“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 23 March 2016 00:00

Ottimismo per tutti

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Candide: vita di un giovane ottimista. Di un sognatore che crede che ogni cosa che accade avviene comunque “nel migliore di tutti i mondi possibili”. Ma questo mondo subisce un collasso all’interno della storia delle sue avventure attraverso i tempi e i luoghi. Come sarà l’incontro dell’ottimismo di Candide con la realtà dell’epoca attuale? È un personaggio che incarna il nevroticismo della vita dei nostri giorni, sospeso e incerto nel procedere tra principi e valori che hanno perso consistenza. “Candide è il poema dell’esistenza fortuita, poema amaro e durevole”: crudo e ironicamente tragico, si perpetua nel tempo e si presta ad una rivisitazione in una fusione con il mondo a cui apparteniamo.

La commedia del britannico Mark Ravenhill è ispirata a Voltaire: ispirato è il termine giusto in quanto prende forma dalla critica satirica settecentesca alle dottrine ottimistiche di matrice leibniziana, per confermarne l’attualità in un viaggio tra passato, presente e un futuro immaginato.
Uno spettacolo in cinque scene che spazia tra tempi così distanti tra loro il cui collegamento viene sottolineato dall’inizio: si apre il sipario e compare il cartello con la data ”1755” seguito da quello recante “2016” con la pretesa di mettere insieme un arco temporale di oltre duecentocinquanta anni.
Primo atto: nel Settecento, al cospetto di Candide, viene messa in scena per volere di una contessa, una commedia con attori che interpretano la sua vita: la commedia, come la vita è un grande disegno ed è tesa a mostrare che finirà nel migliore dei modi possibili. Per migliorare la condizione di tristezza in cui versa poiché pensa troppo, si alternano interpretazioni attorali che lo mettono innanzi alla sua esistenza ma che confermano in lui l’idea che deve andare via, muovendosi alla ricerca della sua amata Cunegonde. Lapidario si allontana con: “Sceglierò la mia strada, cambierò il mio destino”.
I costumi e le acconciature contribuiscono immediatamente a sentirsi nel tempo della rappresentazione: la prima impressione è di confusione in un’accozzaglia di tanti volti che si affannano velocemente a ritrarre delle parti, interrotte continuamente dalla contessa e da Candide per migliorare la riuscita della messa in scena. Le battute non sono lasciate al caso ma celano significati complessi: la velocità però con cui vengono pronunciate induce in me distrazione, perdendomi dei passaggi. Forse alcune frasi avrebbero richiesto maggiore lentezza e qualche pausa in più per essere percepite e assimilate, potendovi riflettere qualche attimo. Alcune, al contrario, banalizzano un po’ il senso complessivo, cadendo nella trappola del già sentito: “L’uomo che investe, il cui patrimonio conosce un buon reddito, conosce la felicità”, oppure “ogni malattia personale viene offuscata dal benessere generale”. In compenso le immagini scandiscono dei passaggi narrativi; vengono calate dall’alto tavole raffiguranti eventi caratterizzanti: la sconfitta della Bulgaria, il terribile terremoto che rase al suolo Lisbona. Voltaire compose il Candido nel 1759 proprio a seguito di questo evento tragico, infierendo contro coloro che sostenevano che fosse un accadimento che rientrava nel piano di Dio volto al bene della collettività. Quel terremoto è il simbolo della crisi ideologica di oggi, che ci lascia storditi e in bilico senza sapere verso quali mete è preferibile dirigersi, con un’identità sempre più frantumata e in frantumazione.
