“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 20 November 2015 00:00

I supplizi di Fibre, lo splendore della visione

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Quattro quadri per quattro supplizi, quattro episodi indipendenti eppure strettamente interrelati da un filo doppio e comune, che trova il proprio ganglio formale in un sistema di luci graticolare che, in ognuna delle quattro partiture, frammenta a scacchi l’assito come fosse l’unica luce possibile in uno spazio di prigionia, perimetro scenico di contenzione e costrizione, in cui personaggi diversi di storie diverse mostrano la comune, meschina, quotidiana bruttura del fondo umano.

Costrizione ed aberrazione, in un crescendo montante, delineano quattro vicende topiche, sguardo impietoso su un’umanità deteriore, illuminata diafana da una luce che inonda in maniera gradata e costante il palco, mostrandoci la progressione, l’evoluzione, lo sviluppo di quella fauna antropica brutta sporca e cattiva che faceva mostra del proprio laidume fisico e morale in Furie de sanghe; di quello spettacolo Lo splendore dei supplizi ci appare come la gemmazione compiuta, più maturo nella forma drammaturgica, rappresentando a nostro modo di vedere il punto – al momento – culminante del percorso artistico della compagnia barese.
Quattro supplizi per quattro esacerbazioni possibili, in cui emerge, nel difforme divenire di ciascun plot, li motivo serpeggiante di un abbrutimento nelle relazioni che intercorrono tra gli esseri umani, creature che appaiono in scena come svuotate di qualsivoglia legittima appartenenza ad un consorzio che possa dirsi “civile”, raccontate in un sommario di consunzione che le vede messe a nudo nelle proprie tare, sotto un’egida a forma di mannaia che assume in scena il sembiante di un boia, cappuccio nero calato sul capo, torso nudo e anfibi ai piedi, “servo” di scena al servizio del supplizio, della pubblica esecuzione con cui in ribalta si farà scempio di ciascuna colpa che espierà la propria condanna; e, siccome nessuno è escluso da questo gioco al massacro che investe l’uomo nel suo complesso, lo stesso carnefice, dopo aver puntato un indice accusatorio verso il pubblico, come a volerci ricordare che anche noi, in fondo, coltiviamo meschinità degne d’un pubblico patibolo, diverrà vittima ribaltata in scena nell’ultimo episodio.
Una coppia ormai sfaldata, un compulsivo giocatore di videopoker, una badante straniera vessata da un anziano protervo e razzista e infine un vegano alla mercé di due operai frustrati sono i protagonisti dei quattro quadri, ciascuno è prigioniero del proprio micromondo, una prigionia condivisa seppur separata quella dei due coniugi in crisi, una prigionia allucinata, sulla scorta di un’efferatezza compiuta, quella del giocatore dipendente dalle macchinette mangiasoldi, una prigionia reciproca quella di una badante e del suo assistito, prigionieri ognuno della condizione di minorità e dipendenza dell’altro (e dall’altro), una prigionia estensiva quella dei due operai che sequestrano un vegano per infliggergli l’esiziale tortura di un rimpinzamento carnivoro e forzoso.
Fin qui il contenuto; ma, a rendere eccellente il prodotto è la sua confezione: Fibre Parallele traduce tutto ciò in una forma teatrale che ormai è cifra riconoscibile  e distintiva della propria poetica, del proprio sistema di elaborazione d’immagini, capace di variare i registri (linguistici, d’ambientazione), passando disinvoltamente da una situazione borghese ad un contesto sottoproletario, riassumendo il tutto sotto il denominatore unico di una comunanza nello schifo che sembra assimili gli individui senza differenze di sorta. La sublime descrizione di un senso di riprovazione strisciante assume le forme di linguaggi teatrali maneggiati con perizia, che vanno dall’uso sapiente delle luci