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Thursday, 28 February 2013 01:29

“Dedicato a Bobò. Che mi ha ridato la vita”

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È difficile parlare di uno spettacolo di Pippo Delbono. Tiro un bel respiro. Chiudo gli occhi. Cerco di mettere un po’ di ordine nel fluire di emozioni. Cerco di mettere un po’ a fuoco quello che si intravede, i frammenti di realtà pensiero, essere, vita, morte, dolore, e ancora vita. Cerco di dare un ordine. Ci rinuncio. Provo a seguire un ordine narrativo? Forse, ma sciuperebbe il godimento dello spettacolo. Tiro di nuovo un respiro. Chiudo gli occhi. Sento fluire di nuovo l’energia trasmessa.

Passi. Voci. Porte che si chiudono. Tutti parati a festa nel quadro iniziale. Smocking, abiti rossi, boa rosso su abito nero, camicia nera-occhiali-scuri-crocifisso al collo. Tutti immobili sul palco, sullo sfondo la proiezione di due pretenziosi lampadari di cristallo e un quadro, forse una gigantografia, sembra una benedizione del Papa, in una cornice altrettanto pretenziosa. Si apre una delle porte della scena, sembra quella di una cella, con lo spioncino. Entra un prete col bastone, è Bobò, il trasformista, la chiave dello spettacolo, segno e simbolo del lavoro sul corpo e sulla persona che Pippo Delbono e la sua compagnia portano avanti. Sordomuto, analfabeta, vissuto per cinquant'anni nel manicomio di Aversa e poi ritrovatosi fuori, solo, senza nessuno che lo volesse, senza nessuna casa a cui ritornare.
E poi la sua voce. Calda, suadente, incantatrice. Genesi dello spettacolo. Da opera lirica verdiana per il Bellini di Catania, omaggio ai 150 anni dell’Italia, a questo spettacolo, tutt’altra cosa, ma con qualcosa che resta, come il legno trasportato dalle mareggiate, trasformato, salso, rinsecchito, lisciato e arrotondato, pronto ad essere interpretato in mille modi, purché ci siano un occhio e una mano che vi si posino e lo raccolgano. Il mare ribolle turbinoso nella proiezione sullo sfondo. Pausa. Poi il quadro si muove. Il prete si alza. Avanza col suo passo zoppicante sul proscenio, con le sue scarpe larghe, va a sedersi lateralmente, faccia al muro. Dalla porta entra una ballerina col tutù nero, fa esercizi alla sbarra, sotto gli occhi del prete, seduto, col bastone tenuto dritto davanti a sé, quasi a guidare gli esercizi della ragazza. Intanto sullo sfondo prende vita un’altra ballerina, sui trampoli, con un lungo abito bianco, il cigno bianco del lago dei cigni.
Musica, danza, fisicità, spessore di emozioni. Tutto si coagula e concentra in poche battute, magari non dette, magari suonate, magari danzate. La voce si leva nuovamente, racconta di Pina Bausch, il suo incontro, una volta, con una compagnia di zingari, l’invito a danzare con loro, la paura di non essere all’altezza, la risposta: “Balla Pina. Balla, altrimenti siamo perduti!”. E finalmente la voce assume corpo. Arriva attraversando la platea urlando. “Stiamo tutti naufragando!”. Mareggiata, mare implacabile, turbinare di acque, naufragio, siamo tutti naufragati, sommersi, le parole incalzano, la voce sale di tono, il respiro si fa più breve e teso.
Buio. Resta in scena solo una sedia. La voce riprende a raccontare, suadente e pacata, Davanti alla porta della legge. Accanto alla porta di fondo è seduto il guardiano, con la tuba e l’abito elegante. L’uomo di campagna è Bobò. Sopravvalutazione del modello: il guardiano ricorda all’uomo di campagna che lui è solo l’ultimo dei guardiani e che lui stesso non sarebbe in grado di sostenere lo sguardo degli altri guardiani della legge, al di là della porta che lui, ancora, non può varcare. L’uomo di campagna occupa la sedia del proscenio, porta una maschera bianca, inespressiva, neutra, è ormai vecchio e chiede (ma è sempre la voce che racconta tutto questo): “Tutti desiderano la legge. Come mai nessuno ha mai chiesto di entrare?”, per scoprire che la porta era per lui solo e nessun altro avrebbe potuto entrarvi.
Un passo indietro, Pippo Delbono ci racconta chi è Bobò, ci parla della sua passione per le bandiere e il suo ignorare le celebrazioni, che non appartengono al suo mondo, così come gli anniversari, lui che non conosce il suo di anniversario. Bobò, dalla voce di un uccellino, rinchiuso tra i cani, che mordono, forse non aveva mai conosciuto carezze o amore.
Pausa. Si respira tra un quadro narrativo (?) e l’altro. Le parole di Antonin Artaud, di Alda Merini, di Vittorio Sereni. Non sembra esserci un filo a legare le parole, le parole stesse a tratti sembrano perdere senso, scomporsi in nuda fisicità, onde sonore, onde d’urto, pensiero puro, luce abbagliante, presa al volo e persa immediatamente, perché troppo bruciante, quasi saetta, simbolo, realtà mutevole e sfuggente. La voce gira quasi come un coltello, in una ferita che vorremmo fare finta di non avere.
Immagini di manicomi, immagini di guerra, mutilazioni, dolore. Si può rispondere con altro dolore, perché l’uomo è malato, o si può rispondere lavorando su se stessi, sul corpo, la voce, l’immagine. Si può produrre una commovente e complessa bellezza, che ci lascia gli occhi inumiditi e il cuore desideroso di battere.

 

 

 

Dopo la battaglia
di
Pippo Delbono
compagnia Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballaré, Bobò, Chris Clad, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Marigia Maggipinto, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinelli
musiche originali Alexander Balanescu
scene Claude Santerre
costumi Antonella Cannarozzi
elaborazione costumi Elena Giampaoli
luci Robert John Resteghini
direttore tecnico Fabio Sajiz
responsabile suono Angelo Colonna
fonico Corrado Mazzone
luci, video:Orlando Bolognesi
capo macchinista Gianluca Bolla
macchinista Mattia Manna
responsabile produzione Alessandra Vinanti
organizzazione Silvia Cassanelli
amministratore di compagnia Raffaella Ciuffreda
produzione ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Théâtre du Rond Point-Paris, Théâtre de la Place-Liège, Théâtre National de Bretagne-Rennes
lingua italiano
durata 110’
Napoli, Teatro Bellini, 27 febbraio 2013
in scena dal 26 febbraio al 3 marzo 2013

 

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