“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 23 March 2016 00:00

Edipo marginale e "Scarrozzato"

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Un sipario semitrasparente verde e azzurro retto da un bastone per tende, più lungo rispetto allo stesso drappo  che cala di sghembo sulla scena, fatto da un insieme di stracci di “camise, de gipponini, de sottane, de calzette, de pezze, de reggitette, de mudande smangiate su tutte dai vermeni, dalle camole e dalle piattole de ‘sta vagina de coiti e de morte che ha da essere e sarà in eternis la latrina teatralica!”. Dietro di esso una serie di fantocci in fila, parrucche e abiti di scena malandati s’intravedono grazie alla tenue luce di soli quattro grandi fari che dall’alto illuminano l’assito del Piccolo Eliseo.

Lo Scarrozzante, ultimo rimasto di una compagnia di guitti, entra in scena e si appresta a sedere su una gran sedia con lo schienale rivolto verso la platea e sul quale leggiamo la parola “fragile”.
Ha un naso da clown, è tutto in bianco con calzettoni rossi sino a sopra le caviglie, ma appena inizia a recitare il ruolo di Laio si ricopre di un dorato mantello regale e indossa guanti bianchi; ha un grande ventaglio rosso di cartapesta ed una corona a mo’ di tiara papale. Tebe, oppure ogni altro posto dal passato ad oggi, è luogo simbolico di oppressione politica, religiosa e sociale che lo Scarrozzante finge di rievocare, inscenando una tripla condanna capitale che infligge a tre “manichini”. Questi sono surrogati di altri attori dileguatisi da questo minuscolo e decrepito teatro, in cui l’istrione in preda ad una disperata ostinazione, mette in scena l’Edipus, terzo tassello della Trilogia degli Scarrozzanti. Egli, dunque, il Laio, trascina ì tre fantocci in scena, un blasfemo, un uomo colpevole di vilipendio alla bandiera, un sodomita, minacce del sacro trittico – alla base di ogni dittatura – Religione, Stato, Famiglia, simulando al contempo terrore e presunta acclamazione fra i tebani.
Lo Scarrozzante ed i suoi personaggi, Laio, Giacasta ed Edipo, la sua solitudine artistica ed esistenziale ed il tema della tirannia politica e religiosa; sono questi i due livelli che, nel testo di Giovanni Testori come nell’allestimento di Leo Muscato, coesistono in maniera simultanea e indistricabile. C’è la parte di Laio il cui abito viene adagiato su di un letto perché l’attore deve far entrare in scena Giocasta; e la stessa Giocasta rappresentata dall’ennesimo manichino affinché lo Scarrozzante riesca a ricoprire anche il ruolo di Edipo, al fine di portare a termine questa particolare rivisitazione della tragedia. Una tragedia che declina al grottesco in cui il protagonista finisce per stuprare e castrare il padre Laio che muore di emorragia, per accoppiarsi poi con la “mater” Giocasta e con ella rifondare un regno in cui gli “insegnamenti” di Marx e Cristo coesistono, un regno che non è Tebe ma Colono, intesa non come luogo d’esilio ma agognata terra promessa e felice in cui tutti, derelitti, emarginati, avanzi e reietti si riconoscano come parte d’un unico popolo.
Una tragedia classica riproposta in una versione grottesca, il solo modo nel quale gli Scarrozzanti, relegati ai margini dell’arte come della vita, guitti senza nessun diritto di avere voce in capitolo, hanno la possibilità di riproporla. C’è questo tiranno la cui virilità, emblema dell’ordine costituito, viene tradita dall’ambiguo ventaglio rosso di cartapesta, ci sono lo stupro e la castrazione, pregnanti simboli della ribellione contro ogni forma di coercizione politica e religiosa, e l’amplesso incestuoso con la madre che sono tradotti violentemente sulla scena tramite l’abuso che l’istrione è “costretto” a fare dei fantocci, e tutto si tramuta in un necessario massacro del Mito e del tragico per eccellenza, non perché se ne distrugga la tradizione, ma perché unica e sola maniera di scavare violentemente nelle parole, nei significati e nelle figure.
L’impressione complessiva che ci resta nell’aver visto Edipus nell’allestimento di Leo Muscato, con l’interpretazione di Eugenio Allegri, è quella di assistere ad uno struggente soliloquio. Lo Scarrozzante non inscena un monologo, ma in preda ad un delirio di solitudine, prende a recitare tutti e tre i ruoli e man mano che la storia procede capiamo che tutto, ogni elemento che risalta nelle parole come in assito, si ascrive alla concezione periferica dell’esistenza come del teatro.
Periferica è questa “latrina teatralica”, questo verosimile buco nel quale un silente ragazzo apre il sipario malandato che lascia intravedere i pochi abiti sgualciti ed impolverati, quello sformato di Giocasta o le parrucche, gli esigui e poveri oggetti di scena.
Un teatro ai margini entro il quale Amleto, Macbeth ed Edipo vengono storpiati nel loro nome e reinterpretati nell’accentuarsi delle loro diversità e solitudini, costretti a parlare in vernacolo. A ben pensarci, ci vengono in mente autori meneghini come Carlo Bertolazzi, che adoperava nei suoi drammi il dialetto lombardo per poter descrivere un’umanità emarginata e povera. Esattamente questo è l’ultimo Scarrozzante al quale il suo “scrivano” riserva questa lingua un po’ sconcia, un po’ sacra, un po’ arcaica, la traccia più preziosa che abbiamo della poeticità testoriana.
Periferica è la condizione dello stesso Scarrozzante, tradito dai compagni e dalla prima attrice con la quale ogni sera, sulla scena, finiva per avere un amplesso “reale”. Lo vediamo nella parte di Laio simulare l’acclamazione del popolo, lo vediamo agire con manichini ed inscenare – uno degli aspetti che più apprezziamo dell’interpretazione di Eugenio Allegri – un vero e proprio delirio istrionico; analogamente diseredato è il suo personaggio originario Edipus, figlio rifiutato, desiderato morto, lo storpio dalle “caviglie gonfie”.
Resta un teatro di parola, quello di Giovanni Testori che nell’arcaicità del suo linguaggio con la quale farcisce il suo vernacolo, ne preserva la sacralità liturgica ed il senso intimo, religioso che trova nel teatro il suo ultimo avamposto. Di convesso, si fa spazio una certa pulsione blasfema annidata nella drammaticità espressiva della lingua e che non ha alcunché di provocatorio, ma va rivelandosi anch’essa come ricerca, come “sete di comunione” fra natura, libertà e divinità, una sete relegata ad un teatro necessariamente minore similmente alla posizione marginale e trascurata che il drammaturgo lombardo ha nel nostro panorama culturale.
Sarà per questo che gettiamo un occhio un po’ malinconico ed un po’ “romantico” sulla sala semivuota in una pomeridiana pre-primaverile al Piccolo Eliseo.



 

Edipus
di Giovanni Testori
adattamento e regia Leo Muscato
con Eugenio Allegri
scene e costumi Barbara Bessi
disegno luci Alessandro Verazzi
assistente alla regia Elisa Benedetta Marinoni
produzione Pierfrancesco Pisani, Nidodiragno, OffRome, Fondazione Orizzonti d'Arte
in collaborazione con Infinito s.r.l.
durata 1h 15'
Roma, Piccolo Eliseo, 16 marzo 2016
in scena dal 9 al 20 marzo 2016

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