“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 12 April 2016 00:00

Nuovo teatro made in Naples?

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Il punto di partenza della riflessione – e di questo corsivo – è stata la visione di un progetto eleborato da C.Re.S.Co., cioè dal Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea. “Lanciato” in questo mese di aprile del 2016, il progetto si chiama Lessico Contemporaneo ed ha come obiettivo “la riflessione artistica sullo spettacolo nel nostro tempo presente”. Così, a livello regionale, gli aderenti a C.Re.S.Co. organizzano appuntamenti ai quali prende parte “una comunità in senso allargato”, interessata “a stimolare il confronto e l'analisi delle arti della scena tra gli artisti”.

Lessico Contemporaneo – leggo ancora – “si rivolge ad artisti dello spettacolo dal vivo, studiosi e soggetti coinvolti a vario titolo nella riflessione-azione sulla creazione contemporanea” invitandoli a riflettere su se stessi, in relazione con gli altri. Come incide lo spettatore e quale ruolo ha nel processo di revisione del lavoro; quanto la nascita e la definizione di una drammaturgia vengono influenzate dal rapporto con il luogo di creazione; attraverso quale processo intimo un artista della scena realizza il proprio rapporto tra verità e forma; quali contenuti stimolano maggiormente la nascita del processo di creazione; che valore hanno le prove: tra ripetizioni e riproducibilità, metodi e pratiche, tradizione e ricerca. Ecco alcuni dei temi di Lessico Contemporaneo.
Scorro l'elenco degli appuntamenti calendarizzati: Torino, Genova, Trento, ancora Torino, Roma, Sansepolcro, di nuovo Torino, Trento, Monza. E Napoli? E la Campania? E il Sud?
Napoli, la Campania, il Sud non hanno un Lessico Contemporaneo da comunicare, su cui riflettere, da porre al centro di un discorso collettivo?

