“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 29 January 2016 00:00

Il lupo cattivo che è dentro di noi

Written by 

La scenografia di Chi ha paura di Virginia Woolf? è già una lettura del testo che spiega la dinamica principale che muove i personaggi sul palco. Questo è occupato nella parte finale da una pedana su cui si fronteggiano a destra e a sinistra due divani beige, ravvivati da un grosso cuscino rosso che richiama nella tinta una parte del quadro moderno di non facile interpretazione posto sul lato sinistro, in posizione non centrale, ma nemmeno periferica.

Al centro, tra le due comode sedute, campeggia un mobile bar luccicante coperto di bottiglie e di bicchieri. È qui che la luce colpisce dirigendo lo sguardo dello spettatore sul protagonista nascosto: l’alcool.
Questo metterà in moto una vera e propria macchina da guerra, un gioco al massacro che non lascerà scampo. Intorno, la scena è tutta nera, tanti fili scuri pendono come tende fluttuanti a significare le pareti della stanza. I due protagonisti, i padroni di casa, sono George e la moglie Martha che dalla platea salgono sul palco in un continuum tra realtà e finzione. Sono di ritorno da una festa data un sabato sera dal padre di lei, Rettore dell’Università dove lavora George, ma in una posizione di subalternità perenne. Il loro ingresso è ritmato dal sincopare di una batteria che anticipa la tensione che si creerà tra i due. Viene svelato da subito anche l’enigmatico titolo della pièce che è il ritornello di un motivetto ironico di una canzoncina ascoltata alla festa che, una volta insinuatasi nelle orecchie, riemerge più volte nel suo significato allegorico perché il nome di Virginia Woolf, celebre scrittrice morta suicida a causa della depressione, è una semplice assonanza con The Big Bad Wolf, il grande lupo cattivo. “Chi ha paura del grande lupo cattivo?”.
Della festa, Martha, già ubriaca, non ricorda quasi nulla al di fuori del motivetto ed ogni pretesto è buono per scatenare una schermaglia verbale con George seguendo uno schema o una prassi che sembra collaudata da tempo. I due, nonostante l’ora tarda, hanno invitato a casa loro per continuare la festa una coppia di freschi sposini appena giunti all’Università, Nick professore di Biologia e sua moglie Honey. Il campanello della porta di ingresso che segnala il loro arrivo non è un rumore di scena, ma il suono è riprodotto onomatopeicamente dai due ospiti dietro la parete mobile scura. È il presagio che quello che si ascolterà non corrisponde alla riproduzione della realtà. Infatti, una volta accolti sui divani, iniziano tutti a bere e George sembra approfittare di ogni occasione per riempire i bicchieri. Lo scontro animoso tra George e Martha continua non senza imbarazzi anche davanti agli ospiti, lui è ironico e pungente, pronto a mettere in ridicolo la moglie, lei è arrogante, astiosa, lo rimprovera continuamente della sua mancanza di ambizione perchè non ha fatto carriera all’Università pur potendo approfittare del matrimonio vantaggioso che aveva contratto.
I dialoghi serratissimi tra i due e poi con gli altri ospiti si svolgono come in un incontro di boxe (sport che viene citato da Martha come una pratica che il padre aveva messo in atto per testare il valore di George e che invece si era concluso con una miserabile figura fatta dal marito). Appare allora chiaro che la scelta del regista Arturo Cirillo è stata quella di separare nettamente il luogo della storia, cioè la pedana che rimanda all’idea dello scontro sul ring, da quello della realtà autentica e introspettiva che è l’assito antistante dove solo verso la fine si muoveranno i personaggi quando dovranno affrontare la complessa realtà delle loro vite. Perciò quando le due donne si allontanano dalla scena per andare in altri ambienti, rimarranno ferme una volta oltrepassato il muro fluido scuro, come marionette in attesa del burattinaio che le faccia rivivere riportandole sul ring. Espediente, questo dell’inattività dei personaggi fuori scena che rimangono all’interno di essa, è la cifra stilistica di Cirillo, (così come anche le canzoni anni ’60 italiane), che sigla anche il lavoro precedente fatto sul testo di Tennessee Williams in Lo zoo di vetro in scena lo scorso anno.
