“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 08 November 2015 00:00

Il Pirandello Times di Cappuccio

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Basta che lei si mette a gridare in faccia
a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti
la prendono per pazza.
(Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli)

 


Spaccanapoli Times non è drammaturgia nuova ma scrittura vecchia ed il suo tempo di appartenenza non è il 2015 ma il primo trentennio del Novecento. Questo perché il testo di Ruggero Cappuccio è un manifesto ricalco del teatro pirandelliano: nei temi, nella struttura dialogica, nella funzione assegnata ai personaggi e nelle relazioni che questi personaggi hanno tra di loro.

Cappuccio ambienta in uno spazio totalmente chiuso – decrepito salotto borghese di mamma e papà che la fissazione dei protagonisti fa apparire scenicamente composto da bottiglie d'acqua (nomen omen: casa Acquaviva) – una trama sulla follia, reale o presunta, inducendo per due ore gli spettatori ad ascoltare una disquisizione sul rapporto tra la verità e la finzione. Tutto, in Spaccanapoli Times, richiama infatti il contrasto tra ciò che e ciò che appare, tra ciò che è oggettivo e ciò che dipende dalla soggettività di chi osserva: l'indicazione che piove dal soffitto anche se "fuori è una bella giornata"; queste stesse pareti di bottiglie, proiezioni mentali poiché se ne nota il disegno sulla tela posta nel retro, metafora del mondo esterno, quando la tela viene illuminata da una pila mentre lo scorcio interno del palazzo è invece reso in maniera realistica; il gioco ripetuto della sincronizzazione degli orologi (“Che ore fate?”, “Le sei e dieci”, “Le cinque e trentacinque”, “Le sette e venticinque”) perché sia chiara la differenza tra il tempo vissuto e la cronologia formalizzata; l'opposta percezione di un medesimo luogo (del tutto mutata è Spaccanapoli, per Gabriella; “la trovai identica a come quando ero bambina” risponde invece Gennara) perché sia evidente che “non sono le cose che fanno vedere gli occhi ma gli occhi che fanno vedere le cose”; la pazzia dei quattro personaggi – fratelli e sorelle, ritrovatisi nella casa dove fanno ancora domicilio per sottoporsi a una visita di controllo: ecco il plot della commedia – che, pur essendo malattia effettiva, rischia d'essere valutata come ipotetica, fasulla, simulata: perciò “occorre sembrare” – afferma Giuseppe – giacché “questo non è un mondo in cui le cose devono essere vere ma sembrare vere” ed aggiunge: “In questo mondo ogni simulazione è alla base di tutto”.
Ad uno spettatore e ad un lettore più a
ttento, anche solo minimamente interessato al teatro che è già stato, verranno subito in mente alcune delle opere pirandelliane più celebri: dall'Enrico IV alla Vita che ti diedi, passando per Quando si è qualcuno, Il giuoco delle parti, Il berretto a sonagli; insomma il Pirandello per il quale, di citazione in citazione, “Non c'è più pazzo al mondo di chi crede d'avere ragione”, “Io sono colei che mi si crede” ed occorre avere “in corpo fiele, in bocca miele”.
D'altronde sono pirandelliani gli accenni metateatrali – richiamo ai volti come maschere e agli uomini come interpreti di un ruolo sociale – che offre pure
Spaccanapoli Times (“In questo grande teatro ci vogliono attori” mentre al “Siamo esseri incantati e rovinati”, detto da Gabriella, Giuseppe risponde “Così dobbiamo essere”); è pirandelliana la collocazione spaziale (l'interno – nel quale si resta anche a prendere il sole – come stanza della tortura mentale e dialogica di se stessi e degli altri); è pirandelliano questo apparire e sparire di fratelli e sorelle di Giuseppe, dopo aver fallito nell'essere attori di se stessi; è pirandelliana anche la funzione che assolvono le varie figure: cos'altro è – ad esempio – proprio il Giuseppe interpretato da Cappuccio se non una sorta di tardivo Lamberto Laudisi del Così è (se vi pare)? Come quel Laudisi questo Giuseppe Acquaviva fa da regista interno (“Basta, abbiamo fatto troppo naturalismo”) fino ad allestire anche la scena nella scena col terzo atto della Tosca (il melodramma come forma plateale della finzione, il terzo atto per il dialogo tra Tosca e Cavaradossi sul “simulato supplizio” e la “scienza scenica“) ; come lui fa da suggeritore di battute e da disquisitore d'ogni tema che viene argomentato, da esegeta delle altrui e delle proprie manie (“Siete vittima della crisi semantica”), da dispensatore di ragionamenti su menzogna e verità; come lui fa da risolutore presunto delle problematiche affrontate, da induttore di recita, da seminatore di dubbi; come lui sta sulla soglia tra vivere e vedersi vivere (ovvero non può più vivere, costretto com'è solo a vedersi vivere) avendo ormai acquisito la certezza che l'identità univoca è un'illusione, che la felicità è una chimera e che la normalità è una pazzia: “Dottor Lorenzi, si ricordi che lei è un essere normale” ovvero che lei è più folle di noi, che siamo folli davvero, ma non ne è cosciente.
Non ci sarebbe nulla di negativo – sia chiaro – se questo implicito recupero pirandelliano servisse a Cappuccio per interpretare il presente, cercando di coniugare in maniera ancora eversiva il discorso che già fece l'autore che nacque tra Girgenti e