di Vincent Longuemare, alle sottolineature musicali presenti come un pungolo delicato e al tempo stesso insinuante a partire dal primo episodio, per confluire nella creazione di scene in cui l’accento posto sul grottesco finisce per conferire evidenza al belluino negletto e allo stesso tempo prossimo che abita il nostro presente, fatto di pulsioni basse, di istinti sudici, che si esprimono in termini di fisiologia animalesca: i due membri della coppia che finiscono per azzannare, incatenati come bestie, la stessa torta nuziale offerta in terra dal boia; il giocatore compulsivo che con altrettanta foga si masturba mentre conserva in surgelatore un corpo di madre a brandelli per poterne continuare a intascare la pensione da dilapidare alle macchinette mangiasoldi; la vecchiaia reazionaria e sciovinista d'un uomo retrogrado e non più indipendente nelle proprie funzioni vitali che si sente in diritto di angariare la badante straniera con l’insolenza dello sputo e con la volgarità della molestia; lo scempio del cibo sul corpo inerme di un vegano preso prigioniero e seviziato.
C’è una volgarità di fondo che è oggetto del racconto: è la volgarità che appartiene ad un’ecumene incrudelita, che sembra essere ritornata in preda ad una primigenia barbarie, una barbarie sottile che si consuma nelle porte accanto, nelle vite che ci sono contigue, una barbarie che accettiamo come s’accetta tutto quel che è ordinario, usuale, comune, che non fa più notizia se non quando si scopre un cadavere putrescente che, in realtà, aveva già cominciato a decomporsi da vivo, dal suo interno, nei suoi valori prim’ancora che nelle sue viscere.
Quattro episodi indipendenti, quattro quadri susseguenti: come fili sonori di uno strumento a corda, vibrano ciascuno d’una propria nota ed insieme concorrono a risuonare d’una stessa musica. Partitura suadente che del senso torbido che ne compone materia riesce a fare sinfonia d’immagini, in ogni quadro curando il dettaglio, la minuzia scenica, caratterizzando il narrato con particolari significativi tanto verbali quanto visuali. Drammaturgia e regia vanno di pari passo, concorrendo a comporre singoli quadri compiuti e indipendenti, che nell’insieme costituiscono un disegno generale avente come unico protagonista l’Uomo, vittima e carnefice nella circolarità di un indistinto supplizio, del quale in scena di volta in volta muta la forma.
Ed è proprio la forma teatrale a creare lo scarto decisivo tra un’idea di base e la propria traduzione scenica: l’uso del dettaglio è un tocco sempre riconoscibile, in un procedere drammaturgico che s’arricchisce, momento dopo momento, di elementi eminentemente teatrali – ed anche dichiaratamente metateatrali – che concorrono a compiere un’opera notevole per spessore e qualità. Sicché ci ritroviamo, episodio dopo episodio ad appuntare un dettaglio semanticamente significativo, che concorre di volta in volta a svelare un brandello di senso complessivo dell’intera opera; uno svelamento progressivo che parte dalla figura del boia costantemente in scena – a lato della scena – ad alzare ed abbassare il sipario, a somministrare il castigo alla coppia, al giocatore, al vecchio razzista che vessa la badante straniera e in ultimo per finire trasformato egli stesso da boia a vittima, entrando in un altro personaggio che dal fuori della scena viene trascinato dentro a subir per vindice mano di due nuovi aguzzini il supplizio del vegano.
Ancora sulla simbologia teatrale e sull’uso che se ne fa: se già s’è detto dello spazio perimetrale chiuso, illuminato da luci graticolari che ne fanno una gabbia (moltiplicata per quattro), vanno sottolineati in aggiunta gli altri elementi densi di senso; il linguaggio teatrale che Fibre Parallele maneggia con padronanza si traduce nel primo episodio (La coppia) in un quadro che vede due solitudini dialoganti in maniera indiretta, ciascuna col proprio monadico monologo di rimostranze e rivendicazioni; nel mezzo, un gatto meccanico, che si muove e miagola a scatti, appare come il simulacro di una felicità effimera, fittizia ed astratta, che si conserva nello stillicidio di una finzione, tenendo i protagonisti legati al proprio destino mediante le catene che li legano ciascuno al proprio posto sul divano. Nel secondo episodio (Il giocatore) l’uso di un dialetto barese basso connota la condizione aberrata di un giovane uomo derelitto, vittima del suo stesso abominio, prigioniero della propria dipendenza, la cui coscienza gli parla per bocca di un pupazzo a cui egli stesso dà voce per finta ventriloquia; qui la nemesi, prim’ancora che per mano del boia, avverrà tramite la proiezione spettrale della madre, uccisa e conservata a quarti per poterne scialacquare "l' terris'", quattrini di una pensione da fame; in questo episodio gli accenti del grottesco toccano la loro punta massima. Il terzo episodio vede i ruoli invertiti, in un rimarco ulteriore della teatralità ostentata: Licia Lanera veste i panni di un vecchio che si muove con un girello, razzista e prepotente; Riccardo Spagnulo è una badante in top rosa e fuseaux verde smeraldo. Il pensiero retrogrado e razzista dell’uomo è affidato ad una voce fuori campo, mentre su scena si istoria l’usuale prigionia reciproca tra due vittime della società, intercambiabilmente l’un l’altro carnefici, lo scaracchio continuo da parte del vecchio come simbolo estremo di un disprezzo, la sbrigativa brutalità della badante il contraccambio di quello stesso disprezzo. Infine Il vegano, il più breve dei quattro quadri – ed anche il più immediato – mostra l’abbrutimento di due operai (ed anche qui c’è il travestimento della donna in uomo) che “vendicano” la propria frustrazione su un professore “reo” di essere vegano e che in virtù della sua scelta, se vogliamo ‘alla moda’, viene identificato come il simbolo di un progresso non sentito come tale da due reietti, obbiettivo su cui sfogare le frustrazioni e le insoddisfazioni delle proprie vite meschine: “Noi siamo due teste di cazzo, due perdenti, due che sono rimasti indietro”; e ancora: “Che cos’è quest’evoluzione?!”. “Colpa delle persone come a lei!”; cappucci da boia come quello che prima era sul capo di chi ora interpreta il professore vegano (Mino Decataldo) vengono ora indossati dai due operai, non per mascherarne l’identità – di fatto resa dall’inizio manifesta – ma per simboleggiarne il ruolo di somministratori dell’ultimo supplizio: un’orgia di latte, uova, maionese, petto di pollo, mortadella a compiere l’estrema, inutile e grottesca vendetta.
Concludono così, con l’ultimo supplizio, che non risparmia nessuno, l’affresco plurale di una realtà bassa, dipinta coi toni accesi dell’evidenza grottesca; affresco plurale che lascia dietro di sé, oltre al senso profondo del suo messaggio – fotografia antropologica che deforma esasperando ma non certo esagerando – lo splendore, vero, della propria scenica rappresentazione.

 

 

 

 

 

Lo splendore dei supplizi
di e con Licia Lanera, Riccardo Spagnulo
e con Mino Decataldo
regia Licia Lanera
assistente alla regia Arianna Gambaccini
disegno luci Vincent Longuemare
consulenza e creazione puppet Marianna Di Muro
organizzazione Antonella Dipierro
tecnico di palco Amedeo Russi
foto di scena Luigi La Selva
produzione Fibre Parallele, Festival delle Colline Torinesi
con il contributo di Regione Puglia
con il sostegno di Nuovo Teatro Abeliano
durata 1h 50’
Napoli, TAN – Teatro Area Nord, 15 novembre 2015
in scena 15 e 16 novembre 2015

 

N.B.: Su Lo splendore dei supplizi si veda anche: Alessandro Toppi, Pensieri di uno spettatore dotato di taccuinoIl Pickwick, 20 novembre 2013

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