“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 20 November 2015 00:00

Il giocatore (perdente) di Valery Fokin

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(note iniziali su scena, attori e drammaturgia)
In Liturgia zero Valery Fokin impone a centro palco una grande roulette con pilastro centrale ottagonale, contornato da dieci poltrone-caselle di ferro, sul retro la distinzione per numero, nelle quali fa sedere i personaggi dello spettacolo; buona la scelta quindi – per dirla con Giovanna Spendel, che de Il giocatore di Dostoeskij fu attenta studiosa – di “imperniare l'intero palcoscenico con la roulette” poiché “nel corso della narrazione” – continua la Spendel – “la stessa cittadina nella quale è ambientato il romanzo si trasforma ai nostri occhi in una grande roulette su cui girano le palline, mosse da una forza d'inerzia più inconscia che consapevole”.

Fokin inoltre non dimentica che, questo luogo, è anche un'oasi dell'altrove ovvero uno di quei centri termali nei quali i russi all'estero passano qualche settimana o qualche mese così staccandosi dalla patria, dal lavoro o dalla condizione sociale d'appartenenza consueta e dalle norme che regolano la propria vita quotidiana. Dal pilastro centrale ecco perciò le fontane da cui scorga acqua ed ecco le tazze di porcellana bianca, gli accappatoi grigio-verdi, il gioco con le racchette, le comparse vestite in camice medico, l'imitazione del belare animale (tra i sentieri limitrofi di Roulettemburg pascolano pecore e capre) ed il soffio degli strumenti di misurazione della pressione, che Fokin fa coincidere con gli spasimi di un rapporto sessuale (M.lle Blanche, a cosce spalancate, sul Generale, seduto) poiché le terme sono anche il luogo-occasione nel quale cercare marito, intessere fuggevoli rapporti amorosi, concretizzare e viversi con maggior tranquillità i tradimenti sorti, in silenzio e di nascosto, tra gli sguardi indiscreti della città.
Fokin, giustamente, evita ogni possibile rappresentazione ambientale pseudo-verista giacché, con Dostoevskij, non avrebbe alcun senso: l'esterno, nei suoi romanzi, non ha infatti altra funzione che fare da percorso di una Via Crucis della coscienza, è occasione di tormento perdurante e insistito, ha dimensione cronometrico-passionale più che chilometrico-geografica (il lento trascinio delle paure, le fissazioni che si ripetono ad ogni passo, i pensieri che incidono dalla partenza all'arrivo) ed ha caratteristiche puramente emotive tanto che, volendolo formalizzare visivamente, questo esterno apparirebbe distorto, rabbuiato o infiammato dalla soggettività del personaggio tanto quanto lo sono certi panorami ammalati di Munch. Perciò l'intero spettacolo presenta una continua foschia, data dal pulviscolo percepibile rispetto al nero delle parete di fondo, e per questo – nei pochi cambi cromatici – propone l'illuminazione dello sfondo perché s'impongano le ombre ingigantite di figure e roulette, al fine d'evocare un contesto la cui esistenza è mentale, tanto da essere localizzabile – prima che in qualche parte del mondo – tra le tempie del soggetto che prende parola.
Fa bene Fokin, inoltre, a coordinare la presenza attorale in modo che nessuna figura appaia da sola: Polina ed Alexey dialogano a destra mentre a sinistra sta seduto il Barone; la vecchia nonna gioca alla roulette e il Generale, M.lle Blanche, Polina e De Grieux se ne stanno di lato; Polina invita Alexey ad un gestaccio pubblico e i personaggi restanti s'affacciano lateralmente alla loro poltrona e aguzzano lo sguardo, pronti ad osservare lo scempio. Si tratta di rispettare una delle caratteristiche fondamentali della narrativa dostoevskijana – la compresenza dei personaggi – poiché la misura dello strazio individuale è strettamente connessa alla presenza dell'altro, che diventa testimone, giudice, commentatore dell'offesa subita, della vergogna provata, della vendetta da compiere e che non viene compiuta. Così, ad esempio, leggo che “Mr. Astley s'incontra spesso con noi durante la passeggiata, si toglie il cappello e ci passa accanto”; che “nei luoghi di riunione, al casinò, al concerto della banda davanti alla fontana, egli si ferma in un angolo non lontano dalla nostra panchina”; che “sia nel parco, sia nel bosco, basta soltanto alzare gli occhi, guardare intorno e, senza temere di sbagliare, da qualche parte o sul sentiero più vicino o da dietro un cespuglio, eccolo spuntare”: questo è esattamente ciò che, sul palco, compie il Mr. Astley di Fokin che – profittando della pavimentazione mobile prevista dalla scenografia (una serie di tappeti rullanti, volti a far scivolare i personaggi come scivolano le statuine dei carillon) – appare, sorride, saluta Polina, Alexey, M.lle Blanche o il Generale togliendosi il cappello e scompare, voltando oltre la fontana-roulette posta al centro.
