“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 05 December 2015 00:00

Solitudini senza tempo

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È un viaggio al termine di una lunga notte, un viaggio al nocciolo duro di una sofferenza atavica, quello che conduce una sposa a bipartire due diverse solitudini, lontane per epoca e vocazione, accomunate dal dolore di lacrime incapaci di sgorgare, eppure così viscerali da rappresentare l'una la sintesi e l'antitesi – al contempo – dell'altra.

La sposa sola, di Salvatore Mattiello, è una scrittura originale, che assume forma di drammaturgia riamalgamata con minuzioso lavoro di rielaborazione, partendo da testi preesistenti, per appaiare in parallelo due vite, due figure, due personaggi teatrali, due spose, due madri, in estremo due donne sole; due solitudini potenti messe a raffronto, quella di Medea (o delle Medee su cui tanti hanno variato il tema drammatico) e quella di Filumena Marturano, due figure messe su scena per trascolorare il dramma dell'una nel dramma dell'altra, sovrapponendone congruenze, giustapponendone distanze. È un viaggio che le imbarca entrambe, su una nave che è già in scena, preannunciata dal rumore del sartiame che si tende, dal mare che sciaborda; ed è un viaggio che le sovrappone – Medea e Filumena – nell'unica figura di Teresa Addeo, in cui si trasfonde la carnalità di entrambe, variata come varia il colore dell'abito, dal rosso sangue della tragedia di Medea al candore nuziale della veste, meno tragica ma altrettanto dolente, di Filumena; due risvolti d'uno stesso abito, così come ce le trovassimo in speculare proiezione, le due facce d'una stessa luna, la donna “barbara”, barbaramente presa in selvaggio amplesso dal suo colonizzatore e la donna “plebea”, presa però “comm' a na mugliera” dall'uomo che comunque ne delegittimò le istanze.
Messe a confronto, le due donne rendono accessoria ogni figura che le contorna, assumendo il centro della scena, rialzato a pedana, per incarnare solitudini diverse e distanti, eppure accomunate da un dolore che anela a dissolvere e intanto pasce. Intorno a loro, che vi appaia Domenico Soriano o il re di Corinto, poco importa, restano, Filumena e Medea, essenza bipartita e dominante, intorno alla quale coagula il senso denso di una simbiosi simbolica, che accomuna differenziando, variando di lingua e registro le espressioni della protagonista in scena.
C'è la similitudine ma anche la contrapposizione, tra queste due anime che convivono in un unico corpo trasmigrandovi di scena in scena: ci sono due maternità, delle quali la drammaturgia evidenzia la diversità, anche come segno distintivo di un diverso valore specifico del ruolo nella società di appartenenza: pertanto, per una Filumena che afferma che “'e figli so' figli”, c'è una Medea che sentenzia: “Ci sono figli che per l'umanità funzionano meglio da morti”; è qui, in questa differenza sostanziale che in scena si sviluppa, che prende corpo la differenziazione sostanziale, fra la donna che fa parte per se stessa, per difendere la propria condizione di madre ed il frutto del proprio grembo (Filumena) e la donna che incarna invece lo scontro di civiltà (Medea), disposta a sacrificare il frutto di quel grembo in nome di una ragione superiore.
La barbara e la plebea, comunque sentite come portatrici di una diversità, assurgono così a diverse sfumature – l'una particolare, l'altra universale – di una medesima declinazione: la sofferenza, la rinunzia che si stagliano come rigurgito di dignità in sussulto, per deflagrare in rivendicazione valoriale.
Nel prendere forma sulla scena, la forza vibrante della parola, bipartita nel doppio registro che connota le due essenze alternativamente incarnate, si appoggia ad una costruzione scenica semplice ed allusiva, che nel gioco delle luci e nelle modulazioni dello spazio, corrobora la trasversalità delle figure centrali, sottraendole ad una dimensione temporale precisa per consegnarle ad un tempo ulteriore, metastorico.
È una scrittura estremamente articolata quella de La sposa sola, coniugata in una regia che ne traduce efficacemente gli intenti, conducendo un viaggio che conduce dal chiuso viluppo del dolore alla catarsi della propria espettorazione.

 

 

 

 

 

 

 

La sposa sola
(da una riflessione non urgente sulla Medea di tanti e sulla Filomena di uno)

testo e regia Salvatore Mattiello
con Teresa Addeo, Giorgia Dell'Aversano, Giuseppe Giannelli, Pietro Juliano, Rossella Sabatini
costumi Patrizia Lombardi
disegno luci
Ciro Di Matteo, Salvatore Mattiello
musiche originali Gino Protano
scene Ciro Di Matteo, Peppe Zinno
produzione Ichòs Zoe Teatro
foto di scena Nina Borrelli
lingua italiano e napoletano
durata 1h 30'
Napoli, Sala Ichòs, 28 novembre 2015
in scena dal 13 al 15, dal 20 al 22, 28 e 29 novembre 2015

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