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Monday, 14 December 2015 00:00

Nella testa di un condannato

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A distanza di quasi due secoli, da quelle pagine che sembrano scritte dal fondo di una cella, Victor Hugo continua ad interpellarci sulla pena di morte. Attraverso questo spettacolo, Davide Sacco, si serve del gesto poetico-politico compiuto con il Dernier Jour per affrontare un tema – la pena di morte – che travalica i confini temporali di ogni epoca, continuando a proiettare le sue ombre nere sia in quei territori in cui le sentenze capitali rappresentano un'idea di giustizia in pieno vigore, sia tra le piaghe degli Stati abolizionisti, dove questa pratica, seppur depennata dai codici penali, ha acquisito un'aura da nostalgie de la boue, tanto da rappresentare un'ipotesi da molti auspicata  per delitti di particolare atrocità.

Quando la mano del boia è armata dalla società, è su di essa che è necessario intervenire; gli individui, tutti, dovrebbero calarsi almeno una volta, anche per mezzo della finzione, nelle cupe vesti di un condannato a morte, nella sua mente devastata dal terrore, nei battiti di un cuore che conta giorni, ore e minuti che lo separano dalla fine. Da questo ritmo cardiaco inizia lo spettacolo che ha il fine di portare in scena l'inimmaginabile; un dito si abbatte su un microfono e scandisce il circolo corporeo della paura, lasciandola lentamente fluire nelle vene dello spettatore. Orazio Cerino, solo in scena, è allo stesso tempo boia e condannato, con gesti definitivi e perentori sceglie i giurati, uomini che il caso ha voluto far accomodare dalla parte della giustizia, uomini che senza odiare uccideranno con poche parole: "condannato a morte". Una frase scritta su di un taccuino che devono leggere ad alta voce, prendendo le distanze dal suo significato, obliando che quelle parole segnano e autorizzano l'inizio della fine.
Lo spazio, temporaneamente vitale, di Cerino è circoscritto da due identici rettangoli luminosi, il primo posto sull'assito; il secondo – sospeso in aria – incombe sulla testa del condannato come una fulgida lama di ghigliottina. L'azione è una lenta presa di coscienza della sua negazione, lo stato del condannato è infatti l'inazione, lo stato del condannato si dimena solo nella sua mente. Il monologo ripercorre tutte le tappe del condannato senza nome di Hugo; l'attore occupa il tempo della rappresentazione con la bramosia di un prigioniero incapace di fermare una temporalità nemica che avanza inesorabile. Il monologo si espande e il sortilegio di Hugo si compie, non sappiamo nulla del crimine commesso, il condannato dice poco di ciò che è stato e nulla delle ragioni che lo vedono a pochi passi dal patibolo, la sua condizione è solitaria e non condivisa con gli altri membri della società – meno che mai la condivide con noi – la sua è già una caduta al di fuori della comunità dei vivi, è un dead man walking; tutto sembra essere predisposto in modo tale da non suscitare empatici e romantici slanci affettivi nella sua direzione, eppure qualcosa inizia a lavorare nelle menti di chi assiste. Un dubbio strisciante si insinua, questa mancanza di dettagli e di circostanze non consente allo spettatore di allontanare energicamente da sé uno stato di sofferenza anonimo e indefinito che, in quanto tale, potrebbe appartenergli. Non è la pietà a farsi largo nei nostri cuori, ma qualcosa di più efficace e primordiale riesce a far breccia nella mente: l'immedesimazione.
Lungo il filo di questo diario/monologo, nascosto da un'intenzione lucida e determinata, è situato il momento in cui ciascuno si ritrova ad essere condannato: è il condannato. I giurati hanno perso il distacco di poco prima, le loro mai si uniscono a quelle del condannato, e i piedi marciano all'unisono in un unico tempo pulsante: il cuore, le tempie, la testa, l'intero corpo segue il ritmo della paura. Nell'opera, come nella rappresentazione, non viene fatta alcuna concessione al sentimentalismo "grande alimentatore della cattiva coscienza, ossia di quella malafede che coincide col sentirsi sempre la coscienza a posto" (Donata Feroldi); Cerino, nel dar voce ai personaggi che 'incrociano' il condannato nelle sue ultime ore, assume il giusto distacco hugoliano e bene interpreta le parole dell'ottuso secondino che – nell'unico momento di nera ironia – con un argot dialettale, chiede piaceri e numeri da giocare a colui che, di lì a poco, varcherà la barriera tra la vita e la morte.
Di questo passo procediamo fino al patibolo, riusciamo a vederlo in lontananza e a sentire il fruscio del vento che passa sulla lama affilata, pochi attimi ancora e poi la fine.
In questo finale accuratamente preparato, l'unica 'nota stonata' sembra essere – a parere di chi scrive – la voce fuori campo di una bambina che invoca il padre:"Papà, papà!". Stonata, in quanto nell'opera l'incontro con Marie, la figlia del condannato, evidenzia e sottolinea due registri emotivi che si collocano agli antipodi. Da una parte emerge la sofferta veemenza di un padre che stringe la figlia "con violenza contro il petto gonfio di pianto", dall'altra è descritta una bambina spaventata che, non riconoscendo in alcun modo il padre nell'aspetto e nei gesti, chiamandolo 'Signore!', chiede solo di essere lasciata, aggiungendo così una condanna alla condanna: "condannato a non sentire più questa parola, questa parola della lingua dei bambini, così dolce da non poter restare in quella degli adulti: papà!". Stonata inoltre poiché, come già sopra evidenziato, l'intento dell'autore è quello di bandire ogni tipo di emozione e compiacimento sentimentale, nessuno dei personaggi – inclusa la figlia – mostra autentica empatia o pietà nei confronti del condannato, gli unici sentimenti violentemente umani sono quelli che si muovono tra le viscere di quest'ultimo. È nella sua testa che va ricercata tutta l'umanità, ed è in quella testa che Hugo ha voluto farci accomodare per condividere attimi di autentico terrore.



N.B.: Su Condannato a morte. The Punk Version si veda anche: Sara Scamardella, Victor 'u punkIl Pickwick, 15 ottobre 2014



Condannato a morte. The Punk Version
da L'ultimo giorno di un condannato a morte
di Victor Hugo
regia Davide Sacco
con Orazio Cerino
scenografia Luigi Sacco
costumi Clelia Bove
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Teatro Elicantropo, 11 dicembre 2015
in scena dal 10 al 13 dicembre 2015

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