Leggendo Liveness – gioco – frontalità, il capitolo che Valentina Valentini dedica, in Nuovo Teatro Made in Italy, a la linea del Duemila ovvero al nuovissimo teatro degli anni zero, mi accorgo che non c'è alcun riferimento a Napoli o alla Campania, a compagnie ed esperienze che appartengono a questo territorio. Se il saggio parte da Tragedia Endogonidia di Raffaello Sanzio – e dunque da un'esperienza che ha radici più lontane nel tempo e quindi più profonde sul piano biografico – tuttavia poi sviluppa una riflessione che investe le poetiche di Babilonia Teatri e CollettivO CineticO, gruppo nanou e Dewey Dell, Muta Imago, Santasangre, Alessandro Sciarroni, Teatro Sotterraneo. Possibile che non ci sia un solo nome che sia mio concittadino? Indifferenza della studiosa? O invece c'è un motivo diverso, che sfiora o coincide con un'assenza di nuovi linguaggi teatrali che vengono dalla mia regione?
Valentina Valentini sottolinea la capacità di elaborare nuove modalità di produzione – “il progetto è la cornice che tiene assieme il processo di produzione” e che “ne rimodula la pratica sperimentale, con l'intento di assicurarsi lo spazio-tempo necessario” a definire la propria espressione e, nel contempo, “ad affrontare le richieste del mercato”: il progetto, quindi, e non lo spettacolo, diventa il vero contesto operativo – e, soprattutto, la studiosa elenca caratteristiche che innervano una scrittura drammaturgica che, anche quando concepisce come proprio centro la parola, si nutre della relazione con altre forme di comunicazione artistica: la performance, l'istallazione, la produzione musicale, il DJ-Set, le istallazioni mass-mediali, i video (pensate al recente MDLSX di Motus, visto a Galleria Toledo). Motivazioni artistiche specifiche, certo, ma anche la necessità di sondare campi diversi dal perimetro del palcoscenico e, non ultimo, il bisogno continuo di riformulare la propria presenza adattandola alla dimensione degli spazi (che non sono di certo quelli degli Stabili italiani) e delle risorse di denaro (non c'è ricchezza e, spesso, neanche sopravvivenza).
Così, altrove, si ragiona – ora individualmente, ora come gruppo monade in un contesto geografico più o meno pressante ed affollato sul piano teatrale, ora ponendosi in contatto attraverso la residenza o l'incontro ai festival – della relazione tra corpo e immagine, elementi artigianali e componenti massmediatici e di uso ulteriormente innovativo di luci e di colori, di frammentazione drammaturgica (i grandi classici ridotti a brandelli o strutturati per elusioni e dettagli), di cultura pop come segno distintivo del proprio linguaggio. Temi tra i molti cui è possibile dedicarsi. Sta accadendo anche qui? E in che misura? C'è una nuova teatralità che si sta distinguendo generazionalmente da quella che l'ha preceduta? E se invece non accade, quali sono i motivi?
Si dirà che la questione è strutturale: nell'indistinto altrove italiano è possibile un ragionamento sulla propria poetica in virtù di un sistema che permette tempi decelerati, possibilità di formazione, libertà di errore; questo perché − si dirà ancora − altrove ci sono assessori illuminati di governi cittadini illuminati – al Nord non c'è un Alfredo Balsamo a dire in pubblico “dove cazzo la metto questa danza?” (Turnover, Teatro Bellini, 2014) né uno Stabile incapace, al momento, di relazionarsi con il territorio, di ascoltarne i suoi vagiti teatrali, accoglierli, prendersene cura e permettergli la crescita, la maturazione e l'indipendenza adulta –; si dirà infine che abbiamo qui un cumulo tale di mala partitocrazia clientelare da rendere incapace ogni possibile ipotesi di un sistema teatrale integrato che garantisca ciò che, nell'indistinto altrove, è invece consueto e ordinario: spazi di prova, relazione con Maestri riconosciuti sul piano nazionale e internazionale, un insieme di rassegne che permettono la pratica del palco e sostegni materiali ed economici alla produzione, alla distribuzione, alla comunicazione. Si dirà, infine, che il Sud sconta un ritardo più generale, che si evidenzia nelle classifiche sulla qualità della vita e la vivibilità delle sue città e che riguarda – solo per rimanere in campo culturale – anche l'editoria, l'insegnamento universitario, le arti figurative e gli spazi d'esposizione, la produzione musicale. E tuttavia a me viene in mente – a questo punto – l'avventura decennale di Fibre Parallele.
Li ricordo, Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, nella penombra di un Teatro Sancarluccio vuoto, sette anni fa, con Mangiami l'anima e poi sputala (il loro primo spettacolo); ne ricordo il pulmino in un vicolo di San Giovanni, parcheggiato lì perché proponevano Due (il loro secondo lavoro) a Sala Ichòs: il sabato e la domenica, al cospetto di una quindicina di spettatori al massimo. Due repliche di una settimana di altre repliche da fare in giro per l'Italia: rimettendoci. Fibre viene da Sud (Bari), non ha una formazione accademica (“Non ci hanno neanche presi in considerazione” raccontava Licia Lanera recentemente a L'Asilo) e non ha goduto – in passato – di finanziamenti che ne sorreggessero la ricerca. Fibre ha investito sul proprio discorso ovvero ha cercato e (quel che più conta) ha trovato la propria ragione d'esistenza, riuscendo a elaborare una lingua totalmente propria, in grado di parlare politicamente del presente attraverso il grottesco, la bassezza e la crudezza del proprio stare in scena. Così è venuta la moltiplicazione di date, il passaparola tra il pubblico, la possibilità di fare a sua volta formazione (i laboratori, che sono il sostegno effettivo di gran parte della teatralità italiana); così sono venute le platee piene, qualche viaggio all'estero, una moltitudine di premi. “Mi sono trovata per terra, a spaccare il ghiaccio con un martello, per far ripartire il furgone” raccontava Licia Lanera, parlando della tappa di una tournée, in un convegno intitolato Dalla regia critica alla critica della regia. Quante compagnie campane, mi chiedo a questo punto, in assenza oggettiva di concrete possibilità strutturali hanno quanto meno investito sulla ricerca di una propria poetica e quante hanno dato continuità alla loro stessa natura di compagnia, non cedendo alla vocazione personale e alla necessità di dover innanzitutto sopravvivere sul piano individuale?
Così scorrendo le gerenze di un mio articolo su Anagoor noto che Virgilio brucia e L.I. Lingua Imperii sono sì produzione “Anagoor” ma che hanno avuto come coproduttori il Trento Film Festival, la Provincia Autonoma di Trento, Centrale Fies, Operaestate Festival, il Festival delle Colline Torinesi e l'Università di Zagabria. Si tratta di una questione di sistema (oltreché, naturalmente, della sensibilità teatrale di Simone Derai)? Ammettiamo pure che molto dipenda da “quella provincia veneta, forse ricca ma non sempre felice, che d'improvviso ha prodotto una nuova generazione teatrale” come scrive Gianni Manzella, ed allora perché non riusciamo ad investire – anche di una ferocia polemica e collettiva, che non abbia freni e soste – i centri di potere che sono presenti qui a Napoli, che ricevono finanziamenti pubblici ma che a fronte di questi, non svolgono un compito che è innanzitutto un loro dovere, proprio per i soldi che ricevono? Perché nessuno – a partire dalla critica cittadina, cartacea e web – interroga fino a disturbare, ad esempio, la direzione dello Stabile di Napoli, perché non se ne interroga ad esempio l'utilizzo che fa delle sue tre sale (a partire dal Ridotto, che sarebbe un perfetto utero di prova e di sperimentazione per le giovani compagnie napoletane) e perché non chiede il rispetto delle funzioni (dal lavoro di scouting sul territorio alla relazione con altre sale cittadine) cui uno Stabile dovrebbe assolvere per ruolo, per statuto e per mandato?
E ancora: perché in questi anni di spreco di denaro pubblico – le decine di milioni di euro del Napoli Teatro Festival che mai ha messo in pratica il progetto per cui è risultato vincitore di bando e un finanziamento regionale che, anche di recente, dà troppo (trentatré milioni di euro su un biennio) a pochi (sette soggetti): leggi qui – Napoli e la Campania sono state incapaci non solo di produrre un movimento compatto di opposizione e di denuncia ma anche una discussione aperta e continuativa, se si esclude la passata e finita Assemblea Permanente sulle Arti della Scena al Pan (mentre resiste l'esempio de L'Asilo)? E sopratutto che ruolo – in questa discussione – vuole avere, ammesso che voglia averlo, la generazione perduta dei trenta/quarantenni – drammaturghi, registi, attori o aspiranti tali – che vivono in un contesto che considera ancora “nuovo teatro” le drammaturgie di Santanelli, Moscato, Fortunato Calvino o la ripresa postuma di un testo di Ruccello? È possibile che qui – dove evidentemente anche il sistema sta impedendo l'elaborazione di poetiche (fatte rare eccezioni, per lo più individuali: da Borrelli a Latella, passando per Punta Corsara, l'unico gruppo che, prodotto a Roma, riesce ad avere una faticosissima distribuzione nazionale) – si possa ragionare assieme, e in maniera duratura, sulla nascita di “una nuova alleanza tra gli artisti, gli spettatori e la critica, basata sull'indipendenza e la non interscambiabilità delle loro funzioni all'interno di una stessa comunità di passioni”, estesa “a tutti quegli operatori disposti a inventare nuove strategie di sostegno economico al servizio di una scena fondata sul primato dell'arte e degli artisti” (Massimiliano Civica, Attilio Scarpellini; La fortezza vuota)? E se non si tratta di operare uno scisma e di dar vita a un circuito parallelo e del tutto nuovo, è possibile allora ritrovarsi (artisti, spettatori e critica) ad uno stesso tavolo per comprendere come incidere e determinare (anche ma non solo) una più equa distribuzione di risorse che passi non per la conferma o la generazione di nuove rendite assistenziali ma che sia uno dei presupposti perché lo sviluppo di nuove poetiche sia di nuovo possibile in Campania? E sarà possibile, poi e sulla base di questo, ragionare finalmente di lessico contemporaneo?
Infine, perché nessuna componente sia esclusa da un'analisi che deve essere ampia e articolata: è possibile pensare anche a una funzione rinnovata del lavoro critico che, memore degli errori del passato – che hanno fatto della “professione del critico” un “esercizio corrotto”, per dirla con David Mamet – sia in grado di indurre, accompagnare, testimoniare, sollecitare e a sua volta prendere parte a un discorso collettivo sulla presente e nuova teatralità napoletana e campana? Ed è possibile pensare alla concretizzazione di questo ruolo – che è un ruolo scelto, a maggior ragione quando non porta compensi – senza continuare a dare adito alla costante pratica del conflitto d'interessi o dobbiamo considerare inevitabile la sua coniugazione attraverso i critici-promotori, i critici-autori, i critici-attori, i critici-registi, i critici-imprenditori e produttori teatrali? È possibile, invece, chiedere un'assunzione di responsabilità assoluta che va anche nel rispetto − e nella rigorosa distinzione − dei propri compiti nei riguardi del teatro che viene pensato, prodotto, distribuito e messo in scena?
Domande, niente di più, questa mattina. A cui spero possano seguire ulteriori domande, fatte da altri. Con un solo scopo: provare a trovarsi per cercare di elaborare qualche risposta. Insieme.
È possibile?

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