Secondo atto: veniamo catapultati in un salotto contemporaneo in cui si festeggia il passaggio all’età adulta della giovane Sophie. Il primo indizio dell’aridità e della solitudine è la struttura dell’hotel: uno scheletro spoglio, scarno, vuoto. La torta con il numero diciotto, gli invitati e l’eleganza dell’ambiente sono in contrasto con la disposizione nello spazio dei personaggi: separati tra loro, alcuni messi in modo da non potersi guardare in volto, distaccati a dispetto delle parole pronunciate imposte dalla circostanza gioiosa. Il verbale è così tradito dal non verbale: un giovane è addirittura così lontano dagli altri invitati da essere disposto a terra, di spalle, con gli auricolari e un gioco elettronico da cui è catturato, senza curarsi di ciò che accade intorno a lui. La sua immagine immortala la visione di Sophie, così carica di cinismo: “Tutto il mondo è un videogioco”. L’atmosfera tesa esplode nella rabbia violenta della neo-adulta che con la sua arma da fuoco non risparmia nessuno sull’altare dell’ira. Esprime la frustrazione della sua generazione, la finzione da cui è circondata nel dover sempre far vedere che si sta bene. Al contrario di quello che pensa il padre e gli altri che provano a farle cambiare idea, è convinta che l’unica soluzione sia eliminare la razza umana per il pianeta, gridando: “Avevate la responsabilità del pianeta, dovevate lasciarcelo meglio”. Una scena in cui le parole si posano come il sale su una ferita alimentando il bruciore, in cui il caos e il caso inducono a riflettere sull’inutilità del cercare sempre una motivazione divina. Qui Candide non è presente fisicamente ma c’è nel movimento teso a cambiare lo status quo, fino ad incarnarsi nell’unica sopravvissuta alla strage compiuta, la madre di Sophie: “Sono ottimista, qualcosa ci salverà”.
Terzo atto: restiamo fermi agli anni Duemila e Sarah, madre di Sophie, è impegnata a raccontare la storia di cui è stata protagonista ricalcando le orme della tragedia compiutasi per farne un’opera cinematografica. Con il regista e la ”terapeuta narrativa”, nelle tre stesure, vediamo i tre collaborare per “una storia di guarigione dall’ottimismo di Candide”, in cui solo attraversando il dolore in prima persona si può raggiungere la speranza ottimistica. Il conflitto che la donna ha con il regista risiede nella volontà di non volerne fare un film solamente cruento e amaro ma di raggiungere una complessità attraverso lo stare con persone che hanno veramente sofferto, che conoscono da vicino i significati che intende proporre senza renderlo parte di un business per addormentare le coscienze. Come pausa tra i dialoghi, vengono proiettate sullo schermo immagini in cui il sangue è protagonista: crude, reali.
Quarto atto: torniamo indietro nel Settecento dove il peregrinare di Candide verso Cunegonde lo conduce ad El Dorado, un nuovo mondo, una sorta di comunità socialista in cui tutto appare semplice e non c’è spazio per le domande del filosofo. In un luogo in cui un unico Dio non c’è ma è in ognuno di loro, in cui il sovrano non risiede in una persona ma è un ruolo giocato dagli abitanti a turno, in cui amano tutti indifferentemente. Prende inizialmente la cittadinanza ad El Dorado ma si accorge che non è una vita fatta per lui, in quanto le sue domande non vengono accolte in quel modo di affrontare la quotidianità. El Dorado sembra rappresentare il sacrificare la riflessione per una visione semplicistica delle cose, senza imporsi interrogativi aperti, senza stimolare l’accrescere della prosperità. Quale altra passione rimane a poter tenere in vita? Bisogna provare per fallire per poi riprovare e riuscire... Con questa consapevolezza vola via in modo bizzarro e scenicamente accattivante: prende il volo con una pecora e i palloncini che lo avevano accolto al suo arrivo, colorati e simbolo di spensieratezza nonchè pausa dall’eccessivo ragionare e domandare.
Quinto atto: andiamo oltre in un futuro di cui ancora non c’è traccia, in cui l’ottimismo si è insinuato come ossessiva ricerca e scopo principale dell’esistenza. Gli attori, con abiti luccicanti scendono fisicamente tra il pubblico facendosi portavoce della scoperta del gene dell’ottimismo che verrà instillato in tutti senza eccezioni. Il “guru” Pangloss è titolare dell’Istituto “Ottimismo per tutti” e il suo modo di presentare il progetto di ricerca e i progressi compiuti mi ricordano i corsi che si stanno diffondendo a macchia d’olio di sviluppo personale, di “come far aumentare la tua autostima”, “come essere un vero leader”, spesso non fondati su basi scientifiche ma macchine di business per attirare una clientela che vuole credere che gli saranno d’aiuto. Una clientela spesso chiusa e ottusa che ricerca profusori di emozioni positive, “motivatori”, ignorando l’assenza disarmante di basi scientifiche in questi insegnamenti. Non rendendosi conto che anche le emozioni negative vanno affrontate ed integrate e non espulse violentemente perché fanno parte della natura dell’essere umano e, se affrontate con consapevolezza, si rivelano profondamente funzionali. “Non dovete prendervi il lusso di essere infelici”, recita il team di ricercatori che ora è salito sul palco: accantonate la sofferenza, chiudete gli occhi, non guardate quello che sta accadendo e che è sempre più disastroso. È disarmante questo voler e dover far finta che tutto vada bene, ignorando i danni che si stanno consumando sul pianeta: è una prospettiva futura terrificante e deprimente in cui il pensiero critico è definitivamente eliminato. In questo scenario futuro si incontrano le epoche: Sarah del Duemila, Candide del Settecento e Cunegonde ormai esausta e consumata dall’età. Cunegonde è simbolo dell’Europa che cerca un “ultimo bacio”, una speranza, rimanendo attaccata ai ricordi dei tempi passati, rimasta in vita grazie all’ottimismo. Un’Europa che non si è mai fatta delle domande ma ha proseguito ciecamente senza guardarsi indietro. L’accostamento finzione-realtà presente in tutto lo spettacolo è qui espresso con forza anche da una delle battute finali: “Ottimismo: un sistema di crudeltà con un nome rassicurante”.
Gli attori, complessivamente bravi, contribuiscono a dare forza al testo con ironia, sarcasmo ed interpretazioni diverse tra loro: sembra che la regia di Fabrizio Arcuri abbia lasciato conservare agli attori il loro modo personale di entrare nella parte senza omologarli ad una modalità univoca di stare sul palco. Il ritmo è vivace e si adatta a linguaggi e generi diversi nel corso della pièce. Nonostante le età molto diverse, gli attori sembrano un gruppo ben assemblato e riuscito nell’eterogeneità. In particolare l’attrice Lucia Mascino mi è piaciuta nell’alternarsi tra cinque ruoli, così diversi tra loro che al primo impatto non li riconducevo alla stessa persona: il drammaturgo settecentesco, la frivola nuova compagna del padre di Sophie, la terapeuta narrativa, un abitante di El Dorado e infine l’infermiera del futuro; anche Filippo Nigro è stato convincente nello spostarsi dal ruolo del passato a quello dello sceneggiatore cinico di oggi.
Le scene di grande effetto, l’accostamento degli attori, i salti temporali e il tema filosofico hanno un effetto duplice: quello di far restare ipnotizzati e curiosi ma anche quello di restare perplessi e a volte distaccati non cogliendo in pieno alcuni passaggi. Questi vengono colti solo successivamente, dandosi un tempo dopo lo spettacolo per riflettere: forse questo impegno richiesto allo spettatore ha fatto desistere alcune persone in sala che hanno sorprendentemente abbandonato il teatro molto prima della fine.

 

 

 

 

Candide
di Mark Ravenhill
ispirato all’opera di Voltaire
regia Fabrizio Arcuri
con Filippo Nigro, Lucia Mascino, Francesca Mazza, Francesco Villano, Mattero Angius, Federica Zacchia, Francesca Zerilli, Domenico Florio, Lorenzo Frediani, Giuseppe Scoditti, Luciano Virgilio
scene Andrea Simonetti
costumi Fabrizio Arcuri
video Luca Brinchi, Daniele Spanò
live visual Lorenzo Letizia
musiche H.e.r.
produzione Teatro di Roma
in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina
lingua italiano
durata 2h 10'
Napoli, Teatro Mercadante, 16 marzo 2016
in scena dal 15 al 20 marzo 2016

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