“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 18 February 2016 00:00

Il lieve movimento di "Due donne che ballano"

Written by 

Interno dismesso, spoglio ma curato, realista. Quinte, una porta d’ingresso vera e uno spazio ricavato ai margini della scena, che funziona come una sorta di cantuccio. Pavimento a quadri grigi e bordeaux, pochi oggetti tra cui un tavolo con due sedie in tono, sullo sfondo una grande libreria, piena di "giornalini".

Sono queste le tinte sfumate entro cui si muovono, come animali in gabbia, Maria Paiato e Arianna Scommegna, costrette alla coabitazione dal reciproco bisogno l’una dell’altra.
La Paiato nei panni di un’anziana signora burbera e irriverente, cui i figli decidono di affiancare una badante, antifona dell’imminente trasferimento in un ospizio. Quest’ultima, interpretata dalla Scommegna, è una donna ancora giovane con una storia triste, che si trascina come un fantasma da un’insofferenza all’altra, senza trovare pace. A entrambe manca qualcosa: la grande parete di giornalini che l’anziana donna colleziona da anni è una sorta di metafora, un transfert, non solo del vuoto esistenziale da colmare, ma della possibilità di venirne a capo, attraverso una leopardiana solidarietà, una filantropia che attecchisce solo negli individui dotati di una certa indole – sarà la Scommegna a procurare il fatidico numero 399 che mancava all’interminabile collezione. Allo stesso tempo, la fine di questa spasmodica, illogica ricerca getta la Paiato in un baratro ancora più profondo, quasi lacaniano: era il desiderio a mantenerla viva, così come l’altra donna sopravvie nel ricordo di un figlio che non c’è più.
Il grumo narrativo si scioglie sulla scena in brevi quadri, spezzati da pause che sono come dei fermo immagine. Sulle sequenze delicate di archi e chitarra elettrica curate da Paolo Coletta, le attrici restano sospese in scena, tra fasci di luce chiara che le fermano come in una fotografia. Da questo punto di vista, è interessante l’uso di quel cantuccio laterale fuori dal perimetro della scena: uno spazio grigio – bianco, dove il tempo si ferma e le emozioni si condensano nell’aria, senza mai esplodere. Una sorta di luogo del rimosso, psichico, emozionale, in cui l’umanità si manifesta, lasciandoci spiazzati. Queste due donne hanno superato i confini: della società, dell’apparenza, del buon senso comune, e sono ormai proiettate verso un modo di sentire (e di agire) altro. Hanno superato anche i confini reciproci, si sono invase l’un l’altra, a forza di colpirsi, di punzecchiarsi, di stanarsi, in un confronto reale e doloroso che supera anche la differenza di età e, alla fine, le vede entrambe disarmate. Sullo sfondo, un’umanità implosa, silente e anaffettiva: i figli della Paiato non vedono l’ora di disfarsi di lei, l’ex compagno della Scommegna ha ucciso il figlio con un colpo alla nuca. Ecco che il palco diventa un ring: dentro si consuma una lotta d’amore, fuori una quotidiana guerra tra esseri umani.
Il ritmo drammaturgico cresce gradualmente nella caratterizzazione dei due personaggi calzati perfettamente da entrambe le attrici: negli scontri verbali, nei dialoghi serrati ma leggeri, avvolti da un nonsense poetico e straniante che traspira il teatro dell’assurdo di Beckett e di Pinter, cari al drammaturgo catalano Jornet che firma la pièce. Potremmo essere negli anni ’40, ‘60 o ai giorni nostri: non importa. Da qui l’assetto apparentemente statico della messa in scena, che lavora attraverso scambi di battute di un sarcasmo sottile, con un movimento interno, sotterraneo e impalpabile che scardina da dentro i meccanismi preconfezionati dei rapporti umani, in un gioco che le due attrici conducono ad arte – è un piacere vederle recitare insieme. Il finale è un delicato e necessario pugno sui denti che ci lascia svuotati e piacevolmente doloranti. A volte, con un po’ di fortuna, in teatro succede (anche) questo.

 

 

 

 

 

 

Due donne che ballano
di Josep Maria Benet i Jornet
traduzione Pino Tierno
regia Veronica Cruciani
con Maria Paiato, Arianna Sommegna
scene e costumi Barbara Bessi
musiche Paolo Coletta
disegno luci Gianni Staropoli
foto di scena Marina Alessi
lingua italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro Nuovo, 13 febbraio 2016
in scena dal 10 al 14 febbraio 2016

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook