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Wednesday, 30 March 2016 00:00

L'autenticità dei peli

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I peli sono qualcosa di superfluo, qualcosa che copre, che maschera... eppure servono: “A essere brutti!”, “No, a essere veri!”. I peli sono il pretesto, l’orpello, o meglio la metafora (una delle metafore) su cui s’incentra un dialogo tra due donne che non sono donne − due attori ne indossano le vesti impersonando due signore borghesi che hanno scollinato da qualche indefinito semestre la mezza età − e che entrano in scena parlando un idioma che non è il loro (l’inglese).

Lo spettacolo non è cominciato che da pochi minuti e già dichiara la propria teatralità e, in tralice, allude e prelude anche al proprio gioco impalcato, ovvero la struttura che ne preannuncia senso ed essenza, gioco metaforico di una dissimulazione indirizzata verso uno svelamento progressivo di quel non detto che s’annida dietro uno strato di trucco, cerone borghese che vela le rugosità di verità sconvenienti, che si è portati a sottacere anche quando le si intuisce, le si immagina, in fondo le si conosce. È il gioco del decoro, delle convenzioni che regolano l’armamentario culturale borghese, fatto di convenevoli a denti stretti, formalismi imbellettati, insinuazioni velate, frustrazioni e meschinità suppurate nei reticoli dell’incamerato e dell’imploso.
In scena, le due donne che non sono donne, abbigliate e truccate con quel gusto elegante che ne connota l’estrazione sociale, s’accomodano al tavolo sedute di tre quarti per trascorrere il tempo comune giocando a carte: sicché una partita di burraco – proprio quel gioco di carte che di certa borghesia è negli ultimi anni diventato il trattenimento di moda – diviene il pretesto per ‘scoprire le carte’, per buttare giù, seguendo un flusso dialogico progressivo, maschere troppo a lungo indossate a compressione di pulsioni e sensazioni autentiche, dissimulate a forza in quel gioco di ruoli imposti che si chiama contesto sociale.
Peli, di Carlotta Corradi, diretto da Veronica Cruciani, è uno spettacolo sincero, autentico, che adopera lo strumento più scopertamente menzognero – la finzione – per scoprire quanto di veritiero s’acquatta sotto la superficie delle convenzioni. La sua dichiarazione di teatralità è preventiva e costante: le due donne che donne non sono versano e sorseggiano un tè che in scena non c’è, per andare a prendere la caraffa che lo contiene una delle due resta seduta mentre il rumore dei suoi tacchi ne evoca il movimento; dichiarando la propria teatralità, Peli dichiara contestualmente anche la finzione che racconta, l’ambiguità di rapporti forzati, deviati dall’intonaco delle apparenze da salvare, che poi sono i pretesti di cui sparlare.
Sedute al tavolino, a giocare a carte, in attesa di due amiche che non arriveranno, le due donne che donne non sono consumano il proprio rituale, in ultima analisi esorcizzandolo, scremando la fuffa dell’impostura, delle ipocrisie da troppo tempo accettate e, apparentemente anche gradite, rese sapide dal gusto del pettegolezzo inciuciato al tavolo da gioco; altro che tornei, i tornei non sono divertenti, ai tornei “non si può parlare” e “non si può nemmeno barare!”, i tornei praticamente sottraggono al gioco del burraco, alla sua ritualità, tutto il gusto che queste donne davvero provano e che esula dal gioco in sé, condensandosi nell’intero apparato di contorno, fatto di chiacchiericcio fitto, insistente, di motteggiare mordace, di piccole contumelie e frecciatine varie.
È un gioco a carte coperte, quello che conducono Alex Cendron e Alessandro Riceci nelle eleganti vesti di due signore per bene, un gioco che copre le lacerazioni che ciascuna delle due protagoniste si porta dentro rivestendole di una patina di cinismo: il burraco si fa così metafora di tatticismi e strategie, una schermaglia che attraverso le carte mette a nudo le anime.
Giocano e parlano, parlano e giocano, quando non malignano sulle loro conoscenti, si raccontano delle proprie tribolate vicende familiari: vedova l’una, sposata senza passione l’altra; si punzecchiano, si raccontano verità di facciata senza riuscirsi a dire davvero tutto, non riuscendo ad ammettere ciò che pure all’altra è risaputo, ciò che pure a tutti è evidente: l’una beve e non vuole ammetterlo, l’altra ha le labbra rifatte e non vuole confermarlo. “Diciamoci le cose come stanno!”, fa l’una, “Da quando in qua ci diciamo le cose come stanno?”, ribatte l’altra: in questo brandello di dialogo si condensano le finzioni di una vita, i segreti che segreti non sono, le ipocrisie che velano di impuro un rapporto che pure ha visto le due donne crescere insieme, aversi profondamente e reciprocamente per poi perdersi senza riuscire più nemmeno a cercarsi. Fino a questa partita di burraco, imbastita come un redde rationem, dopo che il suono di un carillon ha funto da triste melodia di rimostranze, recriminazioni, rimpianti; c’è una frase che ricorre: “Perché non me lo hai detto?”, accompagnata spesso da un “non parliamo mai”, frasi immerse in un mare di dialoghi, in fiumi di parole, flussi di chiacchiere vane che nascondono dietro il suono di motti salaci il silenzio sulle cose vere.
La prima parte di Peli s’incentra tutta su questo dialogare rapido, sferzante e sprezzante, in cui ciascuna rintuzza le insinuazioni dell’altra con quella punta d’acribia maliziosa fatta di piccole meschinità e vacue rivalse. Fino a un sovvertimento, fino allo svelamento, fino a quando la scena si rivolta del tutto: il cambio delle luci è come un colpo di sferza che tutto ribalta, una lite furiosa porta le due donne ad accapigliarsi, a lottare fino a denudarsi, a battersi in terra con violenza; svelamento e svestizione, via gli orpelli, via ogni sovrastruttura, si litiga ferocemente, ci si mette a nudo dicendosi in faccia tutto, tutto ciò che in parte già si sa, ma che detto a chiare lettere assume il senso liberatorio della pura autenticità; le carte intanto sono volate via, il burraco è un pretesto che ha perso interesse e le parole seguono un percorso che è consequenziale ai gesti, c’è un processo verbale che procede di pari passo con l’abbattimento dell’ipocrisia imperante: il dialogare, che già era diventato via via meno serrato, seguendo stati d’animo che scoprendosi avevano perduto l’albagia dei modi, la tigna del ciacolare acidulo che corazzava contro la realtà, diventa scoperto e autentico.
In scena due corpi ormai seminudi non appartengono più ai personaggi imposti dal consorzio sociale, ma recuperano l’essenza antica che ne legava le anime, due anime che recuperano un rapporto lontano e sopito, che si ritrovano dopo essersi colpite e ferite.
C’è un senso forte di autenticità in questa storia inscenata attorno a un tavolo da gioco, c’è un senso di verità a cui la finzione si presta egregiamente, complici due attori che a questa finzione si regalano splendidamente, come donne che non sono donne, come essenze che travalicano il genere. C’è un forte senso di autenticità che fa di Peli, per scrittura, regia e interpretazione, una felice parabola umana di una delle umane forme dell’infelicità. Che nella fattispecie si conclude con una pacificazione.
Non è un caso che la scena si chiuda con una richiesta, autentica e sincera, a cui fa seguito in sì, non è un caso che a seguire scroscino gli applausi.

 

 

 

 

Peli
di Carlotta Corradi
traduzione Edward Fortes
regia Veronica Cruciani
con Alex Cendron, Alessandro Riceci
scene e costumi Barbara Bessi
musiche Paolo Coletta
disegno luci Gianni Staropoli
referente tecnico Michelangelo Vitullo
tecnico di compagnia Camilla Brison
assistente alla regia Tullia Raspini
foto Laila Pozzo
produzione Quattroquinte
in collaborazione con OffRome
lingua italiano, inglese
durata  1h 10’
San Leucio (CE), Officina Teatro, 19 marzo 2016
in scena 19 e 20 marzo 2016

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