“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 04 February 2016 00:00

Primi appunti su "La nostra classe"

Written by 

Forse è vero che il Novecento è il secolo senza tragedia, o meglio: è il secolo nel quale la tragedia – intesa come genere teatrale – diventa impossibile per il teatro. Non perché manchino eventi individuali e collettivi nei quali se ne ravveda la totalità dello strazio o l'assurdità del dolore né perché non vi siano storie, più o meno conosciute, che gridano il loro essere avvenute fino a spaccare i timpani della memoria, pretendendo d'essere messe in scena, come narrò per metafora (i personaggi) Pirandello nelle sue novelle. Ma la tragedia, trama che ha un inizio e una fine tra due schiere di quinte, in uno spazio chiuso tra quattro pareti, di cui tre toccabili con mano ed una invisibile ma esistente, svilisce fino ad essere un esercizio di stile, la riproposizione di un repertorio, un'offerta di maniera.

Fu Brecht a farci comprendere – ed è una delle sue più grandi lezioni – che ciò che accadeva andava testimoniato. Non la copia della tranche de vie, nessun verismo apparente, lontana ogni immedesimazione assoluta, vietato l'imbroglio di far credere che – per una o due ore – l'attore fosse chi diceva di essere e invece la dimostrazione del fatto, la sua esposizione frontale, al cospetto del pubblico, perché il teatro servisse non a riprodurre la forma apparente dell'evento ma a renderne il senso pieno, veritiero, ulteriore. Guardate, ascoltate, cercate di comprendere, meditate, ragionate, prendete posizione. Assumetevi la responsabilità di porvi in contatto con la storia che vi sto raccontando e – usciti da questo teatro, qui dove ci siamo incontrati stasera – fate fruttare quest'occasione, consapevoli come siete di quel che avete appena conosciuto. Se Pirandello – ancora lui – strappa il cielo di carta al teatro dei burattini perché la marionetta si scopra un Amleto, Brecht accese le luci di sala facendo comprendere che il muro che separava il palco dalla platea era fatto d'aria e pulviscolo e che il suo utilizzo era ormai superabile, essendo superabili certe consuetudini da vecchio conio rituale. Così – da allora, forse – la tragicità dell'esistenza e della Storia non venne più imitata ma resa, dichiarata e discussa. Gli attori assunsero il doppio compito di testimoniare e commentare il proprio ruolo e la propria funzione nella trama, mentre il tempo di scena – coincidenza assoluta per cui l'allora diviene adesso – non nascose più la frattura tra il passato (ciò che è avvenuto) e il presente (il momento in cui, ciò che è avvenuto, viene detto).
Non so quanto siano corretti, sul piano critico, questi pensieri, scritti di ritorno dalla visione de La nostra classe; ho come la sensazione, tuttavia, che se il Novecento è un secolo senza tragedia lo è anche per Bertolt Brecht, che fu il primo a comprendere che una nuova forma di consapevolezza era possibile: dovuta non all'effetto catartico della mimesi ma alla presa di coscienza dell'epica. E d'altronde. Per quanto siamo ancora portati a credere che il succo di pomodoro sia sangue accettando – in molti casi – la bugia consapevole e condivisa del teatro, non possiamo tuttavia dimenticare, se non a costo di farci immemori per il tempo di uno spettacolo, del reale che abbiamo lasciato alle spalle, sedendo in platea così come non possiamo far finta di non aver veduto ciò che abbiamo già veduto. Pensate soltanto alla Shoah. Si può metterne in scena certamente un frammento, una micro-vicenda, una pagina, un'invenzione che cerchi di renderne una scheggia, ma come possiamo davvero – e fino in fondo – abbandonarci alla visione artigianale del teatro quando abbiamo gli occhi e le tempie pieni d'immagini televisive, cinematografiche, documentarie? Abbiamo visto, sia pure attraverso un filmato, i corpi scheletrici, gli ammassi di cadaveri, le baracche di legno; abbiamo visto le camere a gas, i numeri tatuati, le lunghe file di deportati e i vapori neri che, salendo, sporcavano il cielo. Anche per questo – l'imposizione oculare di altre forme di racconto – forse la tragedia teatrale è impossibile: perché abbiamo già avuto, in quanto fruitori di mezzi di comunicazione differenti, il contatto con una verità non recitabile, non almeno secondo gli stilemi della riviviscenza momentanea.

