“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 March 2013 13:05

A Vicolo Della Ratta, Civico 14

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“Vicolo Della Ratta è solo un viottolo stretto e senza uscita, al centro della città. Marianna c’è cresciuta: a occhi chiusi saprebbe indicare fino a dove il sole riesce a penetrare tra le case prima di lasciare spazio alla sera”. Marianna, a occhi chiusi, saprebbe giungere all’edicola; a occhi chiusi Marianna saprebbe giungere alla piazza mentre, a occhi aperti, “non saprebbe indicare con assoluta certezza il metro quadro di acciottolato dov’è caduta a tre anni rialzandosi da sola con le ginocchia sbucciate e un incisivo spaccato” ma saprebbe riconoscere, senza esitazione, “il punto esatto in cui si è voltata a salutare sua madre che la fissava dal balcone, quando a vent’anni è partita per Milano”. (Giusi Marchetta, Piove a Vicolo Della Ratta).

Il teatro è incastonato in fondo a questa strada in cui si trovano un’altra strada, una piazza, una piccola chiesa. Ecco, la piccola chiesa: “Della chiesetta non aveva mai saputo il suo nome, era rimasto un disegno incerto e incompleto nella scenografia di palazzi diroccati e saracinesche di metallo. La facciata era solo un abbozzo sbreccato dall’incuria e dal tempo. Le colonne non poggiavano nemmeno a terra, reggevano capitelli leggeri e sospesi sotto un timpano che chiudeva la croce e il teschio, gli angeli paffuti e una finestra quadrata”. La protagonista di Buio (di Marilena Lucente) – donna senza nome – ancora nota: la grata di ferro, scura e silenziosa; le pietre, da cui spuntano cascate di foglie di capperi; un avanzo di fioriera in cemento. È così, facendo racconto, ch’ella ci porta in platea: “Quella sera andava in scena Sogno di una notte di mezza estate".
“E sul disimpegno che avvia al corridoio-vico, piccola piazza rettangolare chiusa da due lati che si toccano a formare un angolo, si affaccia il miracolo d’una stanzetta terranea”: parla la voce d’inchiostro di Genus Loci (di Eugenio Tascone). “La stanzuccia – così direbbe un romanziere russo dell’Ottocento – racchiude un segreto” che si cela tra “macchinari sconosciuti”, ”rocchetti e fili colorati”, “cuoio e pelle”, “un piccolo banchetto da lavoro”, “un grembiule di tessuto grezzo e pesante, sporco d’unto o consumato” e “mani sapienti che conservano un’arte toccando materie e trasformandole” per “piegarle ai bisogni” di cui la vita necessita. Puoi arrivare al Teatro Civico 14 carezzando con l’udito, la vista, l’olfatto questo luogo infossato, degno delle “illustrazioni dei vecchi abbecedari, dei vecchi sussidiari dell’infanzia”.
Puoi arrivare al Teatro Civico 14 correndo, come fa Augusto, che scappa all’infanzia verso l’età adulta (Tony Laudadio, Una porta gialla e nera); puoi arrivare al Teatro Civico 14 sospinto da una disperata esigenza infantile (come il bambino di Figure, figurine e figurelle – di Mario Gelardi – che valica la soglia per riottenere l’album Panini perduto); puoi arrivare al Teatro Civico 14 dopo aver inutilmente percorso tutto il resto della città: “E così adesso sorrido, sorrido e sono stanco al pensiero di concludere questa giornata. Sorrido e sono stanco all’idea d’aver fatto davvero tutto il possibile, almeno per oggi. Sorrido, sono stanco, cammino fino al bar e torno a casa. Ho smesso di aspettare altrove e sono rimasto qui, costruendo ogni giorno la mia tempesta perfetta”. È la conclusione di La tempesta perfetta di Emanuele Tirelli, racconto nel quale l’Evento (e l’attesa di esso) genera l’affermazione della propria fatica, del proprio impegno, della propria laboriosa maestranza. “Sono rimasto qui” (persistenza nel territorio) “costruendo ogni giorno” (dovizia all’impegno) “la mia tempesta perfetta” (ciò che lo sforzo produce).
Puoi arrivare così al Teatro Civico 14 come puoi tentare di arrivare senza arrivare davvero: “Carlo entrò in macchina, sistemò lo specchietto per guardarsi, accorgendosi che non era più un bambino, che ora addirittura aveva la barba, e anche folta. Controllò come stava, se i suoi capelli erano in ordine, se aveva qualcosa tra i denti, fosse pure lo spazio”. Era nervoso, Carlo, era nervoso perché si sentiva “trascinato lontano dalle sue certezze”. “Inserì l’indirizzo nel navigatore, il primo della lista o almeno quello che, dopo ore di valutazione, era risultato tale nella sua personale classifica dei posti in cui avrebbe voluto lavorare: Vicolo Della Ratta 14, Caserta. E partì”.
“Nessuno sa come sia andata a finire, né dove si trovi o cosa faccia adesso Carlo” (MatematicaMente, di Fabio Tilocca).
Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché trascinato dal nome di un attore, dal titolo di un’opera, da una curiosità senza motivo apparente. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché sei un amante della polisemia del palcoscenico, che permette di generare montagne dov’era il mare, dov’era un circo, dov’era un ufficio senza che le montagne, il mare, il circo o l’ufficio siano davvero visibili al tatto degli occhi. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché sai che vi appaiono storie che hanno la durata di un’ora ma che – se buone storie – ti porti addosso per giorni, per mesi, per anni. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché sai che vi appaiono storie che, una volta sparite, sono sparite per sempre. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché ogni spettacolo comincia a finire nel momento in cui inizia; perché ogni interprete giunge, recita, riparte per replicare altrove e lontano; perché il teatro è un attimo fugace e presente che vive e che muore della sua stessa durata. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché il teatro è l’incontro tra un attore e uno spettatore: a te scegliere la parte che più ti si addice. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché hai necessità di incontrare “l’instabilità e i soprassalti e l’incongruo di un vivere” che è il vivere teatrale (Angelo Maria Ripellino); perché necessiti di condividere “molte vite, giacché la tua non ti basta, già decisa com’è dall’inizio alla fine” (Ernesto Ferrero); perché “il teatro è precisamente il punto d’incontro tra i grandi quesiti dell’umanità e la dimensione artigianale della pratica” (Peter Brook). Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché desideri che ti s’imprima sull’anima il colore di una tenda, il suono di una battuta, l’espressione di un gesto, il tempo di un respiro, il silenzio di una pausa. Al Teatro Civico 14 puoi arrivare perché sai che – dove c’è un teatro – è possibile che la bellezza si manifesti riuscendo a convincerti, perché sai che hai un disperato bisogno della magia, perché sei cosciente che uno spettacolo separa il tempo di prima (ciò che eri) dal tempo di poi (ciò che sarai).
Da oggi al Teatro Civico 14 puoi arrivare anche attraverso i racconti di un libro dalla copertina bluastra. Unendo le pagine alle pagine, fondendo le voci alle voci, Vicolo Della Ratta/Civico 14 sembra – più che un’occasione editoriale – la concretizzazione cartacea del principio che regola ogni vera stanza teatrale: essere luogo di accoglienza e di sosta, di riparo e rifugio, di espressione e commento; essere luogo di gestazione, di coabitazione, di condivisione; essere luogo d’iniziativa, di proposta, di offerta.
Scegliendo la forma della raccolta-di-racconti-diversi-per-firma-e-per-stile (e non, ad esempio, il romanzo di fattura unica) Vicolo Della Ratta/Civico 14 si rende metafora tattile di questo sforzo ostinato. Così la copertina è l’assito, ogni singola narrazione è una messinscena, l’insieme delle narrazioni fanno un cartellone. La lettura che ne viene somiglia a una stagione teatrale al completo.
Proponendo gli scorci vocianti da foyer di Vox Populi (Ilaria Delli Paoli), la fantasia futuribile di Holyday Inn-Tifata (Antonio Iorio), la violenza dialettale e da vicolo di Una serata tranquilla (Massimiliano Virgilio) accanto, ed assieme, al gioco del doppio di Lo spettatore (Collettivo Corpo 10), alla misera condizione basso-maradoniana di Fratello di Dio (Arnaldo Greco), all’inerzia malevole da ispettorato corrotto di L’Ultima istanza (Francesco Forlani) – per non dire di tutti, che necessiteremmo di un’altra pagina intera – si compie tra le mani ciò che si compie in un anno di vicende drammaturgiche: ad autore segue autore, a invenzione segue invenzione, a visione segue visione.
Ancora da Genius Loci: “Lavora come d’aratro nel campo dove vero e bello sono coperti per segnarlo a solchi, perché i semi del loro linguaggio possano svilupparsi, e rappresentare così la vita. Ritualmente, facendo baccano o muovendosi felpato, corre e ricorre tra il riso e il pianto nel nostro spazio interiore, che qui ha il suo luogo”.
Così funziona per un buon teatro, così funziona per un buon libro.
Così funziona per Vicolo Della Ratta/Civico 14.

 

 

 

AA.VV.
Vicolo Della Ratta/Civico 14
a cura di Collettivo Corpo 10
Mutamenti Edizioni, Caserta, 2012
pp. 128

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