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Tuesday, 12 April 2016 00:00

Abitare il deserto, seminarci teatro

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Manfredonia, Don Milani, la Scuola di Barbiana, il deserto, il teatro e i teatranti, uno spettacolo, la Bottega degli Apocrifi, tante parole ascoltate... non so da dove partire per mettere mano a quest’articolo, magma informe che mi frulla a fior di capoccia da quando ho avuto modo di tastare da vicino una realtà e di percepirla in relazione immediata con l’oggetto di una giornata di lavori: Don Milani e la sua scuola, Manfredonia e il suo teatro: un giorno intero, convegni, studi, tavoli di lavoro, infine uno spettacolo.

Eppure, mentre ripenso a tutto questo, c’è un’espressione, più delle altre, che mi ritorna alla mente con una pregnanza di senso tale che mi induce a seguirla come fosse un fil rouge: “Abitare il deserto”; non sono nemmeno sicuro di averla ascoltata così, pari pari, testualmente, o di essermela figurata traducendo in mente mia per associazione d’idee tutto quanto ascoltato, visto e messo insieme. So per certo che il filo rosso che lega una figura emblematica (Don Lorenzo Milani) ed il luogo in cui a questa figura si dedica un’ampia sessione di studio e dibattito (Manfredonia) mi si para davanti agli occhi con evidenza montante. Insieme a quest’espressione, “abitare il deserto”, c’è un enunciato del pensiero di Arnold Toynbee che mi riaffiora alla mente sembrandomi perfetto per l’occasione, un concetto secondo il quale il nomade non è chi migra, ma colui che non si muove, che non se ne va, il nomade è colui che rimane in quello stesso spazio fattosi impervio.
Chi era Don Lorenzo Milani? Cosa ha fatto? Perché ricordarlo è un imperativo morale ineludibile? Per coloro i quali – laici o cattolici che siano, è del tutto irrilevante – non ne conoscessero la figura, il pensiero, la storia, l’invito è a colmare la lacuna prendendo contatto con la sua opera: incontreranno una figura folle e profetica ed uno scrittore sorprendentemente efficace, dalla prosa diretta, asciutta eppure notevole, elegante ed essenziale ad un tempo. Fu egli priore e maestro in quel di Barbiana, nel Mugello, relegato perché ritenuto “scomodo” dalla curia in una pieve di poche anime, assolvendo alla missione di educare gli abitanti di quell’angolo di mondo separato dal mondo. Don Milani abitò un deserto e vi fece germogliare i semi di un sapere democratico, interclassista, preconizzando un’idea di scuola che non svantaggiasse i diseredati, che non penalizzasse gli ultimi; la Lettera a una professoressa, scritta con gli allievi della Scuola di Barbiana – frutto di quella pratica collettiva e condivisa che fu tratto distintivo dell’opera di Don Milani – è, ancora a leggerla oggi, a cinquant’anni di distanza, un testo rivoluzionario che poco ha perso della sua aderenza al reale e all'attuale.
Ed è un deserto per certi versi anche la provincia di Foggia, quella in cui la Bottega degli Apocrifi ha deciso di far insistere (verbo che non adopero a caso) la propria residenza teatrale, essendovi l’unica realtà imprenditoriale di settore; Bottega degli Apocrifi nasce a Bologna e sceglie di vivere nella provincia di Foggia, Manfredonia è il suo deserto da abitare, il proprio luogo impervio in cui seminare. E allora eccolo il filo rosso di cui sopra, un filo lungo da Barbiana, frazione di Vicchio, Mugello, fino a Manfredonia, provincia di Foggia, soglia del Gargano, a nordest di un Sud che altrove si sta riscoprendo centrale e che qui sceglie di ripartire da una periferia, intesa in senso lato e concettuale, più che strettamente geografico o in accezione eminentemente deteriore; un filo rosso che lega passione e missione, territorio e chi lo abita vivificandolo. Sicché insegnare come lo faceva Don Milani e fare teatro come lo fa oggi la Bottega degli Apocrifi divengono due atti “politici” nell’accezione più alta ed etimologicamente rilevante del termine, perché instaurano una relazione di consequenzialità diretta tra un’azione e la popolazione a cui quell’azione si rivolge.
In una giornata densa di incontri e parole ascolto chi a Barbiana ha vissuto con Don Lorenzo Milani, la lucidità di Adele Corradi, nel fervore dei suoi novant’anni e passa, ha un che di commovente nel vivificare il racconto di quell’esperienza e possiede ancora l’energia resistente di chi rivendica con forza l’importanza di quella stagione, dei valori di cui si fece portatrice, col tempo strumentalizzati, come confermerà di lì a poco Agostino Burberi, responsabile della Fondazione Don Milani, e che del Priore di Barbiana era stato alunno da piccino. Si susseguono interventi pregnanti, le parole di Gerardo Guccini, storico del teatro che riconosce a Don Milani un ruolo di fondatore di futuro, riesce a metterne la figura in relazione con Grotowski, accomunandoli nell’ideale di “rifare l’individuo”, ricostruirne l’identità; Guglielmo Minervini invece rimarca la cultura della disobbedienza propalata da Don Milani, evidenziando quanto e come il priore/maestro fosse inviso tanto alle istituzioni clericali quanto alla cultura comunista, che pure ne strumentalizzò il pensiero a proprio uso e consumo.
Con Don Milani siamo dinanzi ad una singolare figura, portatrice di una pedagogia eversiva e politica, un uomo nato laico, mezzo ebreo, convertito cristiano a vent’anni, eppure solo accidentalmente afferente al mondo clericale – agli occhi del quale fu una sorta di eretico da tenere ai margini – e la cui missione consistette nel portare avanti un’opera di liberazione delle coscienze, rendendole capaci di leggere e interpretare il proprio tempo, lottando affinché ciascuno disponesse dei medesimi strumenti. Don Milani fu portatore di un umanesimo rivoluzionario, la potenza del cui messaggio ancora oggi risuona di un’urgenza non mutata, eco di una rivoluzione non ancora compiuta, se è vero com’è vero che la scuola è ancor oggi istituzione che discrimina, malata di classismo e di conformismo. Mentre concentro la mia attenzione sulle parole di Don Milani e di coloro che raccontano Don Milani, penso alle parole di Gesualdo Bufalino che, a chi gli chiedeva come si combattesse la mafia rispose: “Con un esercito di maestri elementari”; ecco un altro filo rosso, che unisce pedagogia e società di ieri e di oggi, in un afflato comune e nobile di progresso e crescita civile e morale.
Le parole si susseguono in affastello, Don Lorenzo Milani si staglia come simbolo di coscienza civile e come monito di centralità possibile per tutto ciò che viene sentito come periferico, sfatando il falso mito che per "fare le cose" occorra essere "nel centro"; le periferie sono quei luoghi definiti attraverso le loro mancanze; attraverso la figura di Don Milani registriamo un ribaltamento prospettico: le periferie sono deserti da abitare, i luoghi più fertili in cui seminare ed è di quest'humus che il teatro (anche il teatro) si pasce.