Fokin genera dunque un grande apparato simbolico all'interno del quale attori ed attrici vivono secondo i parametri dell'immedesimazione assoluta, quasi un rimando alla fase čechoviana della riviviscenza di Stanislavskij, fatta di gesti impalpabili, di accenni furtivi, di minuzie a definire un'immagine e lo stato d'animo di un personaggio: respiri trattenuti, un pugno che trema, gli occhi che seguono una mano che si muove, qualche lacrima, il pallore di un volto, una scrollata di spalle, l'accenno di un sorriso devono dire ciò che le parole del testo non prevedono o non riescono a dire ed ecco perciò Polina che stringe e maltratta il vestito, nel momento più acuto del suo tormento, o Alexej che di continuo si guarda il petto, lì dove la stessa Polina lo ha appena toccato. Questa partitura di microsegni serve a Fokin anche per rendere alcune delle venature nascoste della trama; così, ad esempio, M.lle Blanche – mentre conquista la momentanea ricchezza di Alexsej, lasciandolo spiare sotto la veste – carezza i capelli del Generale poiché nel romanzo è il Generale che le tornerà affianco, è il Generale con cui si accompagnerà strategicamente di nuovo, è dal Generale che, infine, riceverà terre e beni, perch'ella diventi ciò che ha sempre desiderato diventare: una tenutaria.
Rispetto al testo Fokin opera per spostamenti e per tagli, avendo il compito di rendere visibile ciò che viene descritto e vitale quel che viene dichiarato. Elimina la parentesi parigina di Aleksej, lasciandone intuire il dissesto economico; tramuta in dialogo alcune riflessioni monologiche; coniuga fisicamente (l'abbassamento dei pantaloni) un insulto verbale (lo “Jawohl” detto al Barone nel capitolo sei); fa sparire le figure secondarie o di contorno o le riduce a pure apparenze che durano un istante e che non assolvono più alcuna funzione effettiva (i giocatori di casinò, i lacchè polacchi, i grassi tedeschi, i mendicanti di strada) e – soprattutto – ridefinisce l'ordine di alcune parti del romanzo ed infatti decide d'iniziare lo spettacolo dal dialogo tra Mr. Astley ed Aleksej (“Dunque lei segue le vicende dei suoi vecchi amici… questo le fa onore”), che forma il diciassettesimo capitolo de Il giocatore, quando tutto quel che doveva avvenire è già avvenuto: la nonna è morta, De Grieux è sparito, il Generale è defunto e la Blanche se ne gode gli averi mentre Polina è in Svizzera, lontana oramai da Aleksej, impegnata a cercare una pace dai suoi tormenti nervrotici.
La scelta è comprensibile e, sul momento, la ritengo anche condivisibile: in fondo Il giocatore non è che la memoria postuma di fatti svaniti, non è che il diario di folli giornate appartenute al passato, non è che un insieme di “appunti” (così li definisce il narratore) che vengono letti generando il ricordo, la commemorazione, il ritorno visivo di tutto quello che è stato. E tuttavia, nelle ore che seguono lo spettacolo, inizio a riflettere ed è proprio da questa scelta che iniziano i dubbi che adesso nutro sulla regia di Fokin. Alla base di questi dubbi una domanda: quale rapporto c'è tra il regista e i suoi attori ovvero quale rapporto c'è tra la regia e i personaggi che ho appena visto in palcoscenico?


(il teatro polifonico dello scrittore)
La domanda mi tormenta per una notte intera e per l'intero giorno successivo ma è ad essa che devo cercare di rispondere se voglio comprendere davvero il senso dell'operazione svolta da Fokin. Questo perché ciò che distingue la narrazione di Dostoevskij, quello che ne fa il grande scrittore che è per noi tutti, è la polifonia ovvero la capacità, per citare Bachtin, di “far convivere una pluralità di voci e di coscienze indipendenti e disgiunte, pienamente autonome tra loro e nei riguardi dell'autore”. Dostoevskij non parteggia per nessuno dei suoi personaggi ma dà, ad ognuno di essi, la possibilità di esprimere pienamente, fino in fondo, il proprio punto di vista; non preordina una funzione testimoniale e non si dà – come autore – il compito di dimostrare una tesi né vuole applicare un teorema, annunciare un manifesto, dimostrare una dottrina, affermare un convincimento che lo riguarda e che vuole imporre ai lettori. Genera uno spazio lasciandolo vivere da figure che non sono oggetti della parola dello scrittore ma soggetti della propria stessa parola – “è un padrone di casa che ammette ogni sorta di ospiti” lo definisce Otto Kaus –, consente loro un'assoluta libertà di pensiero fino al punto che – gli uomini e le donne dei suoi romanzi – diventano “uomini-idea” e “donne-idea”, cioè totalmente coincidenti con il discorso di sé e del mondo che esprimono: “ogni opinione diventa un essere vivente ed è inscindibile dall'incarnata voce umana”, per citare ancora Bachtin.
