“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 17 February 2016 00:00

L'incontro (mancato) tra la poesia e la vita

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Avevamo la sensazione che la vita
sarebbe stata una gran cosa.
(Appunti di un suicida potenziale)

 

 

In tutte le recensioni che mi è capitato di leggere, prima di assistere a Blue Bird Bukowski (testo di Riccardo Spagnulo, regia di Licia Lanera), c'è scritto che torna in vita il poeta, che – per poco meno di un'ora – il pubblico assiste alla sua rinascita: eccolo Bukowski, col suo desiderio ancora inesausto di “cosce piene” e di birra, di alcol e di pelle, di schiuma e contatto; eccolo, incapace (o impossibilitato) com'è di finire davvero: non prima, almeno, di aver bevuto ancora, di aver sbraitato ancora, di aver scopato ancora.

Mi capita perciò di pensare che effettivamente sto assistendo alla continuazione della vita di Bukowski (o, se preferite, alla sua rinascita dalla morte) e che, quello che vedo in scena, è un uomo che non si è ancora rassegnato a diventare un cadavere: a destra c'è una porta, da cui viene una luce chiara, e associo questa porta alla vita, mentre in alto a sinistra c'è una finestra, al cui vetro avvampa ogni tanto un bagliore arancione, che per me rappresenta l'Inferno: quale destino, altrimenti, per questo volgare (de)scrittore del peccato? Allora ecco che il palco – penso ancora – è uno spazio purgatoriale, una zona di passaggio, l'anticamera che separa il luogo dove ancora ci si può definire vivi da quello in cui si è dichiaratamente morti: “Sono già arrivato?”.
Quest'idea mi si rafforza quando il Bukowski di Vito Signorile dice che vita e morte gli fanno schifo ugualmente, che sta cercando di “fregare la morte” o che vuole conservare per sé “ancora un po' d'anima” e – quando lo sento pronunciare le battute “sono seduto su un baratro, in bilico, basta solo un'ultima spinta” − sono ormai convinto che hanno ragione tutti coloro che hanno scritto ciò che hanno scritto: qui Bukowski palpita ancora e di nuovo; il poeta si dimostra eterno; che bravi autore, regista ed interpreti ad averci offerto un frammento biografico inventato e ulteriore; che meraviglioso altrove è il palcoscenico di un teatro, unico posto in cui ciò che è finito può non finire mai per davvero.
Sono passati due giorni e, in quest'ora in cui scrivo, le idee sono completamente mutate.


Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che / vuole uscire / ma con lui sono inflessibile / gli dico: rimani dentro, non voglio / che nessuno ti / veda. / Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che / vuole uscire / ma io gli verso addosso whisky e aspiro / il fumo delle sigarette / e le puttane e i baristi / e i commessi del droghiere / non sanno che / lì dentro / c'è lui. / Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che / vuole uscire / ma io con lui sono inflessibile, / gli dico: / rimani giù, mi vuoi far andare fuori / di testa?
Due giorni dopo penso che l'unica figura che vive davvero sia l'infermiera interpretata da Mary Dipace e che la protagonista dell'opera sia lei, questa lei che – al nostro ingresso in platea – aspira il fumo della sigaretta guardandoci, prima di mostrare una pistola.
È di questa donna – che non prova piacere da vent'anni, che quando si guarda allo specchio vede solo “un'immagine congelata” e che spera, ogni giorno, di farsi in mille pezzi minuscoli – che parla Blue Bird Bukowski, è di questa donna (e non del poeta) che fa biografia esponendone la tentazione irrealizzata di uccidersi, questo suo affacciarsi al burrone per poi ritrarsene, colpita e spaventata com'è dall'effetto che le fa guardare di sotto, immaginandosi sfracellata all'abisso.
Questa donna vive non vivendo o meglio: sconta la propria vita vivendola cioè sopportandola ogni giorno, sopportando ogni giorno il lavoro e i suoi turni, l'assenza di amicizie, la solitudine, la monotonia, la carenza di prospettive e la bassezza degli altri, la mancanza dei brividi e della pienezza che dà l'amore, che dà il sesso, che dà la carne quando entra nella carne. Subisce, questa donna, la condanna quotidiana di esistere e non ha il coraggio di porre fine alla condanna: tiene con sé la pistola, accontentandosi dell'idea di “poter mettere la parola fine dove voglio io” ma – probabilmente – non sa neanche maneggiarla, non ha mai posto il dito al grilletto, non l'ha mai adagiata alla tempia sentendone il freddo della canna. Sente che potrebbe uccidersi, questa donna, ma ricaccia giù la sensazione inghiottendola, come si fa con la propria saliva o con il conato quando non si traduce in vomito e lascia solo un umore di rancido. “Nel mio cuore” − potrebbe dire questa donna, usando le parole del poeta − “c'è un angelo azzurro che vuole uscire ma con lui io sono inflessibile, e gli dico: rimani nascosto". Potrebbe dire, questa donna – usando ancora le parole del poeta – che “le puttane e i baristi e i commessi del droghiere” non lo sanno che dentro lei ha quest'uccello azzurro – il desiderio di volare cioè di farla finita − a cui concede qualche volta di uscire ma soltanto quand'è sola, “di notte”, “quando dormono tutti”: “lo so che ci sei”, dice questa donna alla sua voglia di suicidarsi, prima di zittirla.
Questa donna potrebbe parlare con le parole del poeta se solo le conoscesse, se solo avesse letto un libro o un verso di quest'essere grasso e peloso, morto con la testa adagiata su un cuscino sbavato, uno che ha le unghia dei piedi lunghissime e  la sporcizia tra le pieghe della pelle, “uno famoso” che per lei altro non è che una carcassa adagiata su un letto d'obitorio, uguale e diversa ad altre carcasse adagiate sullo stesso letto d'obitorio: guanti di lattice, lenzuolo bianco, un cartellino da mettere al pollice del piede sinistro.
Questa donna invece la poesia non la legge, “leggo le riviste, ci sono le figure” dice e dunque non sa che la poesia di quest'autore – “il più grande” – parla anche di lei, parla del suo malessere, di questo vuoto che sente tra le cosce e che, salendo via via, percepisce nell'intestino, tra le costole e in bocca, attorno agli occhi, nella testa. Questa donna trova – ed è il finale di Blue Bird Bokowski – un fogliettino per terra, un tovagliolo su cui Bukowski ha scritto i suoi ultimi versi (che sia caduto dal pantalone che è stato appeso al gancio della parete di fondo?) ma – questa donna – non lo apre e dunque non si confronta con quello che il poeta ha scritto (anche) per lei scrivendo (anche) di sé: “Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che...”. Invece appallottola il tovagliolo, lo stringe nel pugno e, fatti tre passi, lo getta nel cestino.
Se questa donna avesse avuto la prontezza o il coraggio di leggere le frasi sul tovagliolo avrebbe compreso che questa poesia la descrive, che descrive il male che prova e questa sua esistenza che si trascina faticosamente ogni giorno e avrebbe avuto, per la prima volta, consapevolezza della propria condizione e dunque la possibilità di scegliere: usare o non usare la pistola? Continuare ad entrare ed uscire dalla porta della vita, reiterando cioè la propria routine quotidiana, o destinarsi all'Inferno ovvero a quest'arancione che appare ogni tanto, avvampando alla finestra, dal retro della scena?
Io ho fatto tutto quello che dovevo fare” dice il Bukowski di Vito Signorile all'infermiera, ovvero ho scritto (di me, di te, di noi); “devi solo compiere un ultimo sforzo, premere il grilletto” ossia: sta a te leggere e prendere la decisione.

Blue Bird Bukowski mi sembra quindi che metta in scena un evento non accaduto, un incontro che non c'è stato, un pensiero che non è stato pensato: non almeno fino in fondo. Non c'è Bukowski, per quanto a noi spettatori sia dato il corpo di Bukowski, ma c'è invece la sua persistenza poetica, l'avanzo letterario (questo sì immortale) di ciò che fu e che qui appare visibile solo perché il teatro è un'arte artigiana e non può fare a meno del corpo degli attori per rendere anche ciò che non è più un corpo ma solo essenza o parole (pensate al fantasma di Re Amleto, alla mezzanotte di Elsinore, e a chi lo interpreta). Ma questo Vito Signorile in maglietta rossa o a pancia all'aria, in pantaloni grigi o in mutande, che si sporca di birra o si masturba nell'angolo, immerso non a caso in una luce bianca celestiale che dispensa sui lati ulteriori effluvi turchesi, non è che la poesia messa nella condizione potenziale del confronto con una vita che vive accontentandosi di sopravvivere.
Ho scritto “condizione potenziale” perché questa vita – ossia questa donna – della poesia non sa né saprà mai nulla: non è cosciente che la riguarda, che dice di lei, che la sta descrivendo con parole che le appartengono ma che lei non sa scrivere e a cui non bada.


