“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 13 January 2016 00:00

Nunca más

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Campionato del Mondo di calcio del 1978: Mario Kempes trascina l’Argentina al suo primo titolo mondiale in uno Estadio Monumental che trabocca di folla, in una pioggia di coriandoli bianchi; l’Argentina batte l’Olanda, per la gioia di un Paese intero, o almeno per quelli che si vedono, per quelli che lo comandano, facce torve dalle espressioni severe e divise con le stellette.

Ma c’è un’Argentina che non festeggia e che nemmeno si vede, le cui urla – che non sono di gioia per un gol – si consumano assorbite dalle mura degli scantinati, fra sevizie e torture; è l’Argentina dei desaparecidos, oltre trentamila vite strappate via, terminate con barbara efferatezza, infine consegnate all’oblìo di tombe vuote; è l’Argentina di Jorge Videla, che si maschera a festa per il Mundial e tenta di nascondere al mondo la sua faccia truce. E invece di facce ce ne sono due: quella della propaganda e quella della barbarie; convivono, coesistono, la prima è la superficie calma, la seconda il fondo agitato. Aguzzini e vittime: i primi urlano di gioia per i gol, imbevuti di patriottismo sciovinistico, i secondi urlano di dolore per le scariche elettriche ai testicoli (gli uomini), per gli stupri, o per le stesse scariche somministrate fino all’utero con un cucchiaino (le donne); e a quelle incinte, fatte partorire, vengono poi tolti i figli.
Da allora è trascorso un trentennio abbondante, eppure la doppia faccia dell’Argentina della dittatura, col suo portato di sparizioni e morti, è una ferita ancora aperta, un crimine contro l’umanità per il quale, di fatto, chi ne è stato responsabile ha pagato solo infinitesimalmente.
Il tempo è lontano, le Madri di Plaza de Mayo (quelle che invocavano, sfidando il regime, i nomi dei propri figli scomparsi), oggi sono nonne, il più delle volte orfane sia d’un affetto rapito che d’una verità irrivelata.
Le irregolari di Massimo Carlotto (E/O, 1999) è un fascio di luce su una storia oscura ed è il punto di partenza da cui muove un’indagine – quella di Umberto Terruso – capace di farsi teatro, di cercare una propria strada espressiva e trovarla lasciando completamente da parte ogni ammennicolo retorico che possa fungere da comodo appiglio per la facile orazione civile.
Riescono, Umberto Terruso e Andrea Lapi, a raccontare la vicenda aberrante dei desaparecidos argentini costruendo “un monologo a due voci” – come recita il sottotitolo – che nelle due voci di un desaparecido e del suo aguzzino, modulate in scena da un unico attore, condensa la biforcazione prospettica di una nazione che precipita nel baratro, in cui ci sono complici e conniventi più o meno consapevoli e "sovversivi" e dissidenti più o meno inconsapevoli. Duplice visione, prospettiva che si biforca, Assenti per sempre mostra la medesima barbarie da due angolazioni differenti, inscenando due inconsapevolezze (o comunque due consapevolezze a metà).
La scena è nuda, un bidone di latta, una vecchia radio ed un sacco di patate sono le uniche presenze oltre all’attore, il quale imbastisce partitura bitonale (due voci, due toni, due caratterizzazioni), coadiuvato da dettagli – l’uso delle luci, il cambio degli abiti – che si dipanano con calibrato automatismo. In scena c’è un uomo solo, ma ne vediamo alternativamente due: uno indossa una canotta scura ed ha la voce piana e candida di chi ha “sempre considerato il nascondino un gioco innocente”, prima che mani sconosciute lo strappassero via ad una quotidianità fatta di sformati di patate e puntate di Kojak e gli mostrassero come quel gioco innocente si andasse trasformando in metodo di sparizioni di massa; è avvolto prevalentemente dalla penombra, tratto distintivo dell’oblìo a cui è destinato; l’altro indossa una camicia d’un verde pallido, inforca degli occhiali ed ha voce incerta, tono pencolante, incline ad una leggera balbuzie che vale a tratteggiarne ulterormente l'insicura dabbenaggine, ringrazia la Marina Militare che lo ha educato come fosse stata una seconda madre; ha un nome di battaglia (“Puma”), viene in proscenio a raccontare la sua versione delle cose, in piena luce, che chiede esplicitamente (“mi dai un po’ di luce per favore?”), perché lui può, fa parte del sistema, anche se ne costituisce l’ultima pedina, fa un lavoro sporco “sì, ma in nome della pace”.
Gli abiti, le luci, le voci consegnano in visione due personaggi, entrambi pedine di un gioco più grande che si costruisce e si consuma sui ruoli loro assegnati, gangli opposti e complementari dei meccanismi occulti attraverso cui opera il potere nelle sue degenerazioni più proterve.
Una vittima ed un carnefice, un prigioniero ed il suo aguzzino, che finiscono per rispecchiare la proiezione generazionale delle colpe dei padri, i quali biasimano e non capiscono, sentenziano e non prendono parte: per il primo, che ha scelto la comodità omertosa del disimpegno, avere un figlio che odia il calcio "è una vergogna", teme quasi che “possa essere frocio”; per il secondo avere un figlio che combatte la Guerra sporca dalla parte dei militari porta sì ad un barlume di consapevolezza (“mio padre non lo capisce, dice che non gioco la guerra ad armi pari”), eppure anche questo genitore finisce per “distrarsi”, nascondendosi dietro il comodo assioma del mezzo giustificato dal fine.
Due vite, quella di un prigioniero "politico" e di chi gli fa da carceriere, che s’incrociano all’ombra della tortura, due visioni del mondo diverse, eppure fondamentalmente nessuna delle due davvero “militante”: il primo non è un sovversivo ma piuttosto un indifferente beccato per puro caso dalla polizia, il secondo non è un fanatico ma piuttosto un sempliciotto conglobato alla ragion di stato dal caso fortuito. Due patate dello stesso sacco, patate come quelle consumate il giorno dell’arresto, patate come quelle pelate (da Puma) per una sua negligenza nell’aver fatto morire un altro prigioniero; patate in un sacco di iuta, pelate e lasciate pesantemente cadere nel secchio di latta, mentre il carceriere fa minuzioso racconto della trafila cui vengono sottoposti i prigionieri, patate come i corpi, vivi, gettati nell’oceano dagli aerei, corpi narcotizzati e legati in sacchi di iuta (ed è forte il richiamo evocativo al finale di Garage Olimpo di Marco Bechis), mentre il rumore assordante di una turbina che evoca un volo della morte copre la voce incerta di Puma che stintiglia dettagli macabri.
Il tutto si consuma nel chiuso di una delle tante stanze delle torture, mentre fuori la voce “ufficiale”, quella della radio, diffonde notizie di tutt’altro tenore, cavalca l’entusiasmo di una finale mondiale: è il 25 giugno del 1978, le strade sono piene, caroselli e festeggiamenti sono la coltre ulteriore che avvolge e tacita urla strazianti di corpi straziati, sussulti di cuori incapaci di reggere oltre.
Di quei corpi, di quei cuori, s’è tentato di cancellare persino il ricordo, mediante un capzioso processo di rimozione storica; Assenti per sempre, spettacolo memoriale intenso e ficcante, di quei corpi, di quei cuori, di quelle vite sparite e di quelle morti dimenticate restituisce parte di una verità occultata: assenti – ormai per sempre – perché rubate alla vita, quelle vite riacquistano memoria nel racconto testimoniale di chi decide di non dimenticare. Non dimenticare per non far più accadere. Nunca más.

 

 

 

 

Approdi
Assenti per sempre
un monologo a due voci sui desaparecidos argentini
di e con Umberto Terruso
regia Andrea Lapi
aiuto regia Raffaele Panfili
organizzazione Giulia Telli
produzione Compagnia Oyes
lingua italiano
durata 50’
Aversa (CE), Nostos Teatro, 9 gennaio 2016
in scena 9 e 10 gennaio 2016

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