Dostoevskij non ha verità da esprimere ma lascia che ognuna delle sue creature pensi, viva e dica la sua verità e le conseguenze sono narrativamente evidenti: compresenza di pareri disgiunti, posti a contrasto; dialoghi drammatizzati; assenza di realismo urbano o contadino ma scorci e commenti in soggettiva del contesto urbano o contadino; scene di massa; unità cronologica; rapidità dinamica a causa delle interazioni continue; sviluppo nello spazio ma non nel tempo per cui non abbiamo – nella sua letteratura – la figura goethiana, ad esempio, mostrata nel suo divenire (Wilhelm Meister, per rimanere al teatro) ma un insieme di esseri, invece, che agiscono in contemporanea, in relazione reciproca, nella sezione di un solo istante: più o meno dilatato. Da ciò deriva la teatralità potenziale dei suoi romanzi: dialogicità, accelerazione ritmica, messa in mostra delle contraddizioni sociali nello spaccato di un evento o di una giornata, realizzazione di a-parte confessionali in un ambito di affollamento soffocante, importanza data solo al presente giacché, del passato (si pensi all'offesa subita dall'uomo del sottosuolo), resta solo ciò che vale ancora e perdura: lacerando tra le tempie, amareggiando lo spirito.
E Valery Fokin?


(il teatro didascalico del regista)
Negli ultimi due o tre minuti di Liturgia zero avviene uno scatto, un cambiamento visivo, stilistico ed argomentativo: Fokin mette i suoi attori in costume moderno e gli impone una lezione di fitness, tenuta da un'insegnante tedesca (rimando alla città di Amburgo, verso cui il protagonista medita di partire); nel contempo fa apparire – vestito di bianco e nero, come il suo Aleksej – un bambino, seduto nella poltrona-casella: il bambino attraversa la scena, portato da questa sorta di giostra teatrale, mentre l'Aleksej di Anton Shagin se ne sta in ribalta, sguardo fisso alla platea, contemplando idealmente l'infanzia, il suo stesso passato. Fokin dichiara così le ragioni fondanti dello spettacolo: da un lato l'attualizzazione del contenuto (l'ossessione per il denaro, che domina la realtà contemporanea); dall'altro la matrice autobiografica de Il giocatore, scrittura cui Dostoevskij diede vita non soltanto per ripianare i debiti e onorare un contratto-capestro ma anche e soprattutto per confessare l'aspetto ludopatico di sé.
Questi pochi minuti che, all'uscita dal teatro, mi sembrano particolarmente riusciti, diventano nel mio ragionamento quelli che denunciano la superficialità registica dell'allestimento. Fokin infatti usa Il giocatore per enunciare la propria idea e fa, dunque, dei suoi attori lo strumento per affermarla. Vedete, sembra dirci, il contesto del quale tutti noi facciamo parte è ammalato dall'idea del denaro e ve lo testimonio usando questo testo e questi interpreti.
Siamo dunque al cospetto di uno spettacolo monologico, del quale l'unica vera parola che conta è quella del regista, del quale conta solo ed esclusivamente il suo punto di vista. Legittimo, sia chiaro, ma questo modo d'esprimersi teatralmente è all'opposto del modo in cui s'esprime narrativamente Dostoevskij. Lo scrittore non fa delle sue figure il proprio megafono, Fokin sì; lo scrittore non dà una compiutezza sistematica alla sua opera, Fokin sì; lo scrittore non tratta una questione sociale e politica strumentalizzando la storia in senso diacronico e facendone un supporto per la dimostrazione di una tesi, Fokin sì. Fokin fa ciò che Dostoevskij non ha fatto mai in nessuno dei suoi romanzi: denotare una verticalità di rapporto tra autore (regista) e personaggi (attori), imponendo all'opera un unico spirito, un unico sguardo, un'unica idea. Il rifiuto, la cancellazione e il contrario della polifonia dostoevskiana, per intenderci. Da questa imperiale verticalità derivano gli aspetti strutturali che – di Liturgia zero – mi convincono meno.
Fokin infatti ingabbia i suoi interpreti, costringendoli spesso a recitare da seduti (riduzione della fisicità, esaltazione della verbalità), fissi per gran parte dello spettacolo nella zona anteriore e centrale del palco (ostentazione dimostrativa); impone alla messinscena una lentezza che la fonte letteraria non ha, interessato com'è a far dire più che a far agire i suoi attori e le sue attrici; per epicità testimoniale apre incongruamente la quarta parete (gli sguardi di Aleksej alla platea) e illumina la sala al momento dei giri della roulette (coinvolgimento didattico degli spettatori: osservate e prendete coscienza dell'azzardo perché vi riguarda); opera per straniamento inventando – all'improvviso – un racconto mimato portando così Olesia Sokolova, che interpreta M.lle Blanche, a uscire dal personaggio facendosene marionetta, burattino, icona rappresentativa; tramuta figure importanti de Il giocatore (esempio: De Grieux) in macchiette episodiche e riduce la stessa M.lle Blanche ad un'oca giuliva, coscia mostrata di continuo e sorriso da valletta istupidita, ma è un errore: per quanto si dica che “è priva di qualsiasi istruzione” questa donna “è cauta e furba” ed è l'unico personaggio, a fine romanzo, che ottiene ciò che voleva ottenere; mortifica, inoltre, la relazione sincronica tra gli interpreti privilegiandone invece l'offerta in sequenza (Liturgia zero vive della frontalità, lineare e didascalica, di tre figure principali e delle loro disavventure, dei loro stati d'animo: Polina, la vecchia Babushka, Aleksej); infine è incapace di rendere la condizione illiberale che appartiene ad ogni creatura de Il giocatore – la cui felicità dipende dalle decisioni di qualcun altro –, la carcerazione finanziaria che contraddistingue i protagonisti del romanzo, la commutazione d'ogni rapporto familiare, sentimentale e sessuale, in un vincolo puramente economico.
Per ultimo: è assente in Liturgia zero ogni vero riferimento biografico, che sia allusivo o memoriale, a Dostoevskij.


(note finali su un uomo, la sua malattia, il suo dramma)
“Quando ripenso alle cinque settimane passate a Baden-Baden mi persuado sempre di più che mio marito, allora, era sotto l'influenza di un sentimento terribile, dal quale non poteva liberarsi”. “F.M. non sapeva dominarsi e perdeva quanto ricavato dagli oggetti dati in pegno”. “Qualche volta la fortuna tornava improvvisamente a sorridergli. Ricordo che, un giorno, F.M. tornò a casa con un portamonete pieno di pezzi da venti talleri, per un totale di 4.300 talleri. Questi soldi però non rimasero in tasca per molto tempo, F.M. non seppe resistere alla tentazione e, sempre tormentato dal gioco, prese venti pezzi e li perdette all'istante. Venne a casa per prenderne degli altri, e così per due o tre ore, finché perdette tutto”. “Tornava a casa pallido, sfinito, reggendosi appena in piedi, mi chiedeva subito altri soldi e tornava a giocare mentre – quando non poteva tornare al casinò – cadeva in preda alla disperazione, era triste, cominciava a piangere, si metteva in ginocchio e mi supplicava di perdonarlo, prima di tornare a chiedere soldi e imprecare la sorte”. “Bisogna rassegnarsi a considerare la passione del gioco come una malattia”. “Il gioco è la sua più grande condanna, il suo malanno più acuto, il suo tormento più atroce”. “Ha detto che, per colpa del gioco, finirà per diventare pazzo o per tirarsi una pallottola in testa”.
Basta aver letto i diari di Anna Grigorev'na per comprendere di quale tormento fosse vittima lo scrittore: solo, seduto in poltrona, a contare le poche monete rimaste, provando a riflettere in che modo giocarle alla roulette o in piedi, sulla soglia che divide la camera da letto dal soggiorno, mentre si allontana dalla moglie partoriente per recarsi, in tutta fretta, al tavolo delle carte o – ancora – in fila in una bottega semi-oscura, tra contadini miserrimi e ladruncoli di strada, a impegnare – di volta in volta – un bracciale, un cappotto, l'orologio, l'anello, un vecchio paio di scarpe, due portaritratti, un panciotto, i piatti e i bicchieri del corredo matrimoniale, un crocifisso d'oro e d'argento, una spilla in madreperla, un fazzoletto di seta, l'unica giacca invernale che ancora possiede.
