“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 18 December 2015 00:00

Dannata perfezione

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Ci sono lavori che hanno un potere evocativo che travalica i limiti dello spettacolo stesso. Ci sono lavori in cui il tema oltrepassa la vicenda narrata e fa divagare la mente in quei fecondi sentieri in cui ci si interroga profondamente sul senso del proprio percorso terreno.
Una vita circoscritta nel tennis. Una scena chiusa tra pareti rosse, rosse come la terra battuta del campo, sormontate dalla bassa rete del campo. La quarta parete è trasparente, davanti a noi, e se fosse visibile offrirebbe una visione a quadretti, tra le maglie della rete.

Sul fondo una cassa bianca con le ruote. Sarà branda, tavolo, deposito di attrezzi di scena. Ai lati due sedie da regista, anch’esse bianche. Gialle palle da tennis pendono dal soffitto come lampadine. Bianco. Nero. Rosso. Verde. Blu. Questi i colori in scena. Bianco il tennis, bianco l’abbigliamento di Agassi e della sua donna, quella di cui si innamora veramente, Steffi Graf. Bianco e nero l’abbigliamento di Brooke Shields, la donna che sposa perché è prevedibile che lo faccia. Rossa la terra battuta. Verde l’erba di Wimbledon. Blu il campo degli Australian Open. Le parole dell’autobiografia di Agassi, Open, sono proiettate sul fondo, accompagnate dal ticchettio sonoro dei tasti della macchina da scrivere. Espediente raffinato ed efficace per gestire i cambi di scena e, soprattutto, evocare il carattere letterario e agiografico delle vicende narrate. Spezzoni di filmati contribuiscono a ricreare l’atmosfera, a dare profondità storica ad una vicenda raccontata retrospettivamente, teso nello spasmo del dolore, dal campione che non vuole mollare, anche se il suo corpo lo implora, anche se odia quello che fa. Significativamente il sottotitolo del prologo è “Non voglio smettere”, forse perché non ha conosciuto altro, non sa vedere altro che il cimento con se stesso, la costruzione della propria perfezione.
Un uomo e una racchetta. Un uomo e una pallina che rimbalza da un lato all’altro del campo. Un bambino che colpisce diecimila palle l’anno. “Posa la racchetta. Arrenditi”, il bambino parla da solo, perché in fondo sempre solo se stesso avrà come avversario. Continua a implorare di smettere, ma non può, in un continuo contrasto tra ciò che vuole e ciò che fa. “Odio il tennis, ma mi piace l’idea di una palla colpita alla perfezione”. Un ragazzo che si sottopone alla disciplina severissima del padre, che continua a spronarlo senza lodarlo, perché ogni successo è parte del dovere e un’unica sconfitta è sufficiente a vanificare qualsiasi risultato positivo ottenuto. Il successo sfuma in un soffio. La sconfitta resta come macchia indelebile. Un uomo che è arrivato alla fine della carriera eppure non sa chi è e dov’è: “Ho passato metà della mia vita senza saperlo”. Un ragazzo cui è stato insegnata la ricerca della perfezione. Sempre. Comunque. Un ragazzo che non riesce a godere della gioia della vittoria con la stessa profondità con cui si addossa la colpa di una sconfitta. Un uomo che rende la sua vita infelice e la rende infelice a chi gli sta intorno. Un uomo che non è disposto a perdonarsi nulla.
Non ho letto Open, ma la forza di queste parole, l’intensità, la profondità sferzante della riflessione rimbalzano nell’animo, superando una certa piattezza monocorde della recitazione, che fa dei personaggi altrettanti fantocci, manichini rivestiti di parole che li vivificano e li animano. L’alternanza di registri, il drammatico che si mescola al comico, regala fluidità alla narrazione e ci fa giungere ricreati e pensosi alla fine del match, chiedendoci quanto abbiamo sacrificato sull’altare della perfezione e quanto siamo in grado di dedicare su quello della vita.

 

 

 

 

The Open Game
liberamente ispirato a Open
di
André Agassi
testo e regia Felice Panico
con
Giovanni Ludeno, Alessandra Borgia, Ciro Damiano, Simone Borrelli
scene Luigi Ferrigno
costumi Alessandra Gaudioso
disegno luci Peppe Cino
creazioni video Alessandro Papa
capo macchinista Enzo Palmieri
elettricista Fulvio Mascolo
foto di scena Marco Ghidelli
realizzazione costumi Il cascione di Rossella Aprea
realizzazione scene Alovisi attrezzeria
produzione Teatro Stabile di Napoli
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 14 dicembre 2015
in scena dal 14 al 20 dicembre 2015

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