Cosa vedo dunque? Cinque o sei minuti di un'esistenza effettiva, realistica nel suo darsi (la prima e l'ultima scena in cui l'infermiera svolge il suo lavoro, occupandosi sbrigativamente del cadavere e facendo un paio di telefonate) e cinquanta che sono pura possibilità non portata a compimento, simile per questo alle opportunità che non abbiamo colto, ai discorsi che non abbiamo pronunciato o ai baci che non abbiamo dato, alla persona che abbiamo lasciato andare, alle parole che continuiamo a ignorare. Blue Bird Bukowski non mostra quindi ciò che è morto per vivo ma quel che sarebbe potuto essere e che non è: questa donna che rifiuta, battaglia, disprezza ed offende la poesia prima di lasciarsi avvicinare, carezzare e comprendere dalla poesia, fino a confessarsi essa stessa alla poesia così cedendole e cioè facendosi penetrare dai suoi versi come fa ogni donna quando si apre, disponibile – fosse solo per il tempo dell'orgasmo – a perdersi cioè a dimenticarsi di sé e di tutto il resto, cedendo all'abisso, affrontando il burrone.
E la birra, le unghie, la barba, la pancia gonfia, il sesso floscio o indurito, il battito di una mano alla coscia, la stretta al seno, la bava che cade dalle labbra di questo meraviglioso e carnale Bukowski/Vito Signorile ovvero tutti gli elementi corporei che sembrano invece dare concretezza alla sua presenza, che a me pare effimera? Detto della fisicità inevitabile del teatro, non sono che il portato reale della poesia stessa, la coniugazione in concreto del verbo, un rimando inevitabile che deriva dal confronto con i versi: non ci sembra in fondo di vedere la birra, le unghie, la barba e la pancia gonfia, il sesso floscio o indurito, una mano sul seno o tra i peli di un pube quando leggiamo una pagina di Bukowski, non ci sembra tutto questo reale anche se è soltanto un racconto, un insieme di frasi, un riporto o un'invenzione?
Perciò decido di chiudere gli occhi, durante Blue Bird Bukowski, rinunciando per qualche secondo alle imposizioni della vista e mi godo soltanto il sonoro: questo incontro impossibile durante il quale un poeta ancora vivo, nonostante sia morto, prova a parlare a una donna che si sente già morta, nonostante sia viva: nella realtà non riuscendovi.


La riconoscibilità della poetica di Riccardo Spagnulo e Licia Lanera appartiene al modo nel quale tutto ciò è reso. Vi sono, infatti, una serie di piccoli dettagli che permettono di associare stilisticamente questo ad altri spettacoli scritti e messi in regia da Fibre Parallele. C'è l'intreccio per cui diventano indistinguibili l'una dall'altra la bellezza e la bruttezza; c'è il dualismo compensativo tra le figure; c'è la sottolineatura quasi vorace degli istinti primari; c'è la lordura (l'alone sulla maglietta) che qui convive col vertice della citazione o dell'allusione letteraria; c'è la carnalità e il suo rifiuto e c'è anche una dimensione politica poiché Blue Bird Bukowski diventa anche un interrogativo posto a ogni singolo spettatore presente: quanto siamo davvero consapevoli della maniera in cui stiamo (sopra)vivendo?
Ci sono poi pratiche compositive (l'assenza della quarta parete, l'alternanza tra monologhi e dialoghi, la figura posta inizialmente fuori dal rettangolo di scena, il perfetto equilibrio della coreografia corporea: lui disteso lei, in piedi; lei a destra, lui a sinistra; lui seduto in terra, lei seduta sul lettino fino al primo incontro – a metà spettacolo – l'uno accanto all'altra, per dire dell'evolversi della relazione) e queste pratiche confermano la costante crescita artistica del duo barese. Si aggiungano, firma ulteriore, i frammenti di discorso (
esempio: “Quando manca alla fine del turno?”, “Qualche minuto”; per cronometrare lo spettacolo) o le dinamiche motorie (l'infermiera che esce dalla quinta di sinistra per rientrare dalla porta di scena, posta sulla destra) che dicono anche della teatralità mai celata dell'opera: così basta che una birra rotoli sul lettino perché significhi che è stata bevuta, senza essere stata bevuta davvero.
In aggiunta il disegno luci: basta notare la verticale alta che illumina la scatola di guanti in lattice (messa in evidenza anticipatoria del momento finale, in cui l'infermiera torna ad occuparsi del cadavere;
richiamo alla realtà) per comprendere il valore del lavoro svolto da Vincent Longuemare.
E poi
questi due interpreti: possente fantasma Vito Signorile, ad un tempo anima posseduta dalla sofferenza e portatore bastardo di consapevolezza e dolore; agra (fino ad essere respingente) Mary Dipace, il cui volto è secco quant'è secco il volto di chi non sa più piangere, roca è la voce, rigido ogni suo movimento. Fissa se ne sta, nel penultimo  istante dello spettacolo, così ricordandoci che “la cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte”.

 

 

 

Su Blue Bird Bukowski si veda anche: Michele Di Donato, È morto Bukowski, viva Bukowski! – Il Pickwick, 18 marzo 2015

 

 

 

Blue Bird Bukowski
drammaturgia Riccardo Spagnulo
regia Licia Lanera
con Mary Dipace, Vito Signorile
realizzazione scene Michele Iannone
luci Vincent Longuemare
responsabile tecnico Roberto De Bellis
foto di scena Rosaria Pastoressa
produzione Centro Polivalente di Cultura Gruppo Abeliano
lingua italiano
durata 55'
Napoli, TAN Teatro Area Nord, 14 febbraio 2016
in scena 13 e 14 febbraio 2016

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