“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 22 November 2012 20:29

Le confessioni di un pugile materasso

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Quando vidi il primo incontro di boxe avevo 16 anni. La boxe a quell'epoca rappresentava quello che era più lontano dai miei ideali di sport e disciplina; disciplina intesa come sinonimo di correttezza e rispetto delle regole, ma soprattutto come strumento essenziale del vivere civile. Man mano, con gli anni, ho leggermente mutato la considerazione, da un punto di vista prettamente sportivo, che fosse uno spettacolo privo di vero mordente, come all'epoca invece consideravo il calcio. Mai però mi sarei aspettato che a trent'anni sarebbe diventato il mio sport per eccellenza, tanto da farne, se mi passate il termine, un'applicazione metodologica del quotidiano. Il fatto è questo, ad un certo punto della mia vita ho dovuto fare a pugni.

Con "fare a pugni" non intendo necessariamente alzare fisicamente le braccia e protrarle violentemente contro l'avversario, ma più banalmente sbattere contro un muro. Il muro è ciò che chiamo: l'avversario di turno, l'avversario dai mille volti che incrocerà con te i guantoni all'insegna di mille battaglie sanguinolente. Il mio primo incontro fu all'incirca nel 2001, l'avversario era un pugile di già buona esperienza, diciamo così, già collaudato, una sorta di Jack Sharkey, un mestierante insomma, dal rendimento sicuro, ma privo di grande talento, con la pecca di farsi mettere giù dal primo macchinoso gigante "carneriano" dell'occasione.

L'incontro lo vinsi ai punti senza strafare, consisteva nel superare una sorta di esame, comunemente detti "della maturità", la commissione d'esame mi diede 7 round su 12, una vittoria stentata quindi, ed una promozione sul filo del rasoio, del resto però la mia preparazione tecnico-atletica era pessima, non mi ero praticamente allenato per tutto l'anno. È inutile fare adesso un elenco di tutti gli incontri che ho disputato, non è questo lo scopo dello scritto in questione, quanto più un resoconto riassuntivo dell'allegorica metodologia accennata in precedenza e del senso che ha acquisito nel tempo. Sono un pugile di medio livello, che non ha grande simpatia, come già detto, per gli allenamenti. In carriera non ho ancora incontrato Sugar Ray Robinson, ma non mi dispiacerebbe confrontarmi con il pugile perfetto, che balla per tutto il ring, ti fa girare a vuoto fino a sfiancarti, poi improvvisamente accorcia la distanza, ti stringe alle corde e picchia, ti spacca naso e sopracciglia, neanche gli zigomi possono scampare alla sua furia, e nemmeno gli angoli delle labbra fanno eccezione, poi mira al mento, dopo averti pestato per bene vuole buttarti giù col colpo perfetto di pura classe. Colpire al mento con forza e precisione significa buttare giù l'avversario, a meno che tu non abbia una mascella di ferro alla Rocky Marciano, s'intende. Essenzialmente però quando il pugno arriva deciso c'è poco da fare, lo spostamento laterale violento della mandibola fa da leva alla calotta cranica che ha uno scossone improvviso talmente forte da spegnere per qualche secondo il cervello con le sue qualità cognitive e di coordinazione motoria.

Ebbi un perfetto colpo al mento nel 2002. Purtroppo le faccende di cuore rappresentano quasi sempre gli avversari più temibili, e le donne, si sa, usano il gancio destro molto bene (fanno anche molto uso dei colpi bassi, ma non vengono quasi mai squalificate).

Se posso esprimere una preferenza su un mio avversario, posso dire che ho adorato combattere contro Joe Louis; quando presi le bacchette la prima volta per percuoterle su quattro tamburi fu così istintivo e viscerale, forse genetico, che dentro di me non riuscivo a comprendere la poetica sensazione della contesa eraclitea. La guerra con questo tipo di avversario a quei tempi era ancora sopita, o quantomeno inconsapevole, ma non avrebbe tardato molto ad arrivare. Ad un certo punto infatti la batteria cominciò ad assumere i tratti tipici del fuoriclasse degli anni 30 e 40, the brown bomber, il bombardiere nero che, anche se di colore, fece sognare l'America agli albori della seconda guerra mondiale sconfiggendo l'emblema sportivo del führer, Max Schmeling.

Ad ogni modo, quei tamburi erano troppo forti per me, sono un pugile di medio livello ripeto, anzi meno, un semplice dilettante, non posso certo competere con Joe Louis. Devo ammettere però che in passato sono venuti fuori begli incontri, emozionanti anche per gli spettatori, almeno questo mi è stato poi detto. Di tanto in tanto ci incontriamo ancora, è sempre un piacere scambiare quattro colpi con i tamburi, ma purtroppo continuo a perdere, e sempre negli ultimi round.

Forse leggendo vi starete chiedendo che senso ha portare ancora per le lunghe questa carriera che ha il profilo del perdente. Ci ho pensato varie volte, appendere i guantoni al chiodo potrebbe essere la soluzione, ma tutto sommato ho ancora qualche buon colpo da far partire e soprattutto credo di essere anche un discreto incassatore, certo non ho il coraggio di Micky Ward o Jake La Motta, ma voglio ancora provare a confrontarmi con qualcuno di importante, magari sognando che arrivi prima o poi anche per me la grande occasione dell'incontro per il titolo. Ad ogni modo non è questo il punto, ma mi riservo il dunque per l'ultimo round. Comunque, i combattimenti per cui vale la pena continuare a "combattere" ci sono ancora. Fantastico (e significativo) ad esempio è stato il mio incontro con Marvin "Marvelous" Hagler circa 5 anni fa. Mi accostai alla filosofia per semplice curiosità, non un vero e proprio studio in senso accademico, quanto più un puro comprendere fine a se stesso, una piacevole ricerca del meraviglioso (marvelous) da saziare in perfetta sintonia con quell'archè di aristotelica memoria che è la meraviglia. Hagler però era un pugile geniale, capace di cambiare la guardia da destra a sinistra con una naturalezza disarmante. Più ci combatti contro e più ti accorgi della vastità del suo repertorio, una vastità che poi alla fine ti fa perdere la percezione di una verità assoluta, ti sprofonda nel relativismo più acuto, ti annichilisce. Il nichilismo, alla lunga, è risultato essere l'unico argomento che mi pare, ad oggi, difendersi ancora bene dall'aristotelico principio di non contraddizione. Decisi quindi di non accettare un altro confronto con Hagler, troppa meraviglia mi stava accecando. Credo di poter dire che quello è stato forse l'ultimo combattimento degno di nota che ho disputato, ma ce n'è uno perenne che continuo ad affrontare ogni giorno. Sono fiero di questa solenne banalità che sto per dire: l'incontro più duro è con me stesso. Il problema di quando lotti contro te stesso è che, conoscendoti un poco, sai che non puoi superarti, sai in partenza che il tuo montante sinistro non farà poi troppo male all'altro te e, diciamocelo, il mio montante non è poi questo gran colpo. Sai perfettamente che per arrivare a sferrare il gancio, lui (l'altro io) deve abbassare le difese, ma sai altrettanto bene che non lo farà mai, non ha il coraggio di La Motta per venire avanti a viso scoperto, lo abbiamo già detto, ha il tuo stesso limitato coraggio e non ci caverai un ragno dal buco. Niente da fare insomma, è una situazione di stallo e la continua lotta con la propria ombra alla lunga rischia di confondere questo corpo fisico con la figura nera che proietta sul medesimo muro rappresentante quell'eterno nemico già menzionato. Tutto sommato però lo ammetto (e queste righe stanno assumendo sempre più la morfologia della confessione), non è poi così male starsene bloccati. È come avere una scusa per non far niente, mantenere in potenza le azioni dovute ma mai volute, in un limbo, un purgatorio di "fatti" mai fatti, rimasti a galleggio sul mare della quiddità. Mi sembra di sentire di nuovo i vostri commenti: "a che scopo allora riallacciarsi i guantoni, agire e combattere?". Credo di non ingannarmi se affermo adesso di non aver mai parlato di "scopo", di "motivo per agire". Lungi da me alcuna prospettiva utilitaristica dell'azione. Sono un caparbio sostenitore delle teorie di Eudosso, lasciatemi il gusto di tanto in tanto di veder scorrere il sangue sul volto del mio antagonista, il piacere del "Piacere" fine a se stesso. Solo questo mi par vero, che