la piana del Caos: autore che, a suo tempo, eversivo lo fu davvero. Tuttavia Cappuccio commette un errore d'impostazione, almeno a mio avviso: nel tentativo di evidenziare quanto più possibile il contrasto tra forma apparente e sostanza effettiva, allestisce l'intero spettacolo – ed ogni sua componente – puntando sul macchiettismo, tra esagerazione motoria e buffoneria vocale e comportamentale. Così gli interpreti sono costretti a forzare (cioè a recitare nella recita) la propria camminata, una posa, ogni singolo gesto (Gea Martire che si distende in orizzontale sulla sedia; Giovanni Esposito che passeggia in modo innaturale e coreografato; i quattro che si passano le ricette come timbrandole da scrivania a scrivania di un ufficio pubblico) ed accompagnano questa carnalità cabarettistica – che mai riesce a raggiungere la crudeltà del grottesco – con l'eccesso tonale delle battute significanti. Si tratta di un tentativo di evidenziare il gioco, la ragione del gioco e le sue regole sceniche; così, ad esempio, un dialogo può avvenire senza che ci si guardi davvero (la battuta viene rivolta a sinistra mentre l'interlocutore è a destra), una frase viene ripetuta fino a diventare tormentone momentaneo (“Ho sete”, “Non mi fare domande”, “Stai stanca?”, “Come mai tutto questo?”), una parola (“Oceano” nella frase “Che oceano di assurdità mi hai gettato addosso”) determina il cambio delle luci: lo spazio diventa subito blu mare.
Questa scelta m
i sembra un errore perché l'eversività tragica di Pirandello si basa invece sulla collocazione di una diversità disturbante all'interno di un contesto formalmente ineccepibile: Pirandello colloca i suoi pazzi illuminati nei salotti – tra divani e cuscini, vasi con fiori, tappeti, vassoi, giradischi e finte finestre che sembrano finestre vere ed al cospetto di figure incrollabilmente consuete – non perché non abbia alternative compositive (s'è inventato il teatro vuoto dei Sei personaggi, farà sorgere la Villa della Scalogna ne I giganti) ma per far deflagrare definitivamente questa realtà che riteneva avvizzita, per smascherarne l'asfittica e repressiva condizione maniacale e per mettere a processo e condannare la finta cortesia delle buone maniere (“Essere ben educati significa essere commedianti”), la significanza ipocrita di ogni dialogo compiacente, la formalità claustrofobica e inibitrice che caratterizzava atteggiamenti, scelte, convinzioni della classe sociale a cui lui stesso apparteneva. C'è strazio nel teatro pirandelliano e c'è dolore, ci sono lacrime e tormenti che battono in petto e non fanno dormire la notte e – per quanto la sua drammaturgia risponda ancora a canoni compositivi classici e sia lineare nel tono e nella struttura grammaticale e lessicale – questa stessa drammaturgia va letta e considerata come un urlo disperato, che vuole squassare, frantumare ed abbattere le pareti e le case e la società tutta nelle quali risuona fino a rimbombare: perché ne derivino, se possibile, le macerie come presupposto di una società rinnovabile o rinnovata.
In Cappuccio non c'è questa rivolta perché egli rinuncia all'ambiente necessario nel quale e contro il quale la rivolta
necessita d'affermarsi e così la cattiveria satirica che pure cerca di ottenere nel fare analisi del contemporaneo (dai bisogni indotti dal commercio promozionale alla tecnologizzazione social dei rapporti personali) in Spaccanapoli Times svilisce in sentenzialità generica e approssimativa (“Adesso non puoi essere povero”, “Ci hanno rubato la modernità”, “L'infelicità ci serve, è merce rara”); facile satira di costume (“Con tutti questi codici segreti, queste password, non si sta in guerra?”); battutismo più o meno riuscito (Émile Coué”, “Cu è?”; “Ho capito perché lo chiamano 'numero verde': perché mentre ci parli diventi verde, muori verde, il giorno dopo ti fanno un funerale verde”) quando non, addirittura, nel contrario del discorso pirandelliano ovvero nella commemorazione reazionaria e malinconica del passato (esempi: la tazzina di caffè che preparava la madre, “alle cinque del pomeriggio”; la libreria “piccola piccola” di Don Gerardo; la battuta “L'Italia era un paese bell'assai: quanta gente c'era che non faceva niente”).
Si aggiungano l'uso di alcune consuetudini comiche ormai abusate (lo scambio di persona, il fraintendimento l
ogico, la tirata vernacolare, l'uso decontestualizzato di un oggetto: la scopa che funge da microfono) ed il finale volutamente melodrammatico, con la morte solitaria dell'evocatore dei fratelli/attori/personaggi, per comprendere perché – nonostante il tentativo di associare il dialetto all'italiano e l'italiano all'inglese in una partitura che, ancora pirandellianamente, fonde lingua letteraria e lingua comune, mostra vocazione digressiva e produce brevi nonsense dissonanti – Spaccanapoli Times m'è parsa quel che ho già scritto all'inizio dell'articolo: un'opera che è vecchia, anche se ha fatto di tutto per sembrare nuova.

 

 

 

Spaccanapoli Times
testo e regia Ruggero Cappuccio
con Giulio Cancelli, Ruggero Cappuccio, Ciro Damiano, Giovanni Esposito, Gea Martire, Marina Sorrenti
scene Nicola Rubertelli
costumi Carlo Poggioli
aiuto regia e disegno luci Nadia Baldi
letture sonore Marco Betta
da La forza del destino
di Giuseppe Verdi
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli
lingua italiano, napoletano, palermitano, slang inglese
durata 2h
Napoli, Teatro San Ferdinando, 5 novembre 2015
in scena dal 4 al 22 novembre 2015

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