Chi sono i dieci personaggi de La nostra classe? La mia idea è che siano dieci spettri, dieci avanzi memoriali, dieci spiriti di ritorno; la mia idea – e so che può sembrare assurda – è che siano fatti della stessa sostanza di cui è fatto Re Amleto, quando a mezzanotte si presenta per chiedere sia saldato il suo conto.
Appaiono alla soglia del testo scritto da Slobodzianek e sono nomi stampati su una pagina bianca accanto a cui trovo la data di nascita e quella di morte: Dorit (1919-1941), Zocha (1919-1985), Rysiek (1919-1942) e via di seguito. Sono residui, dunque; sopravvissuti senza carne che avanzano con lo scopo di chiedere e di ottenere l'unica vendetta possibile rispetto agli assassini e al destino: poter dire, raccontare, dire ai vivi di quando furono vivi. In loro c'è qualcosa delle anime in pena di Pirandello – sempre lui – con la differenza che non cercano un autore che li racconti o un capocomico che li sistemi sul palco quanto, piuttosto, direttamente il pubblico: il suo sguardo, il suo ascolto. I personaggi de La nostra classe portano infatti – così almeno mi sembra – il fardello dell'autotestimonianza ed è, questo, un peso generazionale che appartiene a tutti coloro che hanno vissuto e subito l'orrore del Novecento: pensate soltanto a Primo Levi, del quale gli amici e la sorella (in Se questo è un uomo) non vogliono ascoltare il racconto; pensate al Gennaro Jovine di Eduardo, che in Napoli milionaria è un fantasma carnale, una rimanenza del passato, l'osseo fastidio di un tempo che insiste a voler dire ritornando. “Mi piaceva andare a scuola. Succedevano un sacco di cose” dice Rysiek e bisogna fare attenzione alla coniugazione della frase, costruita perché da qui – dal posto che questa sera occupo sul palco – possa indicare, a voi che mi state guardando, quel che lì avvenne, quel che successe a suo tempo.
È per questo, d'altro canto, che Slobodzianek costruisce la sua trama rinunciando alla continuità narrativa per porre invece in sequenza quattordici lezioni, ognuna delle quali si chiude con un canto o una poesia/filastrocca detta in collettivo perché sia netta la percezione del distacco tra parte e parte, tra episodio ed episodio: ecco l'epicità del suo testo.