intangibile al dolore sia rimasto solo il piacere. Che si sappia, non mi attendo un buon verdetto dai giudici dopo quanto detto, mi basta la goduria che sto provando nello scriverlo e poco importa se mi fermerete per technical KO prima che arrivi alla conclusione, anche se mancano ormai pochi secondi, come nel lontano marzo 1990 tra Meldrick Taylor e Julio Cesar Chavez. Taylor era pugile elegante e di buona tecnica, mentre Chavez era, da par suo, un terribile picchiatore e, da buon messicano, restio ad arrendersi anche dopo i colpi più duri. Al dodicesimo round il messicano è sotto nei cartellini di tutti e tre i giudici, ma all'ultimo tempo questo formidabile picchiatore, in seguito poi soprannominato la leggenda, trova il colpo della vita, e l'elegante Taylor va KnockDown. Mancano però solo pochi secondi al termine dell'intero incontro. L'arbitro Richard Steel inizia il conteggio, intanto Chavez va nell'angolo più lontano come da regolamento. Taylor arrancando si aggrappa alle corde e a fatica si rialza, l'arbitro interrompe ad otto la sua conta, Tayolr vacilla, ha gli occhi appena aperti e l'espressione confusa, come si dice in gergo è groggy. Steel lo studia, lo fissa per un paio di secondi, intanto il cronometro scorre, mancano solo 4 secondi alla fine dell'incontro, poi Steel prende la sua decisione, una delle più controverse nella storia della boxe, alza le mani, le agita, e scuote la testa accennando un "no" con le labbra. E' il segno della fine, ha decretato Taylor sconfitto. Chavez ha vinto. Inutili le proteste del clan del perdente, eppure questo incontro non può non essere motivo di dibattito. Il mondo della boxe si chiese, e me lo chiedo anche io, cosa avrebbe potuto subire Taylor, seppur indifeso, in soli 4 secondi. Consideriamo poi che Chavez doveva percorrere praticamente tutta la diagonale del ring per raggiungere l'angolo opposto, sarebbe rimasto quindi poco più di un secondo. In poche parole quindi Taylor avrebbe comunque vinto ai punti, ma obbiettivamente dobbiamo ammettere che l'arbitro, regolamento alla mano, ha valutato che il pugile appena rialzatosi non era in grado di continuare e, senza farsi prendere da profonde questione filosofiche riguardo al buon senso, ha deciso per il ko tecnico. Nella mia decennale carriera non mi è mai capitata una situazione del genere, o almeno non me ne sono accorto, e sinceramente, come potrete facilmente intuire, non mi interessa trovarmi dinanzi ad una situazione ai limiti tra ciò che è comunemente accettato come giusto e ciò che lo è, diciamo così, legalmente. Non è poi questo gran dilemma per uno che si accontenta di assaporare semplicemente l'odore del ring. Di tanto in tanto però, quando mi capita di incontrarmi allo specchio mi pare di sentire una arcaica voce biblica, di quelle che si insinuano nel cuore e nella mente e accendono il desiderio. Quell'infame desiderio che ti incita a volere, a pensare di agire. È a quel punto che riprendo i guantoni, piede sinistro in avanti, pugno destro a difendere il mento e via con il jab proteso a creare spazio per il gancio. Ma niente da fare, tutto tempo sprecato, infatti un altro jab di egual misura e di egual potenza si muove in senso contrario. È il pugno della mia mancanza di volontà che però non riesce a farsi nolontà, della mia incapacità a vincermi, a prendere le scelte importanti o a rifiutarle del tutto, a mettermi in gioco senza la paura di andare al tappeto. E intanto l'altro me avanza, è come Joe Frazier, inarrestabile, una furia impietosa. Abbassa la testa, movimento del busto in verticale e schiva tutto, ci vorrebbe una serie di montanti alla George Foreman, ma come ho già detto, non ho per niente un buon montante. In fin dei conti però non c'è di che lamentarsi troppo, sono un dilettante che non sa ancora se passerà al professionismo, e finché rimarrò in questa categoria i pugni faranno meno male. Certo è che se un giorno dovessi battere Joe Frazier, allora potrei anche pensare alla scalata per il titolo e l'illusione che mi accompagna è un "Piacere".

 

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