“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 02 December 2015 00:00

Il garofano andaluso

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La lunga giornata tra le scimmie trova il suo capolinea in un campeggio alle porte di Torremolinos. Secondo le guide si tratta di una località balneare piuttosto in voga; eppure quel breve scorcio della costa si presenta scuro e opaco, come una foto macchiata dalle intemperie: la sabbia nera rende la costa oscura. Aerei solitari, a cadenze regolari, tracciano linee oblique rispetto all’orizzonte, piccioni famelici si accalcano quasi fin sulla battigia. L’acqua è sempre insopportabilmente fredda e, siccome questa volta non possiamo neanche bearci della bellezza del luogo, abbandoniamo l’idea di rilassarci al sole quasi immediatamente.

In realtà questa sistemazione non è che l’anticamera della stanza del tesoro: Màlaga. Il suo nome ti avvolge la bocca, vi scivola dentro carezzandone le pareti interne e lasciando una sensazione vellutata, per poi rifluire in gola come fa quella g dalla pronuncia spagnola, così poco gutturale. È una parola che ricorda il gusto setoso del gelato omonimo, dove il calore del liquore sembra corrodere la dolcezza della crema, come la brace che consuma la carta.
Màlaga è contenuta a sua volta nella parola amalgama, che ricorda pigmenti polverosi dissetati dall’aggiunta dell’acqua e mescolati dalle mani sapienti del pittore. Màlaga è infatti la città natale di Pablo Picasso; me lo immagino, bambino, correre per le vie anguste del centro, sorvegliato dalle facciate strette e mal assortite, eppure coloratissime, di tonalità inusuali. Dal verde acqua all’ocra, dal rosso mattone al pesca; un amalgama che si staglia sul blu intenso del mare e sul giallo ocra degli edifici più antichi, incorniciata dal verde del Paseo del Parque e dal bianco della moderna costruzione ondeggiante che si srotola lungo il porto.
Questa commistione di colori si riflette sull’accostamento di diversi stili architettonici: sebbene sia possibile distinguere un centro storico dalla parte più moderna, la divisione delle aree non è per nulla omogenea. Capita pertanto di passeggiare tra i solenni palazzi disabitati dei quartieri più chic – e per questo ombreggiati da teli sospesi sopra le nostre teste, tra un cornicione e l’altro – e poi improvvisamente imbattersi nell’antico anfiteatro romano. Sebbene abituati alla magniloquenza delle antiche rovine imperiali, il modo in cui questa mezzaluna di pietra gialla è presentata – così vicina, così a portata di mano – mi lascia senza fiato.
"Si dice che Cesare in persona sia stato qui e che quello fosse il suo trono" dice un uomo additando un basso seggio squadrato.
Mi sembra allora di scorgere la tunica rossa avvolta intorno alle gambe del condottiero; qui le rovine sembrano essere ancora piene di vita, tanto che la contemplazione si trasforma ben presto in un esercizio mentale di attualizzazione. In altre parole, la contemplazione è diversa, per esempio, da quella dei fori romani: lì la distanza – non solo fisica, anche epocale – è tangibile, palpabile, nell’incuria in cui è lasciato il tutto.
Proprio alle pendici dell’anfiteatro facciamo la conoscenza di una simpatica coppia di Bilbao: lui, un burlone sosia di Robert De Niro; lei, con la parte dell’adulta stizzita dalla propensione all’amicizia del marito. Il vero personaggio è lui, tanto che ci fa dono di un simpatico adesivo che lo ritrae; ci fa da anfitrione per un po’, portandoci a bere e a mangiare in fumosi bar che sembrano scavanti nelle fondamenta della città. Qualche foto, scambio di numeri di telefono – "Ci sentiamo tramite WhatsApp!" esclama lui con il suo inglese spagnolizzato, e io penso che il gap generazionale è troppo vasto perché io possa mai permettermi di contattarli su WhatsApp – e via, ricominciamo il nostro giro mettendo paseos e avenidas tra noi e la disponibilità senza malizia di quella coppia.
L’anfiteatro è sovrastato dalle mura della fortezza araba, la Alcazaba, un must di queste città cristianissime con quarti musulmani. Posta nel punto più alto della città, si articola in balconi e terrazzamenti, in chiostri interni occupati quasi interamente da vasche piastrellate e da vie acciottolate che si infilano dietro archi a lampadina. Il tutto brilla d’acqua, convogliata in strette cloache squadrate ai lati di ogni camminamento. È una rigogliosa e ordinata oasi fortificata, con giardini ombrosi e edifici di diletto. Come ogni costruzione di questo genere, risalente alla dominazione araba e progettato secondo una logica difensiva – un tempo il mare arrivava a lambire le mura inferiori – la Alcazaba viveva in simbiosi con la fortezza vera e propria, il castello di Gibralfaro, cui si collega tramite un cordone ombelicale di pietre e merlature dal nome di Coracha. I curatori di questo complesso devono aver pensato che le mura un tempo percorribili de La Coracha fossero troppe pericolose per i piedi degli smemorati visitatori; per questo, per accedere al castello, dobbiamo scendere e risalire da un’altra parte, costeggiandolo.
Sono le quattro del pomeriggio e il sole picchia impietoso; a malincuore abbandoniamo la frescura del giardino botanico frequentato da pappagalli in livrea verde mela, e ci prepariamo ad affrontare la salita più ripida che abbia mai visto. Uno scivolo di cemento che, dopo due o forse tre curve a gomito sotto al sole, finisce per intersecarsi con la base dell’imponente struttura difensiva.
Pochi avventori, tutti provenienti da lassù, e una coppia scalza che riposa nel fazzoletto d’ombra creato da uno sparuto alberello, sono le uniche anime che incontriamo durante l’ascesa. Ogni tanto facciamo una pausa per bere e per ammirare il panorama, sgranocchiando carrube: quei dimessi alberelli, se non per l’ombra, sono utili per le bacche che conservano ancora attaccate alle fronde. Non avevo mai colto carrube direttamente dalla pianta, e mai la loro coriacea e vagamente artificiale consistenza mi è apparsa più reale di così.
Si scoprirà che il gioco del Castillo non valeva la candela: tanti litri di liquidi sprecati per vedere uno spiazzo brullo e una cinta muraria.
Màlaga in questi giorni agostani è in festa: ovunque spicca il garofano, simbolo della città, e i colori sembrano farsi ancor più vividi e vari, in vista delle celebrazioni. La sera del 14 agosto, dopo aver pagato l’ennesimo billete sencillo per la tranquilla corriera che ci trasla da Torremolinos al centro di Màlaga nel giro di una mezz’ora, decidiamo di andar per tapas, in modo da rifocillarci dopo la lunga camminata della giornata.Calamaretti fritti, cervecita, pollo alla gallega; paella, insalata di baccalà, gazpacho; e poi un azzardatissimo gambas pil-pil – gamberetti letteralmente galleggianti in olio, aglio e peperoncino.
L’aspetto che più apprezzo di questa cultura sono i pasti serali spostati ad orari tendenti verso le 22, o addirittura le 23. Questo fa sì che non ci sia tempo per annoiarsi o di chiedersi, improvvisamente spaesati, come occupare il tempo che separa il pasto dall’evento della serata. Una breve passeggiata per le vie vestite a festa – carta rosa a pois bianchi ovunque, simbolo del vino liquoroso che si beve soltanto a Ferragosto, ghirlande, luci – e ci accodiamo all’esodo di malagueñi diretti verso il porto.
Allo scoccare della mezzanotte, uno spettacolo di fuochi d’artificio infrange la superficie oscura del mare, delineando le increspature e la bassa cornice di scogli del porto. Le imbarcazioni attraccate ondeggiano placide riverberando al ritmo psichedelico di questi prodigi luminosi; un silenzio innaturale avvolge tutte queste persone spalmate lungo il porto e sotto questa curiosa struttura a onde, e sembra tamponare lo scoppio ritardato dei botti. Dietro di noi, come un guardiano acquattato ma discreto, l’Alcazaba illuminata a guardarci le spalle.
Lasciamo questa città multicolore l’indomani, quando anche i cavalli e le carrozze sono imbellettati per la festa, e quando per le strade si aggirano coloratissimi vestiti tradizionali che ricordano vagamente un garofano – il clavel – rovesciato.
Lasciamo una città variopinta come la vetrata del suo mercado generale, imponente come la sua storia, serena come la bolla orlata dalle palme “ubriache” de Paseo, oasi verde in mezzo al traffico.
Una città fragrante come quelle cialde alle mandorle offertemi e di cui non conoscerò mai il nome. Una città, Màlaga, che è come una calda carezza.

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