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Friday, 15 April 2016 00:00

Auricolare, Watson!

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Con gli occhi chiusi, o meglio, bendati, per lasciarsi trasportare – rinunciando ad un senso ed aguzzandone un altro – dall’ascolto in una dimensione che metta lo spettatore in rapporto diretto con quel che ascolta: un dramma “auricolare”, questo è Il mastino dei Baskerville nella forma in cui è stato offerto alla fruizione a Il Pozzo e il Pendolo.

Sherlock Holmes e un misterioso intrigo da risolvere, avvolto tra le brume della brughiera del Devonshire, divengono gli oggetti di una narrazione per assistere alla quale il pubblico viene invitato a indossare una mascherina nera che neghi la visione; siamo preparati (ma non troppo) all’esperienza, sicché cominciamo – furbi! – prima che la rappresentazione abbia inizio, a prendere confidenza con la scena scrutandone i dettagli dell’arredo: la scenografia ripropone un interno antico, un grande specchio alla parete di fondo, un grosso tavolo dalla sagoma rettangolare al centro del palco, attorno quattro sedie ed un mobile basso e cubico a servizio; sparse sul tavolo brocche d’acqua, qualche bicchiere ricolmo, altri vuoti, alcune tazze, cucchiaini qua e là; in terra una scatola di latta, una di quelle che in genere contengono biscotti danesi e che, una volta vuotate, si riattano a conservar spilli, fettucce di stoffa e cascame per rammendi; completano la scena, da un lato una piantana di legno con abat-jour rosso, dall’altro un attaccapanni al quale pendono soprabiti, un bastone e qualche copricapo a bombetta che gli fa corona. L’ambientazione suggerita è quella di un austero salone inglese d’antan; le aste di quattro microfoni ci forniscono un indizio sul numero degli attori che (non) vedremo in scena, indizio per decifrare il quale non c’è bisogno di sottrarre Sherlock Holmes al mistero del mastino.
Gli attori guadagnano il palco entrando dalla platea; Paolo Cresta raccomanda l’uso delle bende al pubblico; sembrerebbe un bel guaio per chi, come noi, è solito assistere agli spettacoli appuntando su taccuino note a cui poi dare forma d’articolo; eppure, sotto quest’aspetto, la differenza non sarà poi tanta con gli spettacoli tradizionali a cui assistiamo, in cui c’ingobbiamo nella semioscurità dei teatri a scarabocchiar appunti che tenteremo invano di decifrare l’indomani. Sicché ci fidiamo e ci affidiamo completamente al gioco e lasciamo che il Devonshire ci appaia agli occhi dell’immaginazione, complici le voci degli attori in scena, i quali imbastiscono una narrazione recitata che ci riporta immediatamente a quella tradizione dei drammi trasmessi alla radio (che oggi ancora si possono ascoltare – ad esempio su Radio3 – ma che un tempo raccoglievano intorno agli apparecchi radiofonici un vasto pubblico di ascoltatori); suggestione rinfocolata, durante l’intervallo, dalla trasmissione audio di una serie di spot pubblicitari che si potevano ascoltare alla radio negli anni ’50 e ’60 o giù di lì.
Il meccanismo che s’innesta rinunciando alla visione è un incremento dell’attenzione da parte dello spettatore, attenzione che per potersi conservare ha bisogno di appoggiarsi su una narrazione coinvolgente e serrata: è quel che avviene, grazie all’affiatamento dell’ensemble attorale che percepiamo netto; acuendo l’attenzione impariamo a distinguere e riconoscere le voci dei personaggi, che sono ben più dei quattro attori seduti ai microfoni in scena, così percependo che ciascuno modula la propria voce fornendola a più d’un carattere. Distinguiamo da subito che ad Antonello Cossia spetta anche il ruolo di voce narrante, oltre a quella di John Watson, fido assistente di Sherlock Holmes (cui invece dà voce Paolo Cresta); a completare il quartetto narrante (e recitante) Marco Palumbo e Lucia Rocco.
La scelta stilistica è necessariamente improntata ad una dizione nitida e più marcata di quanto si farebbe in una messinscena tradizionale, in questo caso parleremmo di un registro espressivo propriamente radiofonico, se proprio dovessimo trovargli una catalogazione e crediamo che ciò finisca per costituire uno dei presupposti per la buona riuscita dell’operazione.
E l’operazione riesce: se la tipologia stessa del racconto inscenato e narrato già di per sé ottimamente si presta allo scopo, è poi grazie anche ad una sapiente orchestrazione dei rumori di fondo, dal tintinnare dei cucchiaini fino al cupo infuriare della tempesta, passando per lo scalpiccio dei cavalli e per tutto il resto dell’apparato sonoro – frutto del lavoro di Michela Ascione e delle musiche di Luca Toller – che ci pare sin dall’inizio di essere calati nel romanzo di Arthur Conan Doyle, di assaporarne le atmosfere, il Devonshire è un paesaggio che si dipinge dinanzi ai nostri occhi bendati e la tensione narrativa del mistero del mastino, che progressivamente si dipana, calamita la nostra attenzione fino all’apice del suo epilogo.
Le variazioni tonali dei quattro attori in scena, nel raccontare e interpretare la tensione, la concitazione, i dialoghi più piani e quelli più serrati e tutte le varie sfumature emotive che percorrono l’opera, vanno a comporre un’armonica polifonia, del tutto funzionale ad un’organica orchestrazione della partitura narrativa.
Svelato il mistero, tolta la benda, abbandoniamo il Devonshire, la brughiera e il sinistro maniero dei Baskerville per fare ritorno al nostro tempo presente; riabituiamo gli occhi alla luce, mentre ringraziamo unendoci al fragore dell’applauso.

 

 

 

 

Il mastino dei Baskerville
di
Arthur Conan Doyle
con Antonello Cossia, Paolo Cresta, Marco Palumbo, Lucia Rocco
luci e suoni Michela Ascione
musiche originali Luca Toller
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Teatro Il Pozzo e il Pendolo, 9 aprile 2016
in scena 2 e 3, 9 e 10 aprile 2016

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