George e Nick, rimasti soli, si raccontano le loro vite brevemente, Nick confessando un matrimonio convenzionale con la sua storica fidanzata Honey che sembrava essere incinta e che dopo la cerimonia non lo era più, George raccontando episodi inquietanti della sua giovinezza, da un lato continuando a canzonare con una forte dose di cinismo Nick, dall’altra mostrandosi vittima della sua pavidità, della sua mancanza di ambizione e dei continui tradimenti della moglie con altri professori. Quando i quattro personaggi sono sulla scena, complice il grado alcolemico che si alza sempre di più, ognuno di loro mette a nudo le proprie paure e debolezze. Nemmeno la giovane Honey ne è esclusa: ansiosa di esprimersi per com’è realmente, confessa la sua paura di avere dei figli che la porta a stare sempre male per i continui aborti procuratesi. Tutto segue uno schema che sembra imprevedibile, ma che tale non è. Menzogne e verità si contrappongono e si fondono creando un mondo fittizio entro cui i ruoli sono perfettamente recitati. George e Martha ad un certo punto parlano di un loro figlio e sembra una verità quasi tangibile fino alla fine del dramma quando i quattro personaggi, lasciati completamente da soli, scoordinati dalle loro fissità, anche fisicamente si scompongono: si sdraiano sul divano, a terra, dietro le pareti fluttuanti, sull’assito, sul proscenio.
La scenografia iniziale composta da tre elementi ed un quadro si scompone anch’essa ponendo parti di un divano da un lato e parti dall’altro, il quadro diventa storto, tutto perde linearità in un quadrato che non esiste più. Perciò George, dopo che gli ospiti sono andati via senza aver trovato alcuna consolazione al loro dramma esistenziale e alla loro perdente storia d’amore (forse perché sono troppo giovani per giocare al gioco della vita sul ring), prima sull’assito, al di fuori di quel quadrato, e poi scendendo in platea, metterà di fronte ad entrambi le loro nude e terribili verità. Nulla può consolare il buio del passato che si portano dentro né l’alcool, né l’ambizione, né il tradimento o i giochi di seduzione. Nemmeno la psicanalisi spiega perché George abbia ucciso la madre, per errore, e poi il padre, in un incidente. Non spiega nemmeno perché il padre a Martha abbia donato solo indifferenza. Quando non rimane alcuna soluzione, George esorta la moglie ad ammettere la verità, solo così lui potrà risalire su quella pedana, accoccolandosi a terra accanto alla moglie seduta, affranta, cercando e donandole quella dolcezza che deriva dalla cura dell’altro e di sé, in un gesto affettuoso inaspettato, consolatorio, mentre sta spuntando l’alba.
Cirillo rispetto al testo originale ha lavorato per sottrazione soprattutto nella prima parte, dove la bravura degli attori avrebbe permesso un lavoro istrionico sullo scambio di battute, dimenticando la versione cinematografica in cui Richard Burton si confronta con Elisabeth Taylor per arrivare ad un testo lucido, centrando l’attenzione su quello che il testo dell’autore Edward Albee voleva significare e cioè una riflessione spietata sul nostro mondo attuale fatto di egocentrismo, di cinismo, di un amore senza più colore. Il regista con questa pièce, magistralmente interpretata da tutti, ma soprattutto da una Milvia Marigliano di gran lunga più brava del bravo Cirillo, conferma il suo allontanamento dalle prime regie geniali che lo hanno imposto sulla scena teatrale italiana, dalla rilettura di testi classici come Molière, Scarpetta, Petito, Shakespeare, Ruccello, Copi per approdare all’analisi di testi più intimisti e drammatici che colpiscono al petto come un pugno, come in un ring chiamato teatro.

 

 

 

 

Chi ha paura di Virginia Woolf?
di Edward Albee
traduzione Ettore Capriolo
regia Arturo Cirillo
con Milvia Marigliano, Arturo Cirillo, Valentina Picello, Edoardo Ribatto
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Mario Loprevite
regista collaboratore Roberto Capasso
assistente alla regia Giorgio Castagna
assistente scenografo Lucia Rho
assistente costumista Cristiana Di Giampietro
fotografo di scena Diego Steccanella
produzione Tieffe Teatro Milano
lingua italiano
durata 1h 40’
Napoli, Teatro Bellini, 26 gennaio 2016
in scena dal 26 al 31 gennaio 2016

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook