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Wednesday, 03 February 2016 00:00

Estenuante attesa

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Aspettando Godot è la messa in scena beckettiana dell’attesa di due clochard. Essi attendono speranzosi l’arrivo di Godot che ha dato loro appuntamento in un luogo di campagna: in una composizione circolare essi rappresentano il tentativo fallimentare dell’uomo nel cambiare la propria  posizione, nel muoversi. Didi e Gogo sono affascinati dall’idea di un qualcuno che potrà migliorare la loro condizione e, nonostante il tempo passi e nessuno si presenti, restano.

Nel frattempo passano sulla strada Pozzo e il suo servitore Lucky che viene portato al guinzaglio: iniziano a dialogare con loro incuriositi dalla triste condizione del servo e dalla meschina crudeltà del padrone. Si fa sera e un giovane sopraggiunge riferendo le scuse del signor Godot e la promessa della sua venuta l’indomani. I due considerano l’ipotesi di suicidarsi ma rinunciano. Nel secondo atto tutto resta uguale, la bizzarra coppia del giorno precedente ripassa, l’attesa del primo giorno si ripete nel secondo e l’entità di Godot non arriva mai. Chi è Godot? Il messaggero (Michele Degirolamo) che per due volte ne preannuncia la mancata venuta dice solo che ha la barba bianca e non fa niente. Chi è colui che con tanta ostinazione viene aspettato? L’opera è aperta a diverse interpretazioni, ognuno può riconoscersi nei turbamenti di Gogo e Didi e nel voler sperare che ci sia un qualcosa o un qualcuno che possa cambiare la propria condizione. Scandito da pause, silenzi, riflessioni e battute che fanno sorridere, alternandosi tra citazioni e turpiloquio, si rivela amaro e fa pensare alla misera condizione umana disperatamente incerta, bramosa di migliorare il presente. “Cosa facciamo adesso?”, “Aspettiamo Godot” sono le due battute che si ripetono e scandiscono il tempo, il motivo del loro essere in eterna sospensione.
La rappresentazione insinua molteplici punti di domanda a cui ognuno può rispondere a modo suo: perché i due uomini non vanno via vedendo che Godot non arriva? Chi è in realtà costui? Esiste davvero? E andare via? Andare via non si può.
Il lasciare diverse questioni aperte nella regia di Maurizio Scaparro ricalca perfettamente le intenzioni originali dello stesso Beckett che non si voleva riferire a un qualcosa di definito parlando di Godot. Il testo è reso da Scaparro in modo tale che non si possa non riflettere sul senso dell’aspettare, unica possibilità per i due vagabondi perché non hanno nulla, ma viene esteso in modo più ampio a tutti quelli che confidano in un futuro migliore ma non si attivano per renderlo possibile. L’immobilismo che viene presentato fa pensare a quanto, nonostante sia passato molto tempo dalla prima messa in scena di questo testo, sia ancora attuale la pigrizia dell’uomo nel muoversi ed essere artefice di cambiamento: il permanere nello status quo, lasciando che le ore scorrano e venga continuamente sera. Viene richiamata anche la tendenza ad attribuire colpe ad altri, scrollandosi di dosso le responsabilità, quando invece possiamo essere noi in primis promotori di mutamento: “Che strani gli uomini... la scarpa è stretta e se la prendono con il piede”. Ciò è presentato in modo tale che l’origine di questo essere fermi si possa far risalire ad una sfiducia nelle proprie possibilità e in quelle di chi governa, in una sorta di depressione collettiva. Questo stato di cose è smorzato da un riso, benché amaro, di fondo: in alcuni passaggi si sorride dell’estrema umanità portata sul palco dagli attori, dipinti finemente nel carattere, nella dolcezza di alcuni gesti con cui si consolano a vicenda, si supportano e sentono di essere vicini perché accomunati dal destino. Recitano come se giocassero e dessero libero sfogo ad ogni pensiero più nascosto: infatti ballano, fanno lunghi discorsi a volte sconnessi tra loro, quando stanchi si addormentano... In questo senso Godot viene presentato quasi come una burla, una promessa non mantenuta che le cose cambino. La scenografia ha in sé dei simboli a partire dall’albero che si veste di foglie come se si presagisse una speranza di rinascita, alla scarpa stretta che imprigiona e rende i “passi” più faticosi.
Eccellenti le interpretazioni dei due vagabondi Antonio Salines e Luciano Virgilio, tanto smarriti quanto inconcludenti: sono Estragone e Vladimiro chiamati sempre con i nomignoli di Didi e Gogo forse perché sono uniti in uno spazio affettivo di confidenza e fuori da alcune regole sociali in quanto clochard così da potersi permettere gli appellativi che preferiscono.
Forte la contrapposizione del padrone Pozzo, Edoardo Siravo, con Lucky, Enrico Bonavera, che tutto è tranne che fortunato: Pozzo è un tiranno, che chiama “porco” il suo servitore tenendolo al guinzaglio come se fosse una bestia da soma. In questa coppia si intravede la disparità di classe e la crudeltà che può esercitare un uomo nei confronti di un suo simile, scaricando su di lui frustrazioni e cattiverie solo perché subordinato.
L’amarezza che gli attori portano con sè arriva diretta al pubblico e viene rimarcata dal bisogno che i due uomini hanno di stare insieme, con diversi abbracci di tenerezza, come se avessero paura di amplificare la loro solitudine nel separarsi. L’ironia della sorte vuole che nemmeno la morte sia possibile: la corda che hanno a disposizione per un possibile suicidio è troppo corta e non servirebbe. La corda nasconde probabilmente la loro mancanza di coraggio nel compiere un atto tanto estremo, la mancanza di iniziativa nel fare qualcosa perché ciò che desiderano si realizzi: non provano, infatti, nemmeno ad andare verso Godot ma si limitano all’estenuante attesa. Il tempo è ambivalente: sembra fermo a sentir parlare i personaggi e al tempo stesso scorre guardando ciò che accade intorno: Pozzo diventa cieco, spuntano delle foglie sull’albero...
Una commedia tragica amaramente attuale, specchio della credenza umana che ci sia qualcosa di superiore a poterci aiutare, che può diventare unico brandello di fiducia in una condizione di disperazione. Il protagonista è assente ma viene reso prepotentemente presente. L’alternarsi della ripetitività delle azioni, dei dialoghi ai limiti dell’assurdo possono far pensare che si tratti di un sogno surreale, di un misto di desideri, paure ed emozioni assemblate: uno dei vagabondi si addormenta spesso e poi non ricorda perché sia lì, insinuando che sia l’altro ad essersi sognato tutto. Didi e Gogo rappresentano il nostro essere al mondo così faticoso: “Abbiamo lottato tutta la notte senza aiuto... adesso è finita è già domani”, la lotta solitaria: “Proviamo a rialzarci da soli e poi ripartiamo... ognuno con la sua piccola croce”, lo scambio verbale con l’altro per alleggerire i nostri tormenti: “Siamo inesauribili, lo facciamo per non pensare, abbiamo delle attenuanti, abbiamo le nostre ragioni”.

 

 

 

 

Aspettando Godot
di Samuel Beckett
regia Maurizio Scaparro
con Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Enrico Bonavera, Michele Degirolamo
scene Francesco Bottai
costumi Lorenzo Cutùli
foto di scena Andrea Gatopoulos
produzione Centro d'Arte Contemporanea Teatro Carcano
lingua italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro Nuovo, 27 gennaio 2016
in scena dal 27 al 31 gennaio 2016

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