Vittima di una compulsione istintuale e irragionevole, Dostoevskij prova il piacere duplice e ambivalente della trasgressione e della rovina, dell'eccesso e del umiliazione, del trionfo e della caduta, associando al peccato di giocare la punizione per aver peccato giocando: “Lo scrittore traeva ad un tempo” – scrive Mauro Fornaro in La figura del giocatore in Dostoevskij – “il piacere e la punizione del piacere stesso” associando nel gesto della puntata la bramosia e il senso di colpa, il bisogno antidepressivo del rischio, il sogno di una quantità enorme di denaro da poter dissipare e lo spirito di rivalsa rispetto al destino, la confusione tra preveggenza e fallimento, la frenesia di assoluto, la pratica autopunitiva della mortificazione costante di sé.
È (anche) questo che Dostoevskij narra ne Il giocatore, rendendo la figura di un giovane in preda alla potenza dispotica della scommessa, del gioco, della “pazza audacia” priva di limiti e di controllo. Ma, di tutto ciò, non c'è alcuna traccia in Liturgia zero: Fonin si limita a fare dell'ossessione per la roulette un sotto-pensiero secondario, subordinato alla passione amorosa di Aleksej per Polina, tant'è che riduce la presenza del protagonista al casinò e – quando si tratta di inscenarne il trionfo, narrato nel quattordicesimo capitolo del romanzo – ne dimentica lo stato alternante di fortuna e sfortuna, il gesto della puntata continua, l'assenza di calcolo, l'ubriacatura emotiva, la perdita di coscienza, la condizione febbricitante, le tempie sudate, le mani tremanti, lo sguardo come vuoto e il senso di terrore, la paura della disfatta, l'attesa palpitante e l'inebriante bellezza della sopravvivenza, della moltiplicazione dei soldi, della vittoria. È vero a tal punto che il suo Aleksej non è la grottesca figura definita da Dostoevskij – le spalle curve, le tasche gonfie, i dieci chili di oro nei calzoni che ne rendono la camminata goffa, insicura, mostruosa – ma soltanto l'ubriaca sagoma di un ragazzo che s'affretta danzando, al suono della banda, verso la sua donna: senza provare la fobia, propria del personaggio, di essere derubato durante il tragitto (cioè di poter perdere ancora tutto); senza essere posseduto dai demoni che scuotono i nervi e che sono capaci di “paralizzare tutti i centri di volontà”: come capita allo scrittore.
L'Aleksej di Fokin, dunque, non è Il giocatore ma un giocatore ed questa differenza di senso, di forma e sostanza, che − più di tutto il resto − dice i limiti dello spettacolo visto: Liturgia zero non rende infatti l'abisso che alberga nel petto delle figure dostoevskijane, non ne mostra gli eccessi furenti, rabbiosi e ridicoli, precipitosi, quasi biblici; non ne inscena la complessità caratteriale, malsana e delicata, santa e degradata; non rinnova − in definitiva e nonostante l'eccelsa bravura degli interpreti e qualche bel momento visivo − la nostra necessità, a un secolo e mezzo di distanza, di sottrarre ore al sonno per leggere e rileggere di Stavrogin, di Raskol'nikov o di uno qualsiasi dei fratelli Karamazov e del principe Myskin, di Arkadij Makàrovic, di Jakov Petrovič Goljadkin e del suo sosia. Di Aleksej, di Polina, della vecchia Babushka e di M.lle Blanche, De Grieux, Mr. Astley.




Liturgia zero
da Il giocatore
di Dostoevskij
regia Valery Fokin
con Sergey Elikov, Igor Volkov, Era Ziganshina, Sergei Parshin, Vasilisa Alekseeva, Polina Tetliakova, Elena Vozhakina, Olesia Sokolova, Ivan Efremov, Viktor Shuralev, Aleksandra Bolshakova, Sergei Denisov, Igor Mamai, Tikhon Zhiznevskiy, Aleksandr Polamishev, Andrei Marusin, Sergei Sidorenko, Mikhail Beliavskii, Anton Shagin
musicisti Timotei Gavrilov, Filipp Baiandin, Dmitrii Zotin, Anton Popov, Andrei Ogorodnikov, Aleksandr Shcherbakov
scenografia e costumi Alexander Borovsky
musica Alexander Bakshi
disegno luci Damir Ismagilov
direttore musicale Ivan Blagoder
coreografie Igor Kachayev
assistente alla regia Svetlana Ivanova
produzione Teatro Alexandrinskij di San Pietroburgo
fonte foto Ufficio Stampa del Teatro Nazionale di Napoli
lingua russo con sottotitoli in italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro San Carlo, 17 novembre 2015
in scena 17 e 18 novembre 2015

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