“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 02 December 2015 00:00

È vero amore solo se finisce

Written by 

Potrebbe sembrare facilissimo parlare d’amore, ma non lo è per la sua complessità specie nel mondo di oggi, figurarsi portarlo in scena, impresa resa ancora più difficile dal parlare della crisi e della fine di un amore. Si corre il rischio di scivolare nella banalità, del già detto perché già vissuto. Siamo tutti esperti in questioni di cuore, più spesso in quelle degli altri che non nelle proprie.

Luciano Melchionna, con il suo nuovo testo che ha debuttato in prima nazionale a Benevento Città Spettacolo, affronta con il suo stile inconfondibile questa sfida dopo il successo del suo Dignità autonome di prostituzione che viene messo in scena da diversi anni sempre con un grande successo. Questa volta sulla scena abbiamo una coppia e un personaggio femminile che si autodefinisce Angelo del prologo e dell’epilogo, che si trova già sulla scena a sipario chiuso, mentre il pubblico si sistema nella sala, vestita come una bambola dall’abito giallo chiaro, due piccoli nodi sul capo a mo’ di crocchia, seduta sul bordo del proscenio, con le gambe divaricate a fissare la torta che ha davanti. Ha una maschera dello stesso colore del viso che le copre una metà del volto e la fa sembrare pittoresca, dai tratti esagerati, quasi inquietanti come le bambole assassine dei film di Dario Argento. In effetti una volta sceso il buio in sala, la bambola-prologo si alza e con un grosso coltello colpisce con veemenza la torta dopo aver cantato Happy Birthday come una piccola Marilyn Monroe al compleanno di Kennedy. Quando mani di un corpo invisibile le tolgono l’abito e la maschera per farle indossare una giacca smoking su una guêpière color carne, la Prologo racconta con un tono tra l’ironico e il sarcastico l’antefatto di quello che si vedrà di là del sipario ancora chiuso.
È il quarantaseiesimo compleanno di Giulia, anni prima lei aveva visto scivolare via il suo primo matrimonio verso una fine quasi inconcepibile all’inizio della loro storia, gli sguardi, l’emozione, tutta quell’ energia dov’era mai finita? Giulia si è risposata, ha avuto un figlio e il suo secondo marito le ha organizzato una festa di compleanno dall’altra parte del sipario, ma quando esso si apre e la scena ha inizio, Giulia scopre che non c’è nessun invitato, il marito ha voluto che rimanessero solo loro due a parlare guardandosi negli occhi. Non per amore, no, ma per dirle addio, perché lui non la ama più. La scena che si presenta è emblematica: sul palco ci sono due sedie con i braccioli, due candelabri, ma un unico cuore gigante avvolto da una rete che pende dal soffitto con tanto di vene aorte che lo tengono sospeso nel vuoto. È un ammasso rossiccio, dilatato nello spazio aereo che incombe sui personaggi come una presenza minacciosa. È il suo battito che accompagna le battute iniziali, quando parlano della resistenza a lasciare l’altro per paura della solitudine, mentre lei cerca di alleggerire la tensione che sente dentro e intorno a sé prendendolo in giro con la storia falsa del suo stupro. Inizia così un dialogo incalzante tra i due, ancora eleganti nei loro abiti della festa, lei in lungo rosa cipria e lui con le bretelle su una camicia bianca, ma pronti ad indossare quelli di due che si stanno lasciando. La regia è possente e si vede nella recitazione degli attori, nei tempi perfetti del dialogo, nell’uso della voce che gioca sul filo della rabbia, dell’ironia, del surreale. Le battute sono accompagnate da gesti plateali, melodrammatici, a tratti esilaranti, senza mai perdere di tono, senza contrasti slabbrati.
Li vediamo ricoprire tutti i ruoli possibili, pronunciare tutte le frasi fatte tipiche del dizionario dell’amore. Si va da lei che dice: ”Come puoi non amarmi più?” a lui che risponde: ”Non so come si ama, non ho il libretto delle istruzioni!”. E ancora: ”L’amore è difficile da spiegare”, “Se mi ami dovresti augurarmi ogni bene...”, in un crescendo di musica di scena e recriminazioni sulla scena. Terminata questa fase, si confessano le loro aspettative iniziali. Il nocciolo sembra essere tutto lì, nella proiezione dei propri bisogni sull’altro cucendogli addosso un “ologramma su misura dalla brava sartina dell’Amore, un ologramma di me da farmi indossare... e io l’ho indossato, per amor tuo! e l’ho tenuto a pelle anche se bruciava, o mia Medea, l’ho tenuto addosso soffrendo in silenzio per amore della nostra creatura mentre andavo a fuoco!”. Amore che si trasforma in sofferenza, angoscia, dolore senza fine.  Lui ha un’altra donna, ma solo perché sente che la sua natura è poligama ed aveva sempre cercato di guarire da quella che pensava essere una malattia sconveniente, investendo lei di un ruolo salvifico di cui, ovviamente, Giulia ignorava l’esistenza. A questo punto anche lei è costretta a fare un’autoanalisi e ad ammettere che anch’essa aveva rinunciato a cercare l’uomo che le piaceva facendosi piacere lui, per quel retaggio familiare ancestrale che obbliga la donna oggetto del corteggiamento a seguire un schema ben preciso. Che fine ha fatto la magia del primo incontro? Che fine ha fatto quell’energia? È stata trasformata, incanalata nei ruoli che da subito, da quel secondo dopo il primo sguardo, si indossano per mera, inconscia tradizione.
Apparenza e realtà. La cara, vecchia, ma mai passata di moda, poetica teatrale pirandelliana è ancora lì sul palco a tentare di dare una risposta, forse quella più giusta oggi, quando tutti dicono di non voler ricoprire ruoli perché la coppia viene vista come una catena, per poi cercare rifugio in ruoli da non protagonisti o da comparse perché l’amore fa paura, finendo poi per intristirsi perché si vive una vita vuota, fasulla. Davanti alla torta piena di panna, Giulia e il marito si siedono a terra, si sorridono, e dopo essersi spogliati dei loro numerosi ruoli assunti in tanti anni insieme, si spogliano anche realmente dei loro abiti e, abbracciandosi, li vediamo infilarsi in quell’immenso cuore che ad un certo punto della storia è crollato per terra e accoglierà i loro corpi e la loro storia come un’alcova, finalmente liberi di essere loro stessi. E, forse, di amarsi sul serio. L’Epilogo chiude il sipario e propone di continuare la storia: è un nuovo inizio? Una fine dolce? Perché non suggerire al regista la continuazione scrivendo una mail all’indirizzo segnato su un cartoncino che è stato consegnato al pubblico insieme al biglietto? In perfetto stile Melchionna su questo biglietto campeggia un cuore  e l’indirizzo Internet. Applausi calorosi per la messa in scena, per la bravura degli interpreti, in modo particolare ad Autilia Ranieri strepitosa e ad Her, la Prologo/Epilogo che ha fatto anche da burattinaia muovendo invisibili fili di una Giulia affranta. Sicuramente uno spettacolo che forse non è nuovo nel tema o nel modo di affrontarlo, certamente ricco di citazioni antiche e moderne, ma originale nella lettura autoptica di un sentimento senza tempo.

 

 

 

 

L’amore per le cose assenti
di Luciano Melchionna
regia Luciano Melchionna
con Giandomenico Cupaiuolo, Autilia Ranieri
e con la partecipazione di Her
costumi Milla
musiche originali Stag
scene Roberto Crea
assistente alla regia Sara Esposito
foto di scena Attilio Cusani
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Teatro Nuovo, 27 novembre 2015
in scena dal 27 al 29 novembre 2015

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook