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Friday, 19 February 2016 00:00

Lo zio Vania di Rubiera

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“Io due cose volevo fare nella vita: giocare a pallone e andare a vivere al mare. Non ho fatto nessuna delle due!”.
È qui, in questa pungente considerazione a metà messinscena, che si condensa la stagnazione esistenziale di cui si fa narrazione in Vania, progetto vincitore del Premio Nazionale “Giovani realtà del teatro 2015”.
Difficile immaginare un Čechov che regionalizza, espatriandoli, i suoi personaggi; ancora più difficile prevedere una messa in scena che, pur tenendo fede alle atmosfere originarie, le contemporaneizza fino a renderne lontana la matrice.

Il qualunquismo che spingerebbe a sillogistiche deduzioni: tutti i russi sono rossi, i più rossi sono emiliani, gli emiliani sono russi, qui funziona a rendere empatico, contemporaneo e familiare questo Vania dall'accento emiliano che, a questo punto, potrebbe tranquillamente vivere la sua vita e le sue angosce in una nebbiosa Rubiera piuttosto che in un uggioso Ventasso. Fabio Zulli dà voce a tutti i quarantenni frustrati ed ingabbiati tra obblighi familiari ed incapacità a sognare, è lì, perfetto, a riproporre i suoi vent'anni di sere al bar del paese con gli amici e qualche donna, che ogni tanto si avventura in un fuori porta, viaggio di scoperta e di conquista, per far sempre ritorno alla, molto poco avventurosa, casa paterna. Il suo Vania convince per verità, tristemente, per quotidianità. Porta in scena l'amarezza cantata da Rino Gaetano “Partono tutti incendiari e fieri, ma quando arrivano sono tutti pompieri”. L'incapacità a fare il salto, e forse sarebbe bastato un passo, uno slancio del pensiero, un sogno; ma questa generazione, i quarantenni di oggi – da qui la contemporaneità della proposta – cresciuta a pane e letture di rivoluzioni, la rivoluzione non l'ha mai fatta veramente, troppo affannata a restare a galla, a trovare una collocazione, una sopravvivenza così lontana dai sogni dei vent'anni. Claudio Lolli più di quarant'anni fa cantava: “Vent'anni tra milioni di persone che intorno a te inventano l'infermo... povero di realtà, ricco di sogni... rabbia sete e acqua salata”. Lolli cantava di una generazione che però, alla fine, quel salto era riuscita a farlo, che aveva gettato le basi per una nuova coscienza civile, nuove proposte, nuove conquiste, una rivoluzione efficace insomma. I ventenni di vent'anni fa, quarantenni di oggi, possono raccogliere solo le briciole di utopie in frantumi, con sulle labbra l'acre frustrazione che ci ha commosso al cospetto del Lo Russo/Abbatantuono nel Mediterraneo di Salvatores: “Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente, allora gli ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice, così gli ho detto e sono andato via”. E così Vania progetta di trasferirsi al mare, e per un po', i suoni mandati dal mixer ce lo lasciano credere, ma troppo incancrenita la sua inerzia, troppo vivo il corpo morente di Sergio per poterlo fare veramente.
Vania, braccato, impotente, capofamiglia per convenzione, è somma algebrica di chi lo circonda: del dottore, amico da sempre, rivale in amore, schiacciato tra un lavoro che non l'appassiona più come un tempo, l'amicizia di una vita e l'amore corrisposto ma irriverente per Elena, bella e ancor giovane moglie di Sergio; Elena insofferente seconda moglie, e per questo mal vista da Sonia, figlia di primo letto di Sergio, Elena in preda alla passione per il dottore, alle prese con la fastidiosa corte di Ivan, Elena che punta alla morfina come obnubilamento della coscienza e dell'insoddisfazione. Sergio l'immobile, Sergio l'attesa, Sergio non vivo e nemmeno morto che però detta i ritmi alla scena, ne determina i cambi, vero motore delle vite altrui, che gestisce fino in fondo. E poi c'è Sonia, l'unica che quel salto ha provato a farlo, Sonia che prova ad affrancarsi dal peso della morte non morte di suo padre, procace adolescente ancora in grado di sognare che crede di cambiare destino e umore trasferendosi a Londra, Sonia che canta, e che con il suo accento meneghino ci porta in piena periferia urbana, Sonia "abituata ad un cielo a buchi che vede sempre più lontano, così fragile, così infelice, che urla rabbia senza radici con occhi tinti e con niente in mano". Sonia costretta a tornare, che pur delusa non smette di sognare, unica nota di colore nella nebbiosa esistenza altrui.
Ma in questo mare di morti che camminano, viva è la drammaturgia, giusta, incisiva, collettiva ed ancor di più opportuna. Idea che si fa carne, respiro affannoso e asfittico, casa, stanza, sedia, ma anche ebbrezza e mare. Le uniche musiche proposte ce le regala, dal vivo, Sonia, sogni, illusioni, disillusioni quasi sussurrate distrattamente. Čechov c'è, ci sono le sue atmosfere, i suoi malesseri, e c'è anche ironia, dissacrazione, un sarcasmo che tenta di scrollarsi di dosso il peso dell'angoscia, affidando ad un motto di spirito la possibilità di sopravvivere al fardello dell'esistenza, custode ultimo dell'amore per la vita dell'autore russo.
Bello ed essenziale il piano luci, con le americane a tre metri di altezza, a chiudere ancora più queste stanze di vita quotidiana, perchè è nella casa il conflitto, nella casa la soluzione; piantane, individuali ed individualiste, ad illuminare angosciose esistenze. Stessa attenzione alla scenografia, minima, essenziale, singola come le sedie, ma collettiva come le scene; perché tutto accada là dove è spazio scenico. Chi esce di scena non lo fa mai veramente; i conflitti, le esitazioni, le paure rimangono a veglia di un corpo che non si decide a morire, ciascuno si autodenuncia sotto lo sguardo inerme degli altri.
Lo spettacolo è bello, il rischio di caricare d'angoscia lo spettatore c'era tutto, ma così non è stato; troppo bravi gli attori, troppo attenta la lettura proposta, l'idea, l'intenzione e la restituzione.
Il plauso che accoglie gli inchini finali ripaga la disattenzione di una città assente, una borghese accettazione dell'usuale che non si lascia incuriosire dalle nuove proposte, e che, forse quella sera, avrebbe dovuto fare i conti con i sogni dismessi e gli entusiasmi svaniti, con la serenità del posto fisso e della villa al mare.
“Fuoritraccia”, prima rassegna di teatro, veramente, dalle interessanti proposte, ha, per Gubbio, sogni grandi ed entusiasmanti prospettive, ci auguriamo la città se ne accorga prima che questi ventenni diventino tanti Vanja stanchi e disillusi.
Ne abbiamo seguito anche un secondo appuntamento (di cui dà lettura attenta ed articolata Alessandro Toppi: Pensieri al cospetto di una marionetta) dedicato alle famiglie, le nuove generazioni a teatro, quel pomeriggio, c'erano; contiamo sul loro sguardo appassionato, puntiamo alla loro innocenza, unica vera áncora per una barca in balìa del business dei cartelloni senza sogni e speranze.

 

 

 

 

Fuoritraccia
Vania
ideazione e regia Stefano Cordella
drammaturgia collettiva
liberamente ispirata a Zio Vanja
di Anton Čechov
con Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso, Fabio Zulli
costumi e realizzazione scene Stefania Coretti, Maria Barbara De Marco
disegno luci Christian Laface
organizzazione Giulia Telli
assistenti alla regia Daniele Crasti, Francesco Meola
produzione Òyes
con il sostegno di
fUnder 35
lingua italiano
durata 2 h
Gubbio (PG), Teatro Comunale “Luca Ronconi”, 12 febbraio 2016
in scena 12 febbraio 2016 (data unica)

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