Massimiliano Rossì e gli attori che ho visto in scena hanno il merito di averlo proposto, questo testo. Si tratta, infatti, di un meccanismo perfetto nel quale si ravvedono – leggendolo e rileggendolo – la fitta trama interna di relazioni, i bilanciamenti tra i personaggi, i legami causali tra le varie figure, tra le parole che dicono e le azioni che compiono. Tutto corrisponde internamente, tutto funziona – ne La nostra classe – perché ciò che dev'essere detto sia detto e sia detto chiaramente, rendendo consapevoli gli spettatori. Odi e passioni, ipocrisie e desideri, insopportabilità personali e rancori di gruppo emergono in progressione, accennandosi prima per poi dichiararsi apertamente, fino a diventare atto non più frenabile, scelta non rinviabile, assurdo che si concretizza.
Cosa narra La nostra classe? Di Jedwabne, piccolo paese polacco, che si autodistrusse. Narra cioè di una comunità di poco più di tremila persone e dell'eccidio che una metà d'essa fece dell'altra metà: uomini contro uomini, donne contro donne, bambini che osservarono altri bambini sparire, vecchi che salutarono in anticipo i vecchi loro coetanei; vicini di casa, dirimpettai di palazzo, colleghi di lavoro, bottegai il cui negozio confinava col negozio del bottegaio accanto. Divennero cattolici contro ebrei, nazionalisti contro comunisti, filotedeschi contro filorussi; usate ogni possibile categorizzazione partitica, ideologica o religiosa (milleseicento ebrei furono ammassati, violentati o picchiati, presi a picconate o bruciati, seppelliti o abbandonati ai lati delle strade dai loro concittadini) ma vi ritroverete comunque al cospetto dell'uomo che uccide se stesso uccidendo l'altro da sé. Per questo penso – tra l'altro – che La nostra classe, in due date al Teatro La Perla, dovrebbe riapparire altrove ed ancora, anche se non so dove e non so quando: perché – questo spettacolo – sia sottratto all'obbligo calendariale della settimana destinata alla memoria giacché tratta, prima che un massacro d'ebrei, dell'essere umano in quanto essere umano: degli abissi che porta in petto, dell'indicibile di cui può e sa farsi macabro autore.
Come rendere dunque questo atto collettivo e complesso, per cui un gruppo elimina un gruppo, un branco si fa cacciatore dell'altro branco? Slobodzianek riduce il numero e restringe lo spazio, perché la convivenza forzata esalti la trama della violenza. Una classe scolastica rappresenta il microcosmo di Jedwabne. “Mi piaceva andare a scuola. Succedevano un sacco di cose” dice Rysiek, prima di venire umiliato a causa del suo amore per Dorit.

La regia di Massimiliano Rossi punta innanzitutto sul geometrismo dello spazio e il riuso straniato degli oggetti.
Lo spazio: l'interezza del palco è divisa in segmenti per cui le due fasce laterali sono le zone in cui i personaggi sopravvivono nascosti, la parte anteriore e centrale è quella in cui gli eventi accadono mentre quella posteriore è dove ogni figura, terminata la sua funzione attiva nella trama, si siede: morto che è morto perché sottratto all'azione e dedito, ormai, solo alla contemplazione dei compagni di recita. Ne viene una sorta di quadrettamento col continuo ricorso alla simmetria, al doppio, al rispecchiamento (esempi: la duplice e contemporanea scena di sesso; la mimica che ci dice della percezione della "puzza di cherosene" nell'aria). La scelta è coerente con la natura anti-rappresentativa della messinscena, privilegiata da Rossi, capace anche di sottolineare sia la funzione di testimoni-interni degli attori, che diventano spettatori delle vessazioni che di volta in volta avvengono, sia l'astrazione momentanea di una scena nella scena (il ballo a due, nel fermo-immagine generale). 
Gli oggetti: cinque banchi, dieci sedie. Posti in verticale all'inizio e alla fine dello spettacolo, definiscono visivamente la cornice alla quale la storia appartiene mentre – nel corso dello spettacolo – posizionati e riposizionati di continuo – diventano casa, fossa comune, banchina ferroviaria, nascondiglio, arredo d'interno, groppo di cespugli, cavallo lanciato  in corsa. Sul fondo – simbolismo scenografico accennato e che deve risaltare nei momenti di buio – una scaffalatura con una ventina di candele e i segni (falce e martello, svastica; croce cristiana, Stella di David) che fungono da denotatore ideologico della storia. Rifiutato l'illusionismo mimetico, l'oggetto solito – il banco – diventa, da cosa conosciuta, elemento inatteso ed in questo c'è la coniugazione materiale dello straniamento come pratica per cui si riesce a mostrare come “dietro un fatto se ne cela un altro”, per dirla con Brecht.
Bravo, Rossi, nel rendere fin dall'inizio chiare le dinamiche comportamentali e i vincoli (tra contrasto ed affetto) che muovono ogni singola figura, così da rendere quel coacervo di tensioni assolutamente intime che trovano sfogo nell'eccidio di massa: un pugno sul muro, uno sguardo insistito, uno scherzo che degenera momentaneamente in una rissa o in un assalto sono anticipazioni motorie di ciò che avverrà. Emerge, gradatamente, l'insofferenza; emergono pian piano la divisione in fronti contrapposti, il duplice ruolo di vittima/carnefice, le diversità caratteriali, buone a sfumare  (ma non ad annullare) il grado di responsabilità nei fatti.
Di questo lavoro ci sono anche – sia chiaro – scelte che non riesco a capire: perché l'Abramo di Peppe Villa, posto giustamente in ribalta e sulla sinistra, per rappresentarne il trasferimento da Jedwabne agli Stati Uniti, torna ad agire centralmente (al momento del gioco del soldato)? Perché viene mimata la preparazione di una valigia inesistente o si beve la vodka accennandone solo il gesto mentre è mostrata, dettaglio realistico ininfluente, la carta delle lettere? Perché il primo degli schiaffi che il Menachem di Raffaele Ausiello dà in quanto tenente Cholewa non è accompagnato dal battito di mani collettivo, come invece capita per gli schiaffi seguenti? Ci sono inoltre battute che, non “aperte” verso il pubblico, restano confinate nel perimetro di scena, talora s'incede nel sovratono fino all'urlo e mentre è convincente la coreografia collettiva che viene proposta – penso, ad esempio, alle reiterazioni di certi gesti o ai dondolamenti ossessivi effettuati sul posto – ogni tanto ho la sensazione che non sia ancora resa in maniera adeguata la frontalità che la struttura epica della drammaturgia dovrebbe imporre, nel momento in cui – giustamente – si è scelto di rispettarne pienamente il dettato. È a noi che Zygmunt o Heniek, Wladek o Giacobbe, Zocha o Rachele si rivolgono – dal primo all'ultimo istante – ed è quindi a noi che si rivolgono David Power o Pietro Juliano, Nello Provenzano o Daniele Sannino, Cinzia Annunziata o Giulia De Pascale mentre invece ho l'impressione, talora, della recita interna e, dunque, della momentanea ricostruzione di una quarta parete, inconciliabile con La nostra classe.

Alla fine mi chiedo come sia possibile che questo spettacolo, inevitabilmente ancora acerbo, appaia per due sole sere, col fitto sala. Mi chiedo come sia possibile che questo testo − capace di dire com'è forte e assoluto il desiderio di vendetta, quanto è atroce e beffarda la giustizia del destino e quanto può essere fragile l'uomo, granello in balia del vento della Storia o delle circostanze − e i suoi interpreti non trovino la continuità teatrale che invece si meritano: occorre ancora tempo e lavoro – in aggiunta al molto lavoro già fatto – ed occorre la prova costante della replica e l'insicurezza formativa che provoca ogni volta la presenza degli spettatori perché La nostra classe migliori ancora la sua forma, divenendo il meccanismo impeccabile che la drammaturgia di Slobodzianek pretende d'essere.
In un sistema decente gli attori che ho visto avrebbero la possibilità dell'errore e della crescita mentre invece – in questa città costipata da tournée di quartiere, con titoli che si ripetono da anni ossessivamente quasi in ogni fine settimana, viaggiando da una parte all'altra di Napoli e provincia – a La nostra classe tocca finire presto.
In attesa che riappaia, la speranza è che il carico di motivazioni, di energia e di ostinazione, che è alla base di questo primo tentativo, non venga disperso, che non sia l'ennesimo spreco, l'ultima di tante occasioni fatte morire troppo presto, nella dimenticanza.

 

 

 

 

Nasza Klasa (La nostra classe)
di Tadeusz Slobodzianek
traduzione Alessandro Amenta
regia Massimiliano Rossi
con Angela Rosa D'Auria, Cinzia Annunziata, Giulia De Pascale, Daniele Sannino, Massimiliano Rossi, Raffaele Ausiello, David Power, Pietro Juliano, Nello Provenzano, Peppe Villa
aiuto regia Enrico Basile
allestimento scenico allievi della Scuola di Scenografia dell'Accademia delle Belle Arti di Napoli
costumi Luca Sallustio
luci Davide Carità
foto di scena Alessandro Palumbo
Napoli, Cineteatro La Perla, 28 gennaio 2016
in scena 27 e 28 gennaio 2016

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook