“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 17 November 2015 00:00

Apocrifo pasoliniano

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Apocrifo significa letteralmente “che non si vede, nascosto”; per estensione – e segnatamente in riferimento a quegli scritti che la Chiesa ufficiale non riconosce – la definizione designa quei Vangeli espunti dal canone biblico, ovvero “non riconosciuti”.

Apòkryphos di Ludovica Rambelli è un gioco che parte giocando già col titolo, per poi inscenare una giocoleria sfrenata, solo formalmente illegittima nel dichiararsi apocrifa nell’intestazione, in realtà intrisa di una serie di riferimenti pasoliniani declinati reinventando in scena un lascito ideale, fornendogli coloritura comica e cromie cangianti, che spaziano da lumeggiature manieriste – come nel quadro iniziale che, citando la prima scena de La ricotta di Pasolini, richiama la Deposizione di Rosso Fiorentino – a quadrerie chiaroscurali che, nella seconda parte dello spettacolo evocheranno la tipica luce caravaggesca, nonché l’iconografia che ne è protagonista.
In scena sette attori giocano coi ruoli entrando e uscendo, componendo di volta in volta tableaux vivants intervallati da una metateatralità continua: “Qual è la parte mia?”, “La devo dire dopo?”, “Io non la faccio più questa parte”, e ancora lumi chiesti ad un regista fuori scena, invasione della platea, “Scusa, ma tu che parte fai?”, “Io sono Giovanni”, “Impossibile, Giovanni l’ho sempre fatto io”, dichiarazione palese di giocoleria in corso, di teatro nel teatro che sta cercando di prendere una forma e che, nel cercarla enuclea il proprio sostrato pasoliniano di riferimento, citando come s’è detto La ricotta, ovvero l’episodio firmato Pasolini nel film collettivo Ro.Go.Pa.G., pellicola che si propone in esergo di raccontare “gli allegri principi della fine del mondo”; Apòkryphos questo scopo non se lo propone – almeno non nel senso di un racconto lineare – il mondo ha già cominciato a finire, ma resta l’allegria di raccontarlo, filtrato dalla lente deformante d’un grottesco ridanciano, che sulla scena vede giostrare corpi incerti, privi di una guida e di una direzione, che s’interrogano su uno spettacolo da fare, corpi che abbandonata la scena di una crocifissione, lamentano l’assenza messianica, lanciando un’invocazione che è invettiva verso un “Salvatore” assente e reclamato.
È un gioco, Apòkryphos, nella sua apparenza da assito, nel suo giocare in maniera scoperta con le citazioni (il motivetto twist che s’ascolta anche ne La ricotta, ma anche il Modugno di Che cosa sono le nuvole?, altro episodio pasoliniano di altro film collettivo – Capriccio all’italiana – in cui, guarda caso, si inscena con attori/marionette un Otello nel quale realtà e finzione s’intersecano a formare un unico inganno), è un gioco, Apòkryphos, che potrebbe sembrare un mero divertissement da palco, mentre in realtà appare, nella sua godibile leggerezza, come un’opera che contiene una sintesi, ancorché parziale, dei temi del moderno (“del più moderno di ogni moderno”, vorremmo dire), affrontati facendo del teatro metafora con salde radici che affondano in un fertile sostrato culturale; inutile star lì a cercare di riannodare i fili di una concatenazione logica che concorra ad intessere canonica trama, non s’assiste ad una rappresentazione teatrale tout court, ma ad una rappresentazione del teatro nel suo divenire scenico, nel suo comporsi fatto di domande contingenti e istanze ultime, teatro nel teatro che assomiglia al cinema, gli è tributario (più che debitore), teatro nel teatro che s’interroga sul teatro e, interrogandosi, affronta i propri dubbi ancestrali, postulando finanche “non un dio, ma un modesto deuccio”.
Scrittura e regia di Ludovica Rambelli piacciono per capacità compositiva, per il modo di assemblare un disordine organizzato e piace anche la qualità attoriale di una compagine che si muove (o sta ferma a far quadreria vivente) in scena come affiatato ensemble, dipingendo con corpi in affresco lo sbando di una deriva umana. Come Stracci, il protagonista de La ricotta, è un derelitto che ha bisogno di morire affinché di lui ci si accorga, così oggi sembriamo necessitare di catastrofi per accorgerci dell’umano e del progressivo disfacimento di una società che produce la propria distruzione.
L’apocrifo pasoliniano della Compagnia Malatheatre è una mescola riuscita, una via crucis reinterpretata con gustoso spessore, divertita e divertente, che mostra il non visto, lo colora, lo dipinge e lo rende manifesto, conquistando l’applauso e lasciando in pegno il sorriso.

 

 

 

 

30ennale Sala Assoli. Teatri, teatro e Quartieri Spagnoli
Apòkryphos
regia
Ludovica Rambelli
con Dora De Maio, Mauro Milanese, Massimiliano Mirabella, Giorgia Restieri, Serena Ferone, Andrea Fersula, Claudio Pisani
aiuto regia Victoria de Campora
produzione Compagnia Malatheatre
lingua italiano
durata 45’
Napoli, Sala Assoli, 11 novembre 2015
in scena dal 10 al 12 novembre 2015

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