da quelle relazioni familistiche che non la sua costanza d’azione ma la sua incapacità d’agire univoco annienterà? Sia in Preamleto che nella lettura filologica del classico, Amleto è reciso dal potere, personaggio tragico sottratto ad una (propria) centralità gerarchica, l’escluso dai meccanismi afferenti al proprio nucleo d’appartenenza; al contrario il Re che in questa preventiva ipotesi se ne autoesclude lucidamente.
Potere, quindi, al centro della drammaturgia di Santeramo, e che trova nell’apparente malata abulia di chi ha il trono la lucidità di tessere in silenzio un’azione risolutiva (di contro la nevrotica volontà di Amleto figlio). Piena coerenza anche nella sapiente regia della Cruciani che dà colore alla singolare scena attraverso un’illuminazione volutamente artificiale data l’asetticità del luogo, coadiuvata dai suoni sintetici di Paolo Coletta.
In sottofondo aleggiano richiami dei nuclei malavitosi quali modelli familistici attuali; sguardo e lingua assolutamente contemporanei rivendicano (ancora e tuttora) l’esigenza di cercare nei personaggi essenze perturbanti e sotterranee quali specchio deformante della propria natura sociale, scalzandone la tragicità che l’uomo d’oggi ha assolutamente necessità  di volgere in dramma o farsa.

 

 

Preamleto
di Michele Santeramo
regia Veronica Cruciani
con Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni D'Addario, Matteo Sintucci
scene e costumi Barbara Bessi
luci Gianni Staropoli
musiche Paolo Coletta
assistente alla regia Antonino Pirillo
foto di scena Serafino Amato
produzione Teatro di Roma
lingua italiano
durata 1h 20'
Roma, Teatro Argentina, 10 aprile 2016
in scena dal 30 marzo al 10 aprile 2016

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