Lo spettacolo
Lorenzo Milani ha il volto e il corpo di Salvatore Marci; siamo nel 1964, lo leggiamo proiettato sul fondo, Don Lorenzo è già malato, scarno ed emaciato, minato da un male senza scampo. La scena è un fondale verde davanti al quale è arredata una stanza d’ospedale, povera, come la volle Lorenzo per non sentirsi un privilegiato rispetto ai poveri che popolavano (che erano) il suo mondo. In scena con lui c’è Alice, sua madre, interpretata da Nunzia Antonino; il loro dialogo snoda immediatezza lungo i tre anni della malattia, dal ’64 al ’67, passando per un tuffo nell’infanzia. Delicata rimembranza affresca un momento cruciale di passaggio, la vocazione di Lorenzo e la malaccettazione da parte di una famiglia intimamente laica, parzialmente ebrea. La sedia su cui Alice lavora a maglia da vent’anni qualcosa di ancora informe e indefinito d’un tratto si trasforma in una sorta di pulpito o di girello che Lorenzo, in una giocoleria da monello trascina a spasso per la scena: la rivolta comincia come un gioco e la disobbedienza comincia ad essere una virtù. Nel mezzo c’è il diniego, il rifiuto materno per una scelta non condivisa, il dispiacere di Lorenzo per la disapprovazione materna.
La messinscena, ponderosa nelle due ore per le quali si dilunga, finisce per scontare però, a mio modo di vedere, una eccessiva pluralità di registri espressivi, alcuni per la verità anche molto belli sotto l’aspetto visivo – e penso ai tre esserini che attraversano la scena come lucertoline frenetiche, interpretati dai ragazzi de La Ballata dei Lenna (Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno), i quali conferiscono una dimensione simbolica a metà fra il fiabesco e l’onirico alla rappresentazione. Un copricaco a forma di mitria papale sul capo, essi sono narratori onniscienti, come fossero esterni alla scena, issati su un’altalena che li sorregge sospesi, declamano con tono marcato gli eventi politici di quegli anni, la “Dottrina Truman”, il Governo De Gasperi e la sudditanza filoamericana, il controllo delle coscienze scudocrociato, che turlupinava la fede come orpello per indirizzare il voto politico; quello stesso tono declinerà successivamente verso un declamare mogio e dimesso.
Essi fungono da raccordo narrativo tra i piani temporali, favorendo la regressione della scena ai primi tempi del priorato di Don Milani a Barbiana; da lì si dipanerà uno dei momenti più significativi dello spettacolo, con Don Milani che, illuminato dalla luminescenza al neon di una lampada di emergenza, scenderà dal palco, attraverserà la platea andando tra la gente, come tra la gente fu davvero, interessandosi a loro, ai loro bisogni, facendo loro domande. Le vicende giudiziarie di cui fu protagonista – ma sarebbe più opportuno dire vittima – trascolorano sul fondo nella forma ingiallita di ritagli di giornale: la presa di posizione a favore dell’obiezione di coscienza, il subbuglio scatenato negli alti prelati con le sue Esperienze pastorali, stanno lì a ricordare quanto scomoda e quasi eretica fosse sentita la figura del Priore di Barbiana e al contempo quanto rivoluzionario fosse quel monito che destituiva il principio della cieca obbedienza di qualsivoglia fondamento acritico di virtù.
Nella sua seconda parte la messinscena tende a perdere compattezza drammaturgica, la regia si sfrangia in una strutturazione pletorica e parzialmente dispersa, le cui scelte non convincono del tutto; se già poco incisivo era parso il ruolo indefinito del ragazzo che entra portando in braccio la madre di Don Milani, per poi rientrare a più riprese senza palesare effettiva funzione, se non forse quella di incarnare simbolo corporeo dei ragazzi della Scuola di Barbiana, nel procedere della narrazione scenica si perviene all’estemporanea comparsa del generale Francisco Franco, che sproloquia in spagnolo seduto su una sedia a rotelle: inserto fondamentalmente incongruo nell’economia drammaturgica dello spettacolo, ha l’aggravante di immettere ex abrupto un tono caricaturale fino ad allora non presente e che resta fine a se stesso, quantunque la sua presenza possa giustificarsi con gli espliciti (ed estremamente critici) riferimenti al Caudillo della cattolicissima Spagna fatti dallo stesso Don Milani e riscontrabili nella silloge La scuola della disobbedienza.
Il pregio principale che riconosco al Lorenzo Milani inscenato dalla Bottega degli Apocrifi consiste nel riuscito tentativo di non comporre un florilegio agiografico; tentano piuttosto, attraverso una narrazione immaginifica, di tratteggiarne una figura il più possibile aderente ai contenuti umani e spirituali della sua opera e della sua pratica di vita. È chiaro che l’immagine che ci viene consegnata non possa che essere positiva; rifugge però dalla costruzione di un’immaginetta votiva per idolatri, puntando invece su un’umanizzazione simbolica che funzionerebbe pure, se non fosse appesantita da un sovrappiù di scene, di immagini, di visioni (l’ultima, quella di una donna che si rivolge a Don Milani avanzando sulle poltrone della platea) che rischiano a tratti addirittura di marginalizzare la figura stessa di Don Milani, fin quasi a renderla ancillare alla costruzione registica che lo contiene.
Tra luci ed ombre, questo Lorenzo Milani – che, lo ricordiamo, andava in scena per la prima volta – sembra uno spettacolo che non abbia ancora trovato la sua forme definitiva, abbisognando di un labor limae che ne salvaguardi gli aspetti interessanti, che ci sono e sono pure notevoli, possibilmente sfrondandosi di un sovraccarico di lacciuoli che ne imbrigliano la fluidità scenica e ne minano la compattezza drammaturgica.
Rimanendo nel solco di quanto scritto finora, riesco a vedere Lorenzo Milani – e più complessivamente il lavoro della Bottega degli Apocrifi – più che come uno spettacolo compiuto, come un seme gettato in un solco da condurre pazientemente a fioritura.
Il deserto è abitato, non resta che dargli modo di fiorire.

 

 

 

 

Lorenzo Milani
scritto da Stefania Marrone
regia Cosimo Severo
con Nunzia Antonino, Gaetano Caputo, Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno, Salvatore Marci, Fabio Trimigno
musiche originali Fabio Trimigno
scene e costumi Iole Cilento
racconto animato e disegno luci Carlo Quartararo
editing musicale Edgardo Caputo
spazio sonoro Danilo Mottola, Giuseppe Lamenta
tecnico di scena Vincenzo Scarpiello
assistente alla regia Filomena Ferri
produzione Bottega degli Apocrifi
lingua italiano
durata 2h
Manfredonia (FG), Teatro Comunale “Lucio Dalla”, 2 aprile 2016
in scena 2 aprile 2